Un viaggio in compagnia del fantasma di Duras per arrivare a Trouville. Autrice del libro è Federica Lauto che scrive «mi piace pensare che ogni cosa inizia e finisce davanti al mare, e che coincide con il luogo in cui lei si è sentita più in pace alla fine della sua vita, anche se poi è morta a Parigi»
Di Chiara Cremaschi
Questa è la spiaggia di Trouville. È qui che termina la storia del libro di Federica Lauto ed è da qui che voglio iniziare. Marguerite, mon amour è un viaggio nei luoghi di Marguerite Duras, un viaggio che la protagonista compie insieme al fantasma della scrittrice e che Federica Lauto ha compiuto davvero. Io inizio da Trouville perché mi è un po’ dispiaciuto come finisce il libro, con la storia d’amore della protagonista, mentre mi ero davvero immersa nelle pagine precedenti, che raccontano Duras attraverso i suoi luoghi. È molto affascinante anche l’escamotage narrativo per il viaggio, che viene fornito dal fantasma stesso: «Ho lasciato in questa vita uno scritto. Un quaderno. E non riesco a darmi pace a saperlo nascosto. Sono venuta a recuperarlo. Solo che non ricordo dove l’ho messo. Dev’essere in una delle mie case. Ma quale? Non so. Mi servono un paio di braccia e di gambe vere perché quando siamo di qua, beh, tendiamo un po’ a confonderci. Col vento, per esempio. O a sbagliarci. Mi serve un ancoraggio. E poi non mi piace viaggiare da sola. E devo andare a cercarlo». La protagonista del libro accetta la sfida. E anche io.
Il volume è diviso in quattro parti, che rispecchiano le quattro fasi della narrazione/viaggio: Grado, città d’origine della protagonista (e dell’autrice); Indocina, dove si è svolta la prima parte della vita di Marguerite Duras; Parigi, dove si è affermata come donna e come scrittrice e dove ha iniziato a vivere da sola; Neau-Phle-Le-Château, che è la casa che acquistò nel ’56 e fu il suo nido e rifugio, oltre che il set dove sono nati libri e film; e Trouville, dove finisce tutto «perché – scrive Lauto – mi piace pensare che ogni cosa inizia e finisce davanti al mare, e che coincide con il luogo in cui lei si è sentita più in pace alla fine della sua vita, anche se poi è morta a Parigi, nel suo appartamento di rue Saint-Benoît, il 3 marzo 1996. La sua tomba si trova nel cimitero di Montparnasse. Da alcuni anni qualcuno ci ha appoggiato sopra dei vasi ed è possibile lasciarci dentro la propria penna, come omaggio, oppure una conchiglia».
In Italia, è difficile reperire testi di Duras. Sono stati pubblicati alcuni saggi, in molti casi introvabili, e Marguerite di Sandra Petrignani (Neri Pozza, 2014). E si conoscono poco i suoi film (diciannove, di cui quattro cortometraggi, il suo rapporto con il cinema francese, la sua rivoluzione del linguaggio cinematografico). A proposito di luoghi, dato che aveva pochi soldi, Duras girava i film nelle sue case.
Erica, la protagonista del libro, sa tutto di Duras, anche i suoi indirizzi. Ed è con quei riferimenti che parte per Hanoi. Ha tre mesi di tempo, questa è la scadenza che le ha dato l’editore che l’ha contattata sul suo blog e che le organizza il viaggio. Io non posso seguirle fin lì, fino al sobborgo sepolto nella memoria di Gia Dinh, a trenta chilometri da Saigon, o a Saigon, nella villa circondata dai tamarindi o al pensionato a Hanoi, dove la madre di Duras aveva cominciato ad avere dei pensionanti, oppure nell’appartamento a Phnom Penh, o in quello a Vinh Long, o nel bungalow costruito su palafitte a Prey Nop. Posso solo immaginare quei paesaggi che restano in molti dei suoi libri, che la protagonista esplora e che Duras afferma di avere ritrovato a Trouville. Io, però, posso attraversare la Senna e cercare, grazie a questo libro, Duras a Parigi, la città che Duras amava, come me. Il suo fantasma non mi parla, ma la immagino ai giardini del Luxembourg, lungo le vie lucide di pioggia dei Boulevard e quelle intime e strette del quartiere di Saint-Germain.
