Limare le parole

Amanda Rosso, 2 agosto 2024

Fredda, Gingillo e Riccioli d’oro si incontrano in un cassetto. Sono i feticci di un serial killer. Da questa premessa si dipana “Trofeo”, la glaciale e precisa novella di Emanuela Cocco, che sceglie un punto di vista obliquo per esplorare la violenza e l’ossessione, ma anche i meccanismi della memoria e la nostra relazione compulsiva con gli oggetti. L’abbiamo intervistata

Di Amanda Rosso

La prosa di Cocco, tesa e millimetrica, mantiene un equilibrio controllato fra il detto e il non detto, e non si avvale mai del facile escamotage del drammatico. Il linguaggio, precisissimo ed evocativo, viene passato al setaccio, ripulito, purificato, per lasciare scoperte le nervature delle parole, affidare alle immagini la complicata responsabilità del narrare.
Trofeo è un libro che chiunque voglia scrivere deve leggere, perché è un esempio fulgente di quella che è la responsabilità della scrittura, non solo verso l’argomento trattato, ma verso il linguaggio, verso la parola scritta. La responsabilità della scrittura di riflettere prima di tutto sul senso e sull’efficacia del suo medium per riconsiderare la natura stessa del raccontare. Chiedersi perché scriviamo vuol dire interrogarsi sulla scrittura come linguaggio di riferimento. Perché la narrativa, perché la parola scritta anziché una canzone, un podcast, una fotografia? Cosa significa scrivere quando la forma stessa del romanzo, del racconto, della novella, sembra ossificarsi su uno sciagurato ideale di leggibilità e chiarezza, scorrevolezza e impatto emotivo?
Di questo e molto altro ho parlato con Emanuela Cocco, scrittrice, editor, una delle menti e dei corpi dietro (e dentro) Degrado Rivista, è curatrice della collana Trema di Edizioni Arcoiris e nella squadra di Scrivere di Notte.

Ti ringrazio di essere stata così disponibile, fra un refuso e un pancake, a chiacchierare con me di Trofeo, letteratura, degrado, ispirazione e noir.
Comincio col chiederti come è nata e si è sviluppata l’idea di una novella così particolare, per tematiche, punto di vista e linguaggio…
L’idea di Trofeo nasce dall’abitudine che ho preso, nella vita e quando scrivo, a provare a spostare il punto di vista, a vedere le cose da un’angolatura diversa, questo perché mi piace scrivere, o almeno ci provo, contro l’aspettativa del lettore. Così riflettendo sui serial killer e i loro trofei ho pensato che questi oggetti, di solito inanimati, invece si animano perché impersonano le vittime da morte. Gli oggetti diventano feticci, e quindi sono umanizzati, per far tornare dalla morte questi corpi, invece resi oggetti dall’omicidio. E allora ho immaginato questo oggetto che di colpo è consapevole di essere uno strumento utile al soddisfacimento sessuale di un altro, che è la condizione che noi esseri umani scopriamo poco a poco, procedendo nella vita. Questo oggetto invece si trova catapultato in questa performance sessuale, che solo dopo lui scoprirà essere macabra. E questa sensazione di corpo senziente investe l’oggetto, lo gratifica, lo terrorizza. Ecco che la gonna viene al mondo, scambia il sesso per amore, non sa bene cosa sia l’amore, del resto non lo sappiamo neanche noi.

