Decapitata a Houston la statua dell’artista pakistana Shahzia Sikander che lavora sulla soggettività delle donne, sulla ricerca di un senso di sé autonomo rispetto all’idea del femminile nella cultura patriarcale. In febbraio l’organizzazione antiabortista Texas Right to Life aveva definito la sua “Witness” un «idolo satanico dell’aborto»
di Mariella Pasinati
Decapitata. È accaduto l’8 luglio scorso ad una statua esposta nel campus dell’Università di Houston, mentre sulla costa del Texas infuriava l’uragano Beryl. Si tratta di Witness (2023), una scultura maestosa che rappresenta una figura femminile allegorica realizzata dall’artista pakistana Shahzia Sikander che vive e lavora a New York. Non si sa ancora con esattezza a chi attribuire l’atto vandalico ma si ritiene che il danno sia intenzionale, a causa di un precedente. Lo scorso febbraio, infatti, l’installazione dell’opera era stata oggetto di veementi proteste da parte dell’organizzazione antiabortista Texas Right to Life che aveva intimato all’università di «tenere l’idolo satanico dell’aborto fuori dal Texas». L’opera non è stata rimossa, ma la risposta dell’istituzione non è stata limpida: cedendo alla contestazione, sono state annullate la prevista cerimonia di inaugurazione della scultura e la conseguente conferenza di Sikander in università con la giustificazione che l’opera era “offensiva per alcune persone”.
Ma cosa ha suscitato l’ira dei pro-vita statunitensi? Witness è una delle opere presentate lo scorso anno a New York all’esposizione site-specific all’aperto Havah … to breathe, air, life realizzata su commissione del Madison Square Park Conservancy di New York, in collaborazione con Public Art of the University of Houston System. Oltre all’imponente Witness, collocata all’interno del parco, la mostra proponeva NOW, un’altra figura femminile di ridotte dimensioni, posta sul tetto della vicina Divisione d’appello della Corte suprema dello Stato di New York; completavano l’esposizione un’opera precedente, Reckoning (2020), un’animazione di quattro minuti visibile ogni giorno dopo il tramonto e Apparition (2023), un’esperienza di realtà aumentata da catturare via Snapchat dal telefono. Dopo l’esposizione newyorkese (febbraio-ottobre 2023) Witness è stata portata all’università di Houston insieme a Reckoning, per una mostra temporanea visitabile fino ad ottobre prossimo.
Shahzia Sikander è nota per l’uso di una forma espressiva antica, preziosa e complessa: la miniatura indo-persiana che l’artista ha voluto recuperare dal passato, innovare e rendere contemporanea, nella convinzione che il rapporto con la tradizione non limita né riduce l’ampiezza dello spazio creativo e della visione ma, anzi, li dilata. A partire da una prospettiva femminista e postcoloniale, prova pertanto a raccontare le inquietudini del presente, attraversando e mettendo in discussione confini nazionali, culturali, e storico-artistici. E così mentre da un lato dipinge meticolosamente la superficie seguendo la tradizione, dall’altro la sovverte, sia allargando il campo dei media impiegati (oggi comprendono animazione, tecniche miste e scultura), sia sperimentando con le dimensioni, frantumando e ricomponendo le forme e disfacendo lo spazio della miniatura secondo una modalità di operare attraverso cui si esplicita la “rottura della rappresentazione patriarcale” (Jan Howard). Sul piano dei contenuti il suo lavoro poetico ed estetico è infatti fortemente centrato sulla soggettività delle donne, sulla ricerca di un senso di sé autonomo rispetto all’idea del femminile dominante nella cultura patriarcale, sulla tensione tra donne e potere.
Sono proprio due corpi di donna luminosi e dorati a dare forma a Witness e NOW che Sikander ha concepito, pur con alcune significative differenze, in connessione formale e tematica, mettendo al centro il rapporto problematico tra donne e giustizia.
L’ispirazione l’aveva tratta dalle imponenti statue che adornano la parte sommitale del tetto dell’edificio della Corte d’appello: nove opere, realizzate alla fine dell’800 da autori diversi, che raffigurano personaggi della storia del diritto. Sono tutti uomini. Lì riuniti a rappresentare i grandi sistemi giuridici o filosofici del mondo – Confucio (la legge cinese), Mosè (la legge ebraica), Zoroastro (persiana), Alfredo il Grande (anglosassone), Licurgo (spartana), Solone (ateniese), re Luigi IX (francese), Giustiniano (diritto romano) e Manu (mitico autore delle leggi indù) – mostrano inequivocabilmente il soggetto che, simbolicamente e concretamente, ha esercitato la giustizia.
Sul decimo piedistallo, vuoto dal 1955 (i governi di Egitto, Pakistan e Indonesia chiesero allora la rimozione e distruzione della statua di Maometto in quanto la legge islamica ne vieta la rappresentazione), Sikander decideva così di collocare, sullo stesso piano delle personificazioni maschili della giustizia e del potere patriarcali, una figura femminile.
Non si tratta, tuttavia, della classica allegoria della Giustizia, rappresentata nella tradizione iconografica occidentale come una donna bendata o con la bilancia in mano: la scultura di Sikander ha occhi aperti che guardano con determinazione davanti a sé. Né, d’altro canto, l’artista intendeva identificare un soggetto specifico, a sottolineare invece che nessuna “persona” collocata «su un basamento può rappresentare storie, ideologie o esperienze multiple» (Sikander).
