Esagerata, fantasmagorica, intensamente fisica

Mariella Pasinati, 04 ottobre 2022

Venezia, 22 artisti e ben 122 artiste provenienti da ogni parte del mondo: la Biennale di Cecilia Alemani (chiuderà il 27 novembre), ha cambiato marcia. Per la prima volta nella sua storia. Secondo la curatrice, le artiste, meno antropocentriche, sono oggi più capaci di narrare nuove forme di coesistenza sul nostro pianeta violato. Cyborg, maschere africane, stoffa e pentole…

 

di Mariella Pasinati

 

La biennale veneziana di quest’anno, Il latte dei sogni, curata da Cecilia Alemani ha lo spessore e l’apertura che la rendono una seducente esperienza visiva ed immaginativa, un’immersione stimolante in visioni e contraddizioni del nostro presente.

La mostra prende il titolo da una storia per l’infanzia di Leonora Carrington e ha il suo punto di partenza nei paesaggi surreali dei racconti dell’artista inglese per articolarsi intorno a tre tematiche attuali: “la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi, il rapporto tra individui e tecnologie, la connessione tra i corpi e la Terra” (Cecilia Alemani).

Al centro della scena ci sono le artiste: sono 191 le presenze femminili contro le 22 di uomini. Dimenticate però i pregiudizi di genere, la stizza o il disappunto per i secoli di cancellazione delle donne dalla storia dell’arte; la “correzione” imposta dalla curatrice alla storica sottorappresentazione delle artiste mostra piuttosto come una lucida riconnessione con l’arte del passato, a partire dallo sguardo femminile, sia capace di attivare un’esplorazione più acuta del nostro tempo, in un momento in cui, secondo la curatrice, sono soprattutto le artiste ad immaginare “nuove modalità di coesistenza e infinite nuove possibilità di trasformazione”, lontane come sono da quell’antropocentrismo di cui anche questa mostra vuol registrare la fine o perlomeno la crisi.

Alemani ha scelto così di organizzare l’esposizione generale intorno a 5 “capsule del tempo”, piccole mostre nella mostra, che presentano opere di artiste del XX secolo (ma anche oggetti e documenti). Si tratta di una vera e propria ricostruzione genealogica: i lavori selezionati nelle “capsule” costituiscono pietre di paragone, in termini di temi e pratiche estetiche, rispetto alle opere contemporanee dell’esposizione ma il dialogo che si crea, al di là del tempo e delle generazioni, non solo aggiunge ed accresce, per noi, i livelli di significato, ma costituisce anche un modello diverso per raccontare la storia dell’arte.

La molteplicità delle opere contemporanee si sperimenta dunque all’interno di un inquadramento regolato dalla genealogia proposta e tuttavia le opere non sono esposte alla “storicizzazione” in modo univoco e prescrittivo, anzi chi visita la mostra può riconoscere e ricombinare più parentele, in un gioco libero e creativo.

Sia ai Giardini che all’Arsenale l’esposizione si apre con due grandi opere che condensano l’intera proposta, rispettivamente Elefant di Katharina Fritsch (Leone d’oro alla carriera) e Brick House di Simone Leigh (Leone d’oro 2022). L’enorme animale a grandezza naturale realizzato nel lontano 1987 dall’artista tedesca domina la sala d’ingresso del padiglione dei Giardini. Di un perturbante verde che contrasta con l’estrema precisione delle forme anatomiche e della texture della pelle, sembra anticipare in gran parte il percorso che ci attende: il deciso addio all’antropocentrismo e un richiamo all’immagine del matriarcato, cui ci rimanda la struttura sociale complessa che caratterizza questi animali. Di questa scelta mi piace però sottolineare anche il rapporto con la città: come non pensare infatti al famoso Elefante del 1774 di Pietro Longhi che raffigurò l’arrivo del grande animale a Venezia per il Carnevale di quell’anno?