Il tema della violenza contro le donne è allo stesso tempo mainstream e completamente fuorviante. Le narrazioni attorno ai femminicidi ancora faticano a trovare un linguaggio che possa restituirne la complessità. Trofeo si insinua in un territorio sconosciuto, riannoda dei fili scoperti, ci costringe a immaginare da capo le dinamiche di potere e di violenza del quotidiano…
So di essere monotona perché cito sempre Fassbinder, ma lui è il mio mentore per eccellenza, forse l’artista che in assoluto sento più vicino a me. E mi viene in mente un suo lavoro teatrale del periodo dell’antiteater, “Libertà a Brema”. A un certo punto la protagonista, Geesche, che per trovare la sua libertà ha dovuto uccidere chi voleva costringerla a essere altro da sé, chiede a una sua amica: Non ti è mai venuta la voglia di sapere del mondo più di quanto non sai già? Lei è una delle donne tipiche dei film di Fassbinder, una che deve riconquistare il suo sguardo, che prima di scoprire di appartenere a sé stessa deve passare attraverso la schiavitù, la sopraffazione, la violenza, e tutto perché il possesso di sé, per una donna, non è una cosa data, ma è ancora e sempre qualcosa per la quale si deve lottare, uno scontro all’ultimo sangue. Così è per Maria Braun, per Martha, Veronika Voss, come per Effi Briest o per Nora Elmer, le protagoniste dei suoi film indimenticabili. Ecco Fassbinder dice qualcosa che andrebbe sempre ribadito quando si parla di femminicidio, e cioè che la guerra è sempre in atto, che non è un dramma della passione ma della contingenza, un problema politico che continua a esistere anche quando non ci sono corpi a terra, spogliati e mutilati. La guerra è nelle dinamiche di potere, nel diritto del più forte, nella strutturazione della vita familiare di un certo tipo, nell’organizzazione del lavoro e della cura della famiglia, nel vedere la relazione come tutela, presa in carico di un individuo da parte di un altro, nell’azzeramento dell’immaginario che viene silenziato dalle incombenze domestiche.
Quando scrivo cerco sempre di immaginare, come dice Geesche, qualcosa che non conosco, perché la voglia di sapere del mondo più di quello che già penso e so non mi abbandona mai, vorrei che non abbandonasse mai nessuna donna, che tutte potessimo sempre reinventare noi stesse, scoprire nuovi confini del nostro desiderio, usare il corpo come meglio crediamo, perché nostro è il corpo e la sua rappresentazione. L’unico modo per guardare oltre la desolante realtà che viviamo è mostrare la contraddizione, renderla protagonista inquadrandola in modo da farla tornare visibile.

E a proposito di linguaggio, vorrei che mi parlassi proprio di questa lingua tagliente e biforcuta (nel senso proprio di una lingua che guarda in diverse direzioni) lucidissima, impietosa.
Le direzioni in cui può muoversi la lingua sono infinite, non è bellissimo? Cerco di muovermi verso la luce, attraversando zone piene di buio cerco sempre le frasi che brillano. Le parole mi affascinano, nessuna esclusa. La loro combinazione, la possibilità di farle suonare, di creare un testo che funzioni così come io voglio che funzioni. La parola non coincide mai con l’oggetto che da lei viene nominato, ma può contribuire a cambiarlo di segno, a deformarlo, a renderlo nuovo, in un gioco in cui associazioni mentali e connotazioni arbitrarie fanno la differenza, nella frase, tra ciò che è vivo e quello che non lo è, tra il testo nato morto e quello che si agita, che ride oppure urla, tra le frasi opache e quelle che brillano. Leopardi parla di risonanze, di parole ricche di risonanza, sono quelle che cerco, spazi percepibili ma al tempo stesso indefiniti.

Mi sembra che la forma breve del racconto e della novella, che purtroppo faticano ancora a essere investiti della stessa legittimità del romanzo, si prestino a questo lavoro di cesello e limatura che fa risplendere la scrittura. Qual è la tua relazione con la forma breve?
Amo i racconti, non faccio altro che leggerli. Sono misteriosi e intensi, così come lo siamo noi, a volte, come lo sono le nostre azioni, le nostre motivazioni inaccessibili a chiunque se non a noi stessi. Mi piace vedere come in un racconto qualcuno resti completamente impantanato nella prova che la vita gli pone di fronte e a volte riesca a uscirne solo abdicando alla presunzione di capire fino in fondo cosa sta accadendo. Cosa c’è da capire? Cerchiamo di districarci da tante situazioni che sono estranee ai nostri piani, mentre o facciamo il tempo a disposizione è sempre troppo poco e alla fine quello che resta sono immagini parziali di un disegno che non comprenderemo mai nella sua interezza, ammesso che ci sia, cosa che non credo. La situazione in cui si muovono tanti racconti memorabili è più o meno questa. Ultimamente sono rimasta sbalordita dalla bellezza di alcuni racconti di Paula D. Ashe (“Siamo qui per farci male”, Zona 42). Sono racconti estremi, scritti con una lingua matura, sofisticata eppure mai oscura, sono uno specchio deformato che, proprio per la natura disturbata dell’immagine riflessa, lascia intravedere in modo atrocemente chiaro quello che tutti viviamo senza quasi più prenderlo in considerazione sul serio. Abbiamo paura, siamo abituati a vivere nella paura ma è proprio dimenticarlo, lasciare che questa paura resti silenziosa in noi, a rendere tutto più spaventoso. Certi racconti, come questi, danno un corpo alle nostre paure. Osservare l’aspetto mostruoso delle cose può essere tremendo, ma esercitare il nostro sguardo è importante, è il compito che dobbiamo assegnarci da soli per rendere questo posto un po’ meno terribile, dato che dobbiamo viverci.