Non sfugge tuttavia un riferimento diretto alla figura luminosa della giudice Ruth Bader Ginsburg, componente della Corte Suprema degli Stati Uniti e attenta difensora dei diritti delle donne. E non per caso. Pochi mesi prima che Sikander realizzasse queste opere, infatti, la Corte Suprema aveva annullato la sentenza Roe vs. Wade rendendo di fatto possibile, ai singoli Stati dell’unione, vietare l’interruzione di gravidanza, una sentenza che ha già cambiato la vita a milioni di americane.
L’omaggio a Ruth Bader Ginsburg si legge in particolare attraverso un dettaglio fisico che troviamo in entrambe le sculture: il caratteristico jabot plissettato indossato dalla giudice, reinterpretato come unico ornamento sulla tuta dorata che ricopre il corpo delle due figure.
Anche il titolo della statua collocata sul tetto della Corte d’appello è significativo al riguardo: NOW, adesso. È adesso, dice Shahzia, il tempo di riportare al centro l’autodeterminazione delle donne sul proprio corpo, di porre in primo piano il femminile in quella che rischia ancora di essere solo la “facciata” di una giustizia che non prevede le donne.
Per sostenere l’indipendenza simbolica del corpo femminile l’artista impiega altri, significativi, elementi iconografici. In NOW la figura emerge dalle foglie di loto, simbolo che nell’immaginario di molte culture esprime più significati e idee astratte: la verità più profonda, la saggezza, la purezza e l’elevazione spirituale, la capacità di affrontare le prove della vita, ma anche la bellezza, la fertilità.
Le radici del loto, invisibili sotto la superficie dell’acqua, sono qui richiamate dal groviglio di radici che sostituiscono le estremità degli arti della figura femminile, anche quelli superiori.
Si tratta di un altro motivo che accomuna NOW e Witness e che l’artista ha già impiegato, in evidente allusione alla propria esperienza personale di dislocazione, in opere precedenti nelle quali si manifesta il rifiuto del principio di un’unica radice – o origine – per affermare la capacità di portare ovunque “radici” proprie. E il corpo auto-radicato rimanda simbolicamente anche all’autodeterminazione, alla resistenza e alla capacità delle donne di fare affidamento su un’interiorità forte per trovare un proprio fondamento: le loro radici fluttuano libere, indipendenti dalle rappresentazioni convenzionali ed eterodefinite dell’essere donna nel contesto simbolico del patriarcato.
A rafforzare l’idea di un femminile autonomo e sovrano è anche il motivo dei capelli acconciati in due trecce attorcigliate in una forma a spirale che richiama le corna di un ariete, un elemento iconografico già impiegato dall’artista per dare forma alla potenza e valore delle donne (in Pleasure Pillars del 2001 è la stessa Sikander ad autorappresentarsi con questo chimerico attributo).
Si tratta di un motivo ricorrente nell’arte dell’antichità egizia e greca, nonché di altre epoche e culture dell’Africa, dell’Europa e dell’Asia, quale simbolo di forza e saggezza; nell’iconografia medievale, tuttavia, è associato anche alle forze del male, allo stesso demonio, in linea con l’archetipo della donna come minaccia, tentatrice che spinge al peccato, ben consolidato nella cultura patriarcale.
Sikander inverte dunque questa concezione e trasforma il pregiudizio negativo in valore. Si spiega così il titolo dell’esposizione Havah… to breathe, air, life dove “Havah”, chiarisce l’artista, nella lingua urdu sta per “respirare”, “aria”, “vita” (to breathe, air, life) e in ebraico, oltre a tradursi, come verbo, con “esistere”, è il nome di Eva. Ecco allora che l’Havah di Sikander, positivamente associata alla potenza generativa del femminile e alla vita, esibisce orgogliosamente le sue corna come una corona.
Il nome Havah si legge sulla figura femminile di Witness che abita l’ambiente naturale di Madison Square Park. Lo sottolineano le decorazioni a mosaico a forma di nastro e ornate con motivi botanici e floreali che discontinuamente impreziosiscono l’armatura a griglia attaccata al busto della statua: una sorta di gonna d’acciaio che rimanda, nella forma, alla cupola in vetro colorato realizzata da David Maitland Armstrong proprio per l’aula dell’edificio della Corte d’appello. Si tratta di una dimensione che Sikander interpreta anche come uno spazio che delimita “un luogo di rinnovamento” (Sikander), forse altresì un’allusione al “soffitto di vetro” infranto dalle donne.
Witness e NOW sono dunque due facce di uno stesso soggetto che si muove da un luogo all’altro, che si eleva fisicamente e simbolicamente dalla terra al cielo: dallo spazio terreno di cui Witness è parte integrante a quello simbolico della giustizia, della filosofia, in NOW.
Non sorprendono, allora, le reazioni a queste poderose immagini di potenza femminile che Sikander ha creato, il rifiuto di Witness come simbolo “satanico”, per di più legato all’aborto. Di fronte al tentativo di controllare ancora una volta il corpo delle donne, infatti, Shahzia ci restituisce l’immagine di un femminile che, come il respiro, fluttua nell’aria: l’immagine di una donna libera.
Di fronte all’atto di vandalismo, l’Università di Houston ha fatto subito sapere che è possibile riparare la statua ma Sikander ha replicato che intende lasciarla così, per mantenere l’evidenza dell’oltraggio subito dall’opera e trasformarla così in un potente strumento di riflessione e cambiamento.
Curiosamente, pochi giorni prima a Linz un’altra opera aveva subito una sorte simile: Crowning (2024) di Esther Strauss, un’immagine cruda e umanissima del travaglio di una giovane Maria nel partorire il figlio di Dio, la rappresentazione del momento in cui “Maria recupera il suo corpo”, come ha sottolineato l’artista. Ma la furia iconoclasta di un fanatico fondamentalista non l’ha risparmiata.
Mariella Pasinati
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