Siamo due lesbofemministe, due poete, e stiamo trascorrendo una vacanza estiva in Norvegia. Questo è il nostro primo
esperimento di scrittura a due mani.
Fuori dalla finestra, i battelli fanno andate e ritorni. Le isole non sembrano isole, ma piccole enormi montagne che affiorano con discreta casualità in mezzo a quello che forse possiamo chiamare mare. L’acqua non è mai certamente dolce o certamente salata. Il fiordo si mette di traverso, rifiuta le definizioni. Appena pensi di averne compreso la natura, le sue acque cambiano aspetto e gli interrogativi ritornano a porsi. Ricomincia qualcosa che ha tutto l’aspetto di essere un gioco.
Siamo in Norvegia da qualche giorno. “Qual è il modo migliore per visitare un paese?” mi chiede Viola. Non lo sappiamo. Noi queste terre le stiamo percorrendo con un furgoncino che ci fa da casa e da macchina. A volte, quando piove o quando siamo molto stanche, ci ripariamo in qualche stanza d’albergo e riposiamo le ossa, le allunghiamo, le stiriamo. La mattina, durante la colazione, scegliamo la prossima meta. Prepariamo le cose e partiamo.
Il clima è rigido qui. Di giorno fanno 15°C, che possono arrivare a 20°C sul livello del mare. La notte si scende a 6-8°C. Ci armiamo di coperte e di corpi stretti. Qualche volta piove. Qualche volta c’è il sole.
All’ufficio turistico di Florø c’è una persona giovane. I capelli rossi e gli occhi chiari accompagnano un carattere gioviale e una naturale chiarezza nello scambio delle informazioni. Rimaniamo spesso sorpresedal corretto limite di velocità: se è 80, è giusto per quel tratto; se è 40, anche. Il limitare non assume qui un carattere punitivo o restrittivo, ma diventa un consiglio ben accolto in cui si sta tutte insieme. Allo stesso modo le persone sono equamente cordiali, mai troppo giocose da metterti in difficoltà, mai aggressive, spesso lineari, limpide, sorridenti. Intravedo, nel fondo di ognuna di loro, una scurezza; si annida in fondo allo sguardo, dietro gli occhi. Ha lo stesso colore nero nero delle acque.
Chiedo alla persona dell’ufficio turistico se esista una nave che possa portarci ad Alesund. “For me and my wife”, velocizzo. Lo dico con un lieve imbarazzo. Non è vero che siamo sposate. E poi chissà cosa penserà di me. Farà uno di quei sorrisi più grandi del dovuto, esagererà una reazione per mostrarsi ultra-felice per noi, sottenderà anche lei un imbarazzo. E invece no: non succede niente di tutto questo. Con la professionalità cordiale che la contraddistingue, mi risponde: “Okay, and do you have children with you?”.
Rimango qualche secondo in silenzio. Rispondo: “No, it’s just the two of us”. La nave notturna in partenza alle 3 del mattino sarebbe stata un po’ troppo per una piccola creatura, secondo lei. Questa è la reazione che ottengo. L’imbarazzo atteso nel rimbalzo non si stacca mai da me. Rimane mio e mio soltanto. È nell’annullamento di questo slancio che mi apro, sgonfio i cuscinetti della difesa, rimango inerme. La seguo nei discorsi, mi racconta come possiamo goderci la giornata raggiungendo l’isola di Kinn. Mi consiglia di camminare fino alla chiesa. Dopo esserci scambiate qualche consiglio di viaggio, ci salutiamo. Io provo per lei quella gratitudine ingiusta, ma adesso è troppo tardi per cambiarla.
Non mi documento molto prima dei viaggi: uno dei tanti piccoli tradimenti alla me studiosa che mi concedo con un pizzico di spirito trasgressivo. Ma posso parlare per sempre di un posto visitato dal ritorno in poi. Dopo. Sempre nel dopo mi documento, leggo, mi informo. Nel tempo del prima e del presente lascio un po’ le impressioni esistere nella loro facilità, talvolta fretta, spesso inesattezza, qualche volta precisione che si porta dietro la parola stessa impressione. Come un vizio che non defletto, però, guardo sempre lo stato dei diritti delle persone LGBTIQ* e i macro-dati sulla condizione delle donne e la parità di genere, ed è anche per questi numeri che spesso scelgo le vacanze in posti che reputo possano accogliermi come desidero in una vacanza. Vacanza anche dall’Italia.