Oltre a essere scrittrice sei anche editor. Lavorare con i testi degli altri richiede tutta un’altra serie di competenze e di sinergie. Cosa significa per te questo continuo scambio fra la tua scrittura e la scrittura di altri e altre?
Da tanto tempo ormai sono convinta del fatto che scrivere sia prima di tutto una questione di perdita del senso della propria importanza, in questo il mio lavoro come editor mi ha aiutata, perché mi metto da parte, non sono sopra o dietro il testo di qualcuno, abolisco ogni giudizio, siedo accanto all’autore che lavora con me e vediamo di fare insieme il nostro lavoro, senza imposizioni o spocchia, senza nessuno sfoggio di autorevolezza, mi sentirei ridicola, altrimenti. Insegnare e fare l’editor mi ha fatto diventare una scrittrice migliore. Questo lo so per certo. Ora per me solo le questioni del testo sono cruciali, il resto deve restare fuori dalle frasi. La perdita del senso della propria importanza è il requisito indispensabile a prendere sul serio il proprio lavoro ed è quello che voglio passare agli autori che lavorano con me. Se sei disposto a passare del tempo con la tua scrittura, a capire che se questa forma che hai dato alla tua storia è una forma che hai raccolto da qualche parte, o anche una sagoma di cartone con sopra stampata la tua faccia e non una cosa che hai creato con spirito di serietà e abnegazione, allora abbiamo un bel punto di partenza. Per il resto sono stata fortunata con gli autori che hanno scelto di lavorare con me. Mi accettano così come sono, sanno che odio il telefono, che non sono una super espansiva, che se il testo ha bisogno di un intervento per non crollare lo dirò chiaro e tondo. Anche per questo mi sono messa a girare dei video sul canale di Scrivere di notte in cui affronto ogni aspetto della scrittura mi verrà in mente. Mi va di mostrare gratitudine in un modo concreto e poco stucchevole. Andate a guardarveli perché non avete idea del tempo che ci metto a farli!

Di sguardi obliqui e liminali, in un certo senso, si occupa anche Degrado Rivista, che hai fondato assieme ad Andrea Zandomeneghi ed Elena Giorgiana Mirabelli. Parlaci di questo progetto importante nel panorama delle riviste letterarie…
Una rivista in questo momento della mia vita non l’avrei fatta in nessun caso perché tanto e mi serve tempo per scrivere, ma con Elena e Zando mi sono detta di sì. I motivi sono tanti. Molto ha a che fare con la nostra idea di letteratura ma non sarebbe bastato, è una cosa che riguarda la qualità della relazione tra le persone, posso fare qualcosa solo con chi stimo e loro hanno la mia stima, oltre che il mio affetto. Per loro la letteratura è ancora qualcosa che va oltre la distribuzione libraia, noi spesso ci mettiamo a parlare di quello che stiamo facendo, e spesso stiamo studiando, stiamo approfondendo cose che ci interessano sul serio, che nessuno ci ha chiesto di leggere e questo per me ha un grande valore ed è nello spirito della rivista. Poche cazzate e molte pagine lette o scritte, questo è quello in cui crediamo. E poi Andrea e Elena non sono persone amare, con loro il mio livello solito di disincanto scende invece che salire. La premessa andava fatta perché una rivista è le persone che la fanno, e infatti ci tengo a nominare anche Claudia Putzu, che si è aggiunta in seguito ma che sta dando tantissimo al progetto. Degrado è una rivista in cui regna la libertà, siamo usciti con tre editoriali diversi in cui ognuno presentava agli altri e a chi avrebbe letto, la sua idea di rivista e di approccio alla letteratura, però ci ritroviamo tutti nel motto della rivista: IL DEGRADO È LA NEGAZIONE DEL DECORO OVVERO DELL’IDOLATRIA DELLA CONVENZIONE.
Ecco, si fottano il decoro e la convenzione. E poi non si tratta mai solo di letteratura, lo sappiamo.