fig 1

La monumentale opera di Simone Leigh (fig. 1) introduce, invece, all’Arsenale attraverso il tema dell’ibridazione. L’artista, cui è stato affidato anche il padiglione degli Stati Uniti, presenta qui Brick House, casa di mattoni (2019). Si tratta dell’imponente busto di una donna nera che, in continuità con la serie di Anatomy of Architecture, rimanda anche nella forma a una costruzione e fa riferimento, tra l’altro, alle architetture tradizionali africane come quelle del popolo Batammaliba del Togo, il cui nome si traduce “coloro che sono i veri architetti della terra”. Per Leigh le donne nere sono case di mattoni, nel senso dell’espressione afroamericana che sottintende la dimensione della forza, e non solo quella fisica, un’immagine quindi ideale che serve a mettere in risalto il valore delle donne nere per restituire loro un’opportunità di auto-identificazione, sociale e politica.

Ai Giardini, nel padiglione centrale, corpi ibridi, metamorfosi, ambiguità, frammentazioni rimbalzano nelle opere contemporanee dalle tre “capsule” qui organizzate. La prima è “La culla della strega”, ospita il contributo di artiste vicine ai movimenti del Novecento (dal Futurismo al Surrealismo soprattutto, ma anche al Bauhaus, all’Harlem Renaissance) capaci di esprimere nei propri lavori una visione indipendente che sfugge alle immagini di femminilità dominanti nella cultura patriarcale per proporre nuove narrazioni soggettive, frammentate, multiple, legate anche ad una dimensione di ambiguità e mistero, a figure archetipiche e antiche divinità femminili recuperate. Malauguratamente, una scelta allestitiva scellerata (che contrasta peraltro con l’attenzione espositiva che caratterizza l’intera mostra) rende quasi impossibile vedere le opere di questa sezione cruciale, dalle numerose surrealiste – Leonora Carrington, Leonor Fini, Dorotea Tanning, Remedios Varo … –  a Benedetta, Gertrud Arnt, Augusta Savage, tra le altre.

Nelle sale del padiglione centrale si dispiega il gioco di connessioni, richiami e corrispondenze tra le opere storiche e quelle contemporanee. Ci sono le nove sculture in cristallo di Andra Ursuţa (fig. 2) dalle tonalità cromatiche luminescenti, corpi umani ibridi, tra la fantascienza e il cyborg che qui dialogano con i lavori esposti sulle pareti circostanti: la famosa serie degli anni ’80 di Rosemarie Trockel di opere in fili di lana colorati lavorati a macchina, disposti orizzontalmente e verticalmente a richiamare la pittura astratta del XX secolo, mettendo in tensione materiali e tecniche tradizionali femminili con strumenti e procedimenti maschili.

fig.2

L’uso di stoffe, materiali e tecniche tradizionalmente legate all’esperienza femminile è molto presente in tutta la mostra con opere tessili seducenti e fantasiose come le imponenti figure in fibra di canapa di Mrininalini Mukherjee, spettacolari potenti strutture ispirate alla sacralità della statuaria indiana e alla  sessualità femminile; o ancora, all’Arsenale, con i minuscoli paesaggi ricamati da guardare da vicino di Britta Marakatt-Labba, che ci fa viaggiare nei territori Sámi della Lapponia dove sacro e profano convivono nella vita quotidiana. All’estremo opposto, in termini dimensionali, l’artista canadese Tau Lewis sempre all’Arsenale, presenta tre enormi maschere di ritagli di pelli, tessuti e pelliccia cuciti a mano che ruotano intorno al rapporto tra corpo, natura e identità, ispirandosi alle antiche maschere Yoruba; non ultimo, e si tratta di un uomo questa volta, Igshaan Adams cuce insieme in un grande arazzo tessuti, corda, pezzi di legno che intreccia sapientemente con conchiglie e perline di plastica a formare un paesaggio colorato attraversato da grandi diagonali che l’autore chiama “linee del desiderio”, cioè le linee dei tragitti percorsi a piedi dalle comunità nere lontane dal proprio lavoro.

