I naufraghi e noi

Chiara Palumbo, 1 settembre 2024

E se fosse tuo figlio? Sono, spesso, “mio figlio”, i corpicini che finiscono nel conto a quattro cifre dei morti dell’ultimo anno nel Mediterraneo centrale, per coloro che – quel bambino – possono incontrarlo nell’istante prima, e hanno deciso di essere lì per fare la differenza tra vivere e morire. Anche per Caterina, protagonista di Molto tanto tanto bene l’esito narrativo di un percorso che Caterina Bonvicini ha iniziato con il libro Mediterraneo, per lo stesso editore, sul fronte della scrittura. Ma che ha cominciato, in realtà, nel 2010, quando per la prima volta ha indossato, sopra gli abiti della giornalista, scarponi e abiti comodi da soccorritrice per trascorrere settimane sul ponte di una nave di ricerca e soccorso.

C’è lei, dietro le spalle in una foto celebre in cui, con la parola Rescue sulla schiena, tiene un bambino tra le braccia. Lo ha fatto, poi, altre volte da cronista che voglia svelare cosa accade davvero, lontano dalla propaganda, nel più grande cimitero a cielo aperto del mondo. Lo fa, dimenticata l’eccezionalità delle prime volte, con l’ostinazione pragmatica di chi, da anni, tende le mani a chi sta sul confine tra vivere e morire per consegnare attivamente un’ipotesi di futuro. All’indomani di un’esigenza di sincerità e di un prezioso esercizio chiarificatore come quello di Mediterraneo, la voce della narratrice torna con empatica raffinatezza nel romanzo in cui Caterina risponde a un impulso personale e, insieme, alla domanda provocatoria dei razzisti di ogni latitudine “perché non li porti a casa tua?”, Perché, racconta, è vero che il mare fa sostituire alle miglia ogni prossimità, e ogni paio d’occhi può diventare famiglia elettiva. Anche quella di una ragazza che nei suoi trent’anni non ancora toccati ha visto tutta la vita necessaria, sul confine, e da questa altezza svela il maschilismo imperante tra i marittimi di mestiere e per scelta, non di rado ostili al comando di una donna. Nelle pagine di Bonvicini si chiama Ottavia, ed è il metro su cui si può misurare la vita del mare. Dove ogni sentimento è amplificato, dove – con un diapason più violento della terra – esplodono le rabbie e le timidezze, le crudeltà e le appartenenze. E si impara a riconoscere e riconoscersi davvero, spesso sorprendendosi.

Anche la cosiddetta flotta civile può tradirsi e detestarsi (chiedere a chi ha venduto a un’altra ONG una nave del 1951 e poi ha brindato all’affarone) e al contempo mettere a valore talenti. Sono i timidi, ad esempio, i più sicuri, quando c’è da salvare una vita e i più tronfi, invece, quelli che cedono alla morsa del panico, perché gli è mancata la lucidità di rinunciare a salire a bordo. Il Sar, (Search and Rescue, la ricerca e fornitura di aiuto) nelle parole appassionate e precise di Bonvicini, è il più straordinario e spietato esercizio di umiltà: tra compagni d’equipaggio, dove le biografie non pesano più, e verso chi compare dal buio della notte, chiedendo aiuto. Con cui la sfida più difficile non è fronteggiare l’istante della morte vicina, quando l’odore di disperazione, benzina, deiezioni e di paura, riempiono l’aria. Quando bisogna applicare le regole ripetute ogni giorno fino a che non si fanno istinto, per tenere un naufrago tranquillo abbastanza, lontano abbastanza, perché non faccia rovesciare quelle che sempre più spesso sono solo ammassi di lamiere mal saldate. Quando alla scelta senza appello di “chi tirare fuori dall’acqua prima se (come spesso accade) sono già tutti in acqua la risposta è “nessuno”, perché l’urgenza è, invece, che tutti galleggino, perché se non sono in balia delle onde tutti sono salvi. Quando si deve raccogliere in se stessa la calma necessaria ad essere la prima voce che grida “Europa”. Voce di donna, perché solo così il naufrago saprà che quelle mani non lo stanno consegnando alla Libia, ai lager che fingiamo di non vedere, alla morte per capriccio di un carceriere, alle torture riprese con il cellulare perché a casa trovino il modo (debiti o villaggi interi) di pagare ancora soldi per non vedere il figlio morire in diretta smartphone.