Io sono una fan di Scrivere di Notte, la tua scuola di scrittura online, della newsletter e del canale Youtube. Scrivere di Notte “è soprattutto un modo di stare nel testo, qualcosa che ha a che vedere con l’intensità, con la profondità e il riconoscimento”, scrivi. Trovo questo concetto estremamente importante per chiunque voglia fare letteratura, chiunque si trovi a interrogarsi sul processo di scrittura che ha a che fare con il saper leggere e il saper entrare nel testo, sapersi interfacciare con la letteratura che è venuta prima, ma anche quella che abbiamo attorno. Mi sembra un ideale di interrelazione davvero cruciale…
Per questo approccio devo sicuramente sempre ringraziare quello che mi hanno insegnato professori come Paolo Bertetto e Francesco Muzioli. Stare nel testo (anche filmico) e indagarlo, e porre delle domande al testo alle quali solo la lettura e la visione profonda possono dare risposta, Ci credo molto in questa cosa. Vorrei sempre scrivere qualcosa in cui sia bello sprofondare, e la mia posizione verso la scrittura è quella di chi ha voglia di capire cosa sta leggendo ma anche come è fatto, quale pensiero c’è dietro e dentro le parole. Poi questa attenzione ai testi è sempre anche una specie di duello con cose più grandi di noi. E poi una volta che scendo lì le parole si aprono, le frasi sono porte girevoli e il mondo cessa di restringersi perché in ogni testo ci sono queste scelte affascinanti, su chi voglio essere e quindi, con Sartre, sull’uomo come dovrebbe essere. “Il principale testo del sublime è la vita stessa con le sue scelte morali”, è detto nel De Sublime. E sono d’accordo. Scrivo e studio per capire come stare al mondo, è il mio modo di stare al mondo, quello che ho scelto. Quando scriviamo un mondo lo scegliamo, in un testo ogni cosa è scelta e visone, e ragionare su queste scelte è una delle cose che rendono la vita degna di essere vissuta. Questo e i pancake, ovviamente.

Per finire, come faccio sempre, ti chiedo… cosa legge Emanuela Cocco? Nei ringraziamenti di Trofeo hai menzionato l’immaginario che ti ha guidata nella stesura, che ti ha ispirata e accompagnata durante la scrittura.
Come dici le interferenze che riguardano “Trofeo” le ho citate alla fine, quindi non le ripeto qui. Dico solo che in esergo ci sono i versi di una poesia di Samuel Beckett e non avrebbe potuto essere altrimenti. Ora sul mio tavolo ci sono diversi libri (come al solito) alcuni senza tempo, altri di contemporanei. Sono libri che sto leggendo o che leggerò nei prossimi mesi. Ecco un bel listone direttamente dalla mia scrivania, fammi vedere un po’: “Riddance” di Shelley Jackson (Rina Edizioni), “La scrittrice nel buio” di Marco Malvestio (Voland), “Il lettore dell’acqua” di Silvia Tebaldi (Zona 42), “Saggi gnostici” di Jon Fosse (Cue Press), “Piccoli atti di misericordia” di Dennis Lehane, “Il canto della fortuna” di Chiara Bianchi (Salani) “Materia prima” di Sergio Oricci (Transeuropa), “La sindrome di Ræbenson” di Giuseppe Quaranta (Atlantide). “Gli stupidi e i furfanti” di Salvatore Toscano (Baldini+Castoldi), “Giorni al neon” di Linda De Santi (Prospero Editore), “Centomila tulipani” di Elisabetta Giromini (Morellini). Poi, le riletture: “Voracità” di Elfriede Jelinek (Frassinelli) “Le serve” di Jean Genet, “Il mio nome era Dora Suarez” di Derek Raymond (meridianozero).
Aiuto! Sono tanti, potrei continuare, ce ne sono ancora sul tavolo. Leggo molti contemporanei, perché sono curiosa, perché conosco questi autori e ci ho lavorato insieme, o perché mi incuriosiva il libro, ma soprattutto perché vivo in questo mondo, mi piace leggere quello che fanno gli altri e confrontarmi con altri su cosa stiamo scrivendo, cosa vorremmo fare e non abbiamo ancora fatto. Però non mi sento in obbligo di leggere e di dire la mia su tutto, ci sono anche molti libri che non mi interessano e non leggerò, potrei passare anche un anno a leggere un solo libro, non è una questione di numeri e in ogni caso leggo lentamente. Di correre non ho voglia, e poi perché dovremmo farlo? Io quest’anno ho letto più di 100 libri…scherzo, non ne ho idea in realtà, non li conto. Grazie per questa chiacchierata!

Emanuela Cocco, Trofeo, Zona 42, 2023

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Amanda Rosso

Amanda è nata e cresciuta nell'entroterra ligure. Si è laureata in Comunicazione all'Università di Pavia e ora vive e lavora a Londra, dove ha conseguito un Master of Arts in Modern Languages and Comparative Literatures alla Birkbeck University. I suoi racconti sono apparsi su "Narrandom", "Quaerere", "Malgrado le Mosche", e in alcune antologie online e cartacee, fra cui “Musa e getta. I racconti delle lettrici e dei lettori” (Ponte alle Grazie, 2021) e “Il corpo c'è” (Vita Activa Nuova, 2023). Ha co-tradotto la raccolta di racconti "Donne d'America" (Bompiani, 2022) a cura di Giulia Caminito e Paola Moretti. Fa parte dell'attuale direttivo della Società Italiana delle Letterate.

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