Di Cecilia Vicuña (anche per lei Leone d’oro alla carriera) non sono qui presenti le note, rivoluzionarie sculture tessili che combinano materiali naturali e artigianato tradizionale ma per la mostra ai Giardini l’artista ha creato l’ultimo dei suoi “precarios”: NAUfraga (2022) un’installazione sospesa fatta di relitti e detriti raccolti nel lungomare di Venezia, a sottolineare la fragilità di un ambiente e l’incapacità a prenderci cura della città e, per estensione, di tutta la Terra; sono esposti anche alcuni dipinti fantastici che indagano gli stereotipi del femminile, porgono un tributo alla madre rimasta nel Cile della dittatura militare e raccontano del suo debito verso il pensiero indigeno.

Un flusso di credenze e pratiche disparate, antiche e indigene, vivifica gran parte della mostra, indice della volontà di superare il pensiero coloniale annullando le contrapposizioni dualistiche tra le arti, cancellando l’esotizzazione delle culture di altre civiltà, riportando in primo piano questioni e tematiche in realtà universali: il rapporto con il potere, la ribellione all’oppressione, il dominio.

Il rapporto di subordinazione/dominio lo vediamo declinato, in particolare, nel mondo dell’infanzia e della famiglia, nella sala dedicata a Paula Rego, recentemente scomparsa. Nello splendido Oratorio (2009) l’artista mette in scena un apparato religioso a forma di pala d’altare con figure tridimensionali al posto dei santi e, con un linguaggio espressivo, grottesco e violento, dipinge sulle pareti le esperienze dello stupro, della nascita, della morte, ricordandoci esplicitamente la complessità della natura e dell’esistenza umana.

Il corpo, tema costante di tutta l’esposizione, è presente nel rapporto con il linguaggio nella seconda “capsula” dei Giardini “Corpo Orbita”, un omaggio alla mostra “Materializzazione del linguaggio” curata da Mirella Bentivoglio come evento a latere della Biennale del 1978 dove furono esposte le opere di 80 artiste del ‘900 attive nella Poesia Visiva e Concreta nel cui lavoro Bentivoglio leggeva, in relazione al termine mater (nel duplice senso di madre e materia) il rapporto delle donne con la parola ed il linguaggio come esperienza originaria, personale e profonda, estranea al formalismo dei significati regolamentati dal maschile.

Alcune artiste allora presenti, tra cui la stessa Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Ilse Garnier (fig.7), trovano qui posto ma appare curioso e, a mio avviso, poco pertinente l’accostamento nella stessa capsula con opere di impronta spiritualista e nel segno dell’occultismo, come gli esperimenti fotografici medianici di Linda Gazzera o gli acquerelli e i disegni di “scrittura automatica” di Georgiana Houghton, ben lontani dalla sensibilità di Bentivoglio, più analitica che vicina alla dimensione onirica e, ancor meno, a quella occultista. Risuonano invece, a distanza, i segni cromatici di Carla Accardi che giocano nello spazio. E tuttavia, siamo grate alla scelta di Alemani di rendere un tributo a Mirella Bentivoglio perché ciò ha offerto l’occasione per pubblicare la ristampa anastatica del catalogo della mostra del 1978.

I rapporti tra esseri umani e macchine costituiscono un altro importante filone di ricerca. Nella terza “capsula” presente ai Giardini “Tecnologie dell’incanto” le opere di Arte Programmata e cinetica degli anni Sessanta di Dadamaino, Grazia Varisco o Nanda Vigo, al di là di diversi materiali e delle differenti tecniche impiegate, esplorano i confini tra individui e tecnologia e le modalità della visione. Se ne leggono tracce nei recenti dipinti di Ulla Wiggen sulle iridi umane o nelle indagini di Charlotte Johannnesson che combinano le tecniche della tessitura con il colore e la linea dell’arte computerizzata.