Mi incammino, quindi, seguendo Erica, la protagonista, fino al 16, Avenue Victor Hugo. Ai tempi di Duras questo edificio era in stile Art decò, con grosse pigne di pietra sulle colonne davanti al cancello, ma è stato restaurato nel 1994 e adesso le pigne sono sparite e anche le colonne. È rimasto un palazzo discreto, senza infamia né lode. Marguerite Duras ci abita per pochi mesi, dopo il suo arrivo dall’Indocina. Lei e il fratello abitano al settimo piano. Accennerà a questo luogo nel suo primo romanzo, mai tradotto in italiano, Les Impudents. Parlerà del mormorio della valle che entrava nella stanza quando si apriva la finestra e del sole che tramontava dietro pesanti nuvole, delle fabbriche nelle periferie e dell’aria carica di una nebbia sottile che faceva credere di essere al mare. Poi mi incammino fino al 4, Rue Vaugirard.
Dopo il funerale della donna che il fratello faceva prostituire, Marguerite se ne va. Sua madre le ha dato una somma di denaro che è riuscita a salvare dalle mani del fratello. Grazie a questa, si sistema in un piccolo appartamento al numero 4 di rue Vaugirard. Ora c’è un albergo. Al 5 di Rue Chomel, c’è un hotel discreto ed elegante, l’Hôtel Signature Saint-Germain-des-Prés. All’epoca, Marguerite si era iscritta all’università. Alla Sorbonne, facoltà di Diritto. Se all’inizio si era iscritta a matematica, era giusto per dare un contentino a sua madre e farle credere che avrebbe seguito davvero le orme del padre. Ma quell’illusione non era durata molto. Il padre era morto. E lei non era suo padre. Di iscriversi a Lettere, però, non c’era stato verso. «Quando avrai un lavoro scriverai quanto vorrai», aveva detto la madre. Se doveva spendere i soldi per farla studiare doveva essere per una formazione vera. Seria.
Eccomi all’11, Rue Tronchet. Duras abitava in un appartamentino di rue Sainte-Félicité e aveva iniziato a lavorare. L’anno prima si era laureata e con le sue specializzazioni tutte nuove, una in diritto pubblico e l’altra in economia politica, aveva trovato un posto al ministero delle Colonie. Il suo ufficio si trovava al numero 11 di rue Tronchet. Suo marito Robert aveva iniziato a lavorare nella prefettura di polizia al boulevard du Palais, dove sarebbe rimasto fino all’anno successivo, quando lo avrebbero assunto al ministero della Produzione industriale. I tempi non erano felici. Era il 1941, erano cominciate le persecuzioni contro gli ebrei. Infatti, poi, Marguerite e Robert si trasferiscono in una nuova casa, Rue Paul Barruel. In quel quartiere sembrava ancora di stare per metà in campagna. Lì si mescolavano scuole comunali e latterie. E, finalmente, Rue Saint-Benoît. Un luogo di scambio e di accoglienza. C’era sempre una camera libera per gli amici. Si chiacchierava, si beveva, si cenava insieme. E si parlava della guerra. Tra un bicchiere di vino e un piatto di minestra si commentavano Stendhal, Nietzsche o il tempo che faceva. Quando Marguerite si stufava, si chiudeva in camera e cominciava a scrivere. Era l’unico modo per dimenticare il dolore.
Purtroppo non riesco ad andare a Neauphle-Le-Château, la casa di campagna che è davvero casa e anche luogo di creazione e relazione per libri e set cinematografici, ma Erica, la protagonista del libro, certo che ci va.
Sono d’accordo, questa storia inizia e finisce davanti al mare. Marguerite aveva acquistato l’appartamento di Trouville in un giorno d’estate. Aveva visto l’annuncio un mattino su Le Figaro. Tre ore dopo era a Trouville. La proprietaria, le aveva mostrato le stanze: due camere da letto, una cucina all’americana con soggiorno, un piccolo bagno, un balcone ad angolo che dava sulla spiaggia. Marguerite lo aveva acquistato subito. Ed è su questa spiaggia che la salutiamo, il quaderno è stato trovato e Erica/Federica ha scritto il suo libro. Io fotografo dei cani che corrono felici.
Federica Lauto, Marguerite mon amour, Le plurali editrice, 2024

Chiara Cremaschi

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