Tre anni prima che nascessi in Norvegia veniva approvata la prima legge del mondo contro l’omofobia, quando avevo otto anni qui si celebravano le prime unioni civili, mentre intraprendevo il percorso di studi universitari qui si equiparava in tutte le forme il matrimonio (anche in chiesa) tra persone dello stesso sesso, se ne garantiva l’accesso all’adozione (lesbiche, gay, persone singole e coppie dello stesso sesso non sposate) e tutte le tecniche di procreazione medicalmente assistita alle donne in coppia. Mi manca poco più di un anno ai quaranta, sono qui con la mia compagna, Alma, attraversiamo il paese con una macchina camperizzata, o, per meglio dire, saliamo e scendiamo – perché la Norvegia è un paese dove orizzontale e verticale si confondono, così come si confonde l’acqua salata e quella dolce, così come si confonde la vegetazione di montagna davanti al mare, così come in effetti ci confondiamo noi che non capiamo mai che ore sono, se farà freddo… – e quasi contemporaneamente ci chiediamo che ne sarebbe stato del nostro desiderio di maternità se fossimo nate qui. Ragiono intorno al nostro immaginario, al prezzo che abbiamo pagato – e che soprattutto pagheranno le giovanissime se non si fa una battaglia radicale – nel non aver ascoltato al dunque un monito fondamentale al momento dell’approvazione della legge sulle Unioni Civili del 2016: lasciare fuori i piccoli e le piccole, la responsabilità verso di loro, e la possibilità di aver accesso al mondo della trasmissione e dell’educazione, da una legge di presunta equiparazione del diritto di famiglia, è pericoloso non solo per il presente, ma anche per il futuro. Così si blocca l’immaginazione, si affievolisce il desiderio, si impedisce alla comunità umana di evolversi in un pensiero più articolato di genitorialità.
Il cambiamento, anche la normalizzazione se vogliamo, avviene per spinta dall’alto o per forzature dal basso? O, ancora meglio, per spinte da tutte le parti che poi portano a uno spostamento che è effettivamente in grado di cambiare le sorti delle persone viventi e l’immaginario di quelle future?
Mi pare ci sia nella storia una devozione per il movimento circolare, come qualcosa che non possiamo cambiare. Come se non esistesse un avanti e un indietro, ma solo la forma del cerchio. E anche se ci siamo già passate, la storia vuole che ci passiamo ancora, e ancora, e ancora. E ci saranno sempre quelle che indicheranno il punto esatto in cui è già accaduto e l’umano ha già sbagliato, e le tragedie sono già accadute, ma ecco qua: per ragioni che non sapremo spiegarci, la storia (questo iguanodonte in grado di percorrere unicamente la strada che sta percorrendo con le zampe troppo pensanti e il passo troppo deciso) va di nuovo da quella parte.
Durante questo viaggio leggo avidamente To the river di Olivia Laing. C’è un passaggio che da giorni mi ossessiona e che, mi pare, si sposi bene con questo movimento circolare incontrovertibile. Olivia Laing decide di ripercorrere a piedi tutto il fiume Ouse – fiume che scorse tanto vicino a Virginia Woolf, nella vita e nella morte. Qual è il senso del passato, questo si chiede l’autrice. Per darsi una risposta attinge alle memorie incompiute di Woolf, Tracce dal passato, citandone alcuni passaggi.
«Quando il presente è sostenuto dal passato, è mille volte più profondo di quando ti prende così
da vicino che non si riesce a sentire altro» e ancora «lo immagino, il passato, come un viale alle
mie spalle, un lungo nastro di scene e di emozioni.
Dopo questo passaggio, Olivia Laing si mette di traverso e dice: «Aveva torto. Il passato non è dietro di noi ma davanti».
Percorriamo velocemente strade con mare da una parte e mare dall’altra e questo vedermi il passato
davanti continuamente mi turba. Forse preferirei averlo sempre di fianco, il passato, come il mare che
attraversiamo, e non davanti a farmi da barriera o da monito. E allora, come su una barca, ritorno al
pensiero della storia e dei suoi movimenti circolari, e la ripenso così, con questa aggiunta di passato
accanto, un movimento che mi porto via da questa terra di diritti e di respiro.
Dov’è l’alce? Quando vediamo un alce, ma…. l’alce? Tutti vedono un alce e noi no!
Queste frasi, alternate in ordine casuale, sono state ricorrenti in viaggio. Alma – ma temo di avere una parte in questa piccola fissazione – ha tenuto in piedi l’utopia ALCE, questa chimera, con l’aiuto della lamentela, della voce piccolina, dell’ironia, dell’esclamazione, fino ad arrivare a momenti di rabbia quando i segnali ci indicavano chiaramente il pericolo imminente di un attraversamento, che non è mai accaduto. Neanche l’ombra.
Come si tiene vivo un desiderio? Ma, prima ancora, come si costruisce un desiderio? Si costruisce con una costante prefigurazione della sua realizzazione. Ecco, questa prefigurazione, se non esistono delle condizioni generali tra leggi e costumi che costituiscono il terreno fertile per esistere, semplicemente non si genererà. O magari, come nel caso della possibilità di essere madre, arriverà quando ci sono delle condizioni di realtà che di fatto ne impediscono la realizzazione, o la rendono molto difficile. L’età anagrafica, per esempio.
Qui i bambini e le bambine sono ovunque, stanno in giro molto autonomamente, anche da soli, spesso li vediamo con i padri, non li abbiamo mai visti urlare se non per cadute o piccoli capricci, ma veramente per poco tempo. Abbiamo fotografato le scuole, perché sembrano dei luoghi davvero piacevoli in cui passare il tempo. Tutto sembra essere calmo, silenzioso e pieno di brulicante attività.