All’Arsenale la quarta “capsula” storica dal titolo suggestivo “Una Foglia Una Zucca Un Guscio Una Rete Una Borsa Una Tracolla Una Bisaccia Una Bottiglia Una Pentola Una Scatola Un Contenitore” si ricollega alla teoria che la nascita della civiltà è da mettere in relazione all’invenzione di oggetti utili alla raccolta e al trasporto di quanto occorreva al sostentamento e alla cura: borse, sacche, contenitori. In questa capsula trovano pertanto collocazione opere ed oggetti come i diversi modelli in cartapesta di uteri relativi a diversi stadi della gravidanza utilizzati dalla medica e femminista olandese Aletta Jacobs per spiegare il sistema riproduttivo femminile; le ceramiche di Tecla Tofano come En vía de liberación (1975) che parla di maternità, identità personale e stereotipi: una donna senza volto si porta le mani alla testa mentre dal ventre gravido un serpente emerge dal simbolo femminile capovolto che diventa croce; le sculture in gesso degli anni ’80 di Maria Bartuszová, forme simili a uova, gusci che incorniciano un nucleo vuoto, che evocano fragilità e vulnerabilità ma indicano anche un luogo di rifugio e rinascita; le sculture sospese in filo metallico di Ruth Asawa (fig. 3) che adotta una tecnica di realizzazione delle ceste appresa dagli indigeni Messicani.

fig.3

Alle opere della capsula rispondono, tra gli altri, i cinque grandi vasi antropomorfi dell’argentino Gabriel Chaile che rappresenta i membri della sua famiglia, le terrecotte dalle forme arrotondate di Magdalene Odundo e le delicate ed eteree immagini pittoriche di Pinaree Sanpitak che rimandano al seno qui, nella nuova serie, ridotto alla forma di un vaso che ricorda le ciotole per le offerte sacre, tipiche di molte culture asiatiche.

Il rapporto tra i corpi e la terra, la catastrofe climatica e la ricerca di nuovi modi di rapportarsi alla natura trova qui all’Arsenale espressione positiva nella potente struttura dell’artista colombiana Delcy Morelos Earthly Paradise (2022) che fa riferimento alle cosmologie delle popolazioni delle Ande e dell’Amazzonia: un corridoio di terra tra cui si cammina e che odora di terriccio e spezie, un’esperienza fortemente sensoriale che ci ricorda la nostra stessa natura terrena; nel sipario dipinto con un figure e testo che Emma Talbot sospende tra due pilastri, Where Do We Come From, What Are We, Where Are We Going? (2021), che riprende nel titolo l’opera di Gauguin per interrogarsi sull’emergenza climatica e le sue cause antropiche; nell’imponente installazione di terra che chiude la mostra: To See the Earth Before the Evil of the World (2022) di Precious Okoyomon, un ambiente rigoglioso di terra, acqua e piante. Ma non è un Eden. È un ambiente in costante cambiamento dove le figure umane che lo punteggiano, foggiate con l’argilla, la lana, i filati, saranno presto ricoperte dalla vite kudzu, una pianta trapiantata nel XIX secolo nel sud degli Stati Uniti per rivitalizzare la terra danneggiata dalla coltura intensiva del cotone e diventata infestante fuori dal suo areale. Nell’installazione veneziana l’artista le ha affiancato anche la canna da zucchero, un’altra pianta che rimanda a storie di colonialismo e schiavitù, ma il discorso di Okoyomon va oltre. Se infatti il kudzu è divenuto simbolo negativo delle specie invasive, la pianta rappresenta anche la positiva capacità di resilienza della natura così che, in termini figurati, l’opera appare come una metafora dell’identità nera in una cultura altra: indispensabile ed irriducibile insieme.

Questi ultimi anni dominati della pandemia se da un lato hanno esposto tutta la fragilità e la vulnerabilità della condizione umana, dall’altro hanno mostrato l’enorme impatto della tecnologia nelle nostre vite, quasi una nuova matrice della realtà corporea e sociale e sono tanti gli esempi di come la tecnologia abbia già modificato il quotidiano e persino trasformato i corpi umani. Non sorprende allora che l’ultima capsula sia “La seduzione del cyborg” con esplicito richiamo alla concezione di Donna Haraway del cyborg  come creatura di un mondo post-genere in cui natura e cultura vengono ripensate.