L’esercizio più complesso – ed è il merito maggiore del commuovente libro di Bonvicini – è vincere la “Sindrome di Dio”: la convinzione di potere tutto, l’obbligo alla gratitudine che, inconsciamente, talora si impone a chi sopravvive, soprattutto se, come scelgono di fare Caterina e suo marito Riccardo, l’istante in cui gli occhi di una bambina che veglia sua madre priva di sensi la trasformano, per la soccorritrice, in famiglia. È così che Amy, una manciata d’anni e occhi intelligenti, e sua madre Chantal, ventitre da compiere “partite elegantissime, senza una sola cosa” diventano, per Caterina, l’impegno a costruire un futuro condiviso. È una nuova sfida scrivere il dopo, che per Caterina prende la forma di una casa, di infinite pagine di burocrazia, degli astucci per la scuola da riempire, di giocattoli nuovi, diversi da quelli che le navi di Ricerca e soccorso sono costrette a stipare nella stiva per i bambini che partono, sempre più spesso soli, affidati al mare confidando nel “forse” di una salvezza, o generati dalle violenze a cui, lungo il viaggio, nessuna donna sfugge.

La sfida del futuro si fa quasi ossessiva quando Riccardo e Caterina scoprono che nel passaggio del Mediterraneo al conto manca una vita: quella del piccolo Bubà, fratello di Amy, rimasto di là del mare con Odette, che chiamano zia e per cui, tuttavia, il bambino è il lasciapassare per un’altra vita. Così come nel mare, infatti, si sfarina il confine tra giusto e sbagliato, tra egoismo (anche quello di chi ha fatto di una vita salvata “quello che mi riguarda”) e dedizione, tra cura e controllo. Non è tutto promettersi, e se si riesce anche sui documenti, di essere insieme per sempre. Perché dall’altra parte ci sono degli individui, con le idee confuse dei vent’anni o, semplicemente, con la voglia di vivere. E se vogliono – o se stanno male, in Libia o nel Sahara – semplicemente se ne vanno, o seguono la via che vogliono essere loro a tracciare. In terra come sul mare, dove a vent’anni, se hai scampato la morte, la vita, il desiderio e l’incoscienza strappano ogni regola. Con la strafottenza dovuta di chi lascia indietro chi si preoccupa per loro, ed è costretto ad imparare che per fare la cosa giusta non serve amare chi sta dall’altra parte. E che anche essere salvati non è un dovere. “Solo in mare puoi obbligare qualcuno ad essere salvato”, solo davanti alla morte. Far vincere la vita significa, anche, perdere. E poi guardarsi indietro, al mare tornare, a tendere le mani ai naufraghi o magari in vacanza. E a dirsi “saremo come scogli levigati dal mare: il Mediterraneo logora”, chiedersi se ne vale la pena. E rispondersi che, alla fine dei conti, il diritto alla vita significa aver diritto alla scelta. E che i figli, soprattutto quelli che ti consegna il mare, non sono tuoi, quando sono vivi. Sono della loro madre, che sappia o meno dove sta andando. E sono del mondo che vogliono riprendersi.

Caterina Bonvicini, Molto tanto tanto bene, Einaudi 2024

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Chiara Palumbo

Chiara Palumbo, femminista intersezionale e attivista LGBTQ+, è giornalista e autrice di podcast. Lavora nell’ambito della comunicazione editoriale e culturale, con qualche sentita incursione nel terzo settore. Messe in tasca una laurea specialistica in comunicazione e un master in editoria, ha scritto e scrive di teatro, letteratura, attualità e tematiche di genere per diverse testate, tra cui F, la 27esima ora, la sezione online del Sole24ore, Cultweek e Artapartofculture.net. Ha curato "Mostri Sacri" (FVE), "I sentinelli" (Edizioni Tlon) e partecipato al volume "Un sogno per tutti" (Skira).

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