Finisco qui questo infelice paragone tra Norvegia e Italia. “Sono pochissimi, sono ricchissimi, hanno le risorse”… questi i leitmotiv che, seppur veri, mi sembrano pronunciati dagli italiani con una tale ripetitività da far sospettare che esista come un’idea per cui la responsabilità politica di orientamento di un paese e delle sue leggi e cultura dipenda esclusivamente da condizioni pre-esistenti, un destino geografico, di popolazione, di condizione che non può che autoavverarsi nel bene (o nel male) – quindi di fatto affermazioni che vanificano il senso stesso della politica.
Il punto è che qui c’è un dato oggettivo: il pensiero di poter essere genitore mi viene in mente con più
facilità. Mi sembra addirittura possibile.
L’ultima tappa del nostro soggiorno norvegese è stata Oslo, la capitale. Dopo due settimane di boschi e acque confusive, ci ritroviamo a calpestare modernissime pavimentazioni, mangiamo in ristoranti vegani, andiamo ai musei. Ci sembra tutto piuttosto strano, ma allo stesso tempo ci piace tenere insieme le contraddizioni. Al Nasjonalmuseet di Oslo insisto per vedere la parte della collezione permanente dedicata al design. Una linea del tempo scandita dagli oggetti: forme, funzioni, stili, processi. Un oggetto che entra dentro il tempo e viene pensato da più e più menti. Sempre lo stesso oggetto, con la stessa identica funzione. Qualche anno fa mi ritrovavo a chiedermi a cosa servisse, cosa fosse poi realmente questa faccenda del design, se non qualcosa che annulla l’attenzione sulla funzione per riportarla a quella della forma. Un tostapane è un tostapane, dicevo. Nel tempo, ho avuto modo di veder crescere questo pensiero, modificarsi, prendere spazi e angolazioni diverse.
Il tempo gioca un ruolo importantissimo sulla forma delle idee. Il tempo, le relazioni, i sentimenti.
Penso a questi oggetti, alla loro storia che dura da cento, duecento, trecento anni. Alle continue, talvolta minime, modificazioni. Ai richiami, agli stili, alle copiature. E poi penso a quegli oggetti che, per un motivo o per l’altro, non esistono più e poi ancora a quelli che non sono mai esistiti.
Nel momento in cui scrivo, in Italia viene negata l’esistenza di una genitorialità per molte di noi. Non è semplicemente l’impossibilità di accedere a un percorso riproduttivo che manca, ma è il riconoscimento della sua stessa esistenza. La nostra possibilità di accesso ai percorsi medicalmente assistiti, in quanto lesbiche o donne sole, in quanto persone transgender o non binarie, in tutti quei casi che divergano dalla coppia lui-lei semplicemente non esiste. Può progredire, cambiare forma, colore, stile qualcosa che non c’è?
L’acqua l’abbiamo assaggiata, ed è vero che una definizione finale non è stata sempre possibile. Eppure quest’acqua mischiata, anche se noi non la sappiamo chiamare, scava la roccia per centinaia di chilometri, rovina in cascate, diventa altro e altro ancora, non si esaurisce mai né mai prende un unico nome. Questa acqua siamo noi che non ci siamo immaginate madri ma che abbiamo a cuore la possibilità di poterlo fare e non fare, tutte noi che cresciamo figlie delle altre, tutte noi che abbiamo figlie da sole eppure sole non siamo, tutte noi che abbiamo voluto insieme le nostre figlie e oggi ci ritroviamo a lottare per essere riconosciute come loro madri. Questa è la nostra alleanza, questa nostra la chimera.
In questo viaggio ci sono venuti in mente questi riferimenti (ovviamente non esaustivi ma per noi importanti)
Ortolano, R. Il nostro percorso di procreazione medicalmente assistita. «AUT magazine», 21/12/2023
Di Grado, V. My queer friends in Italy are so worn down by discrimination, they don’t notice it. Here’s why. «The Guardian», 13/06/2024
Sfregola, C. Le unioni civili ci hanno regalato l’illusione di essere un Paese normale. «AUT magazine»,13/06/2024
Borrelli, I. Sfamiglia queer. Da cura a pratica politica. «AUT magazine», 16/01/2024
Vianello, M. In fondo al desiderio. Dieci storie di procreazione assistita. Fandango, Roma 2021
Biagini, E. L’emersione imprevista: il movimento delle lesbiche in Italia. ETS, Firenze 2018
Ferrante, N. Petitti, C. L’amara attesa. Riflessioni di una coppia lesbica sulla giustizia riproduttiva in Lesbiche-3amare «DWF» n. 139-140, trimestrale 2023 3-4, Roma
Mamma non mamma, supplemento a «Leggendaria» 123/2017, a cura del Gruppo del MercoledìBotti, C, Boiano, I. (a cura di) Dai nostri corpi sotto attacco. Aborto e politica, Futura, Roma, 2019
www.famigliearcobaleno.org
www.retelenford.it
Viola Lo Moro e Alma Spina
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