La curatrice raggruppa qui artiste del Novecento che hanno concepito nuove combinazioni tra l’umano e l’artificiale e collega il fascino per gli elementi protesici presente nell’arte delle avanguardie alla figura della New Woman novecentesca, indipendente e androgina. Anche in questa sezione trovano posto opere di segno diverso: dagli autoritratti riflessi di Marianne Brandt (1928-29), alle figurine piegate e ritagliate da sottili strisce di alluminio (anni ’30) di Regina, dai disegni di Alexandra Exter (1924) per i costumi del film di fantascienza Aelita, alle creature aliene, primitive e futuristiche insieme, dei costumi fantastici di Lavinia Schulz e Walter Holdt, al Bacio del Rinoceronte (1989) di Rebecca Horn: due grandi bracci meccanici sormontati da corni metallici che lentamente si congiungono a formare un cerchio perfetto in cui si congiungono la dimensione dell’emozione umana, la macchina e l’animale e, ancora, i corpi frammentati di Anu Põder realizzati negli anni ’80 con pezzi di manichini avvolti in tessuti grezzi; le figure totemiche umanoidi di Liliane Lijn (1980) realizzate con materiali industriali, fibre sintetiche, piumini per spolverare, in una chiara allusione alla dimensione di genere; i robot dipinti anni ’60 di Kiki Kogelnik.

Per il contemporaneo, ci troviamo di fronte a una passerella infinita di creature mutanti/mutate e di interazione umano/meccanico tra le quali voglio ricordare: i relitti antropomorfizzati dell’industria sovietica raffigurati, come in Echo (2021) (fig. 4), negli arazzi tessuti a mano di Zhenya Machneva  che trasforma rondelle, bulloni e materiali vari di una vecchia fornace nell’immagine inquietante di un volto con la bocca spalancata; gli enormi fossili preistorici della serie Tunnel boring machine (2021) di Teresa Solar; le opere di Lynn Hershman Leeson (menzione speciale della giuria) sui temi della sorveglianza e del potere delle macchine, una messa in guardia su un universo digitale in espansione che esercita un controllo sempre più capillare su esseri umani semplicemente ridotti ai dati che li identificano;  la grande installazione di Barbara Kruger Untitled (Beginning/Middle/End) (2022) che estende su tutte le superfici della sala a lei dedicata la sua tipica, incisiva giustapposizione di immagini e testi, sia in inglese che in italiano, con frasi di comando ingentilite da un “per favore” (“PLEASE CARE” “PLEASE MOURN”) e combinate, questa volta, con una componente video a tre canali sui quali vengono digitate, parola per parola tre solenni dichiarazioni – altrettanto eteroimposte e normative – che si fanno nella vita reale: il giuramento di fedeltà alla bandiera degli USA, la formula di manifestazione del consenso matrimoniale e l’esordio di una dichiarazione testamentaria; nella digitazione del testo però, al posto delle parole note vengono usati termini che ne alterano totalmente il senso, battuti e poi corretti anche più volte, prima di giungere alla formulazione ufficiale.

fig.4

 

 

 

 

Anche diversi padiglioni nazionali hanno corrisposto alle scelte curatoriali e numerosi si sono affidati principalmente ad artiste. Non tutti all’altezza delle aspettative, qualcuno deludente, ne ricorderò solo alcuni, a partire dall’intenso e suggestivo padiglione della Gran Bretagna con Feeling Her Way di Sonia Boyce che le è valso il Leone d’Oro per il miglior padiglione nazionale. Incentrato sul potere della voce, dell’ascolto, del ricordo e della collaborazione, il lavoro fa parte di un progetto che Boyce ha intrapreso da anni per recuperare e costruire un archivio delle donne nere britanniche impegnate nella musica. Combina video, collage, musica: nelle stanze del padiglione, sulle pareti ricoperte con un colorato e vivace motivo a tasselli sono presentati i video delle singole performance vocali di cinque musiciste nere mentre nella sala centrale è presentato il loro incontro negli studi di registrazione dove le cantanti improvvisano insieme e interagiscono giocando con le voci in modo fantasioso.

Ancora la storia delle donne nere segna il padiglione degli Stati Uniti, progettato da Simone Leigh. L’artista lo trasforma esternamente in un edificio con tetto di paglia che rimanda all’architettura dell’Africa orientale dei primi decenni del XX secolo e dispone nel piazzale antistante una monumentale figura femminile nera in bronzo. All’interno, prende corpo Sovereignty, sovranità, (2022) che presenta un video e potenti sculture in ceramica e bronzo di forme femminili – astratte e naturalistiche – che ci parlano di evocativo di generosità, fatica e resistenza, di autodeterminazione ed indipendenza, individuale e collettiva. L’artista arricchisce e articola ulteriormente il progetto di recupero dei lavori e delle storie ignorate, cancellate o mai registrate delle donne nere, per colmare le fratture del racconto storico e restituire loro la soggettività che le rende autrici della propria storia.

L’artista rom Małgorzata Mirga-Tas (fig.5) ha davvero “reincantato il mondo” con la straordinaria, coloratissima, serie di “affreschi” patchwork che ha cucito con l’aiuto di altre donne sulle pareti del padiglione polacco. L’opera imponente e lirica, ripropone il modello della sala dei Mesi di Palazzo Schifanoia per raccontare l’epopea della popolazione rom polacca. Come nel palazzo ferrarese, la narrazione si sviluppa in 12 pannelli che coprono tutte le pareti della sala e si articola su tre fasce sovrapposte: nella superiore si raffigura la storia del viaggio dei Rom in Europa, rileggendo e ripulendo dai suoi tratti coloniali le stampe seicentesche di Jacques Callot; quella centrale ripropone i temi astrologici qui combinati con immagini di donne che costituiscono riferimento significativo per l’artista; la fascia inferiore illustra momenti di vita quotidiana negli insediamenti rom polacchi.

fig.5

Nel padiglione del Belgio sembra di entrare nella versione video del celebre Giochi di bambini di Pieter Bruegel. Francis Alÿs espone infatti la deliziosa serie omonima di filmati (realizzati dal 1999 in poi) dedicati ai giochi praticati da bambine e bambini di tutto il mondo, in tutte le condizioni, c’è anche il volo dell’aquilone vietato dai talebani in Afghanistan. Sotto lo sguardo dell’artista, nelle loro piccole mani, semplici oggetti qualunque acquistano nuove fantastiche potenzialità, mostrando la straordinaria capacità infantile di reinventare il mondo.

Infine nel padiglione della Turchia, i temi dell’esposizione ricompaiono nell’opera di Füsun Onur anche  attraverso la forma della narrazione favolistica. L’artista realizza infatti una delicatissima favola Once Upon A Time… (2022) che narra una storia di gatti e topi che hanno la saggezza di cooperare per salvare l’ecosistema che la specie umana sta distruggendo. Con il suo solito registro minimalista, l’artista racconta la sua favola in 21 scene su piattaforme sospese che sembrano fluttuare in un enorme spazio espositivo che accentua la dimensione intima delle scelte espressive adottate. Le figurine sono infatti minuziosamente modellate piegando il filo metallico e combinate con palline da ping pong, ritagli di tessuto e di carta. Il racconto si volge durante il difficile tempo del Covid, tra Istanbul e Venezia dove però il protagonista trova anche l’amore. È dunque una storia di solidarietà, amore, gioia di stare insieme, una favola che apre alla speranza ma, come nella migliore tradizione, il finale è ambiguo: c’è una gondola che li aspetta ma i topi non ci sono. Come andrà a finire?

 

Fig. 1 Simone Leigh, Brick House, 2019

Fig. 2 Andra Ursuţa, Predators ‘R Us, 2020

Fig. 3 Ruth Asawa, installazione, part., anni ’50 e ’60

Fig. 4 Zhenya Machneva, Echo, 2021

Fig. 5 Małgorzata Mirga-Tas, Re-enchanting the World (June), 2022

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Mariella Pasinati

Insegna Storia dell’arte ed è autrice di numerosi saggi su artiste contemporanee. Impegnata nella ricerca e nella pratica pedagogica, ha curato con le docenti della Biblioteca delle Donne UDIPALERMO onlus, di cui è presidente, progetti didattici sperimentali sui saperi e le figure femminili nella storia, promosso seminari su storia e cultura delle donne, corsi di formazione per insegnanti, rassegne su artiste contemporanee. Ha curato: Insegnare la libertà a scuola. Rendere impensabile la violenza maschile sulle donne (Carocci, 2017); Riletture (Ila Palma, 1999); Parole di libertà (Ila Palma, 1992).

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