Venezia, il ruggito delle leonesse

Rita Calabrese, 2 Ottobre 2021

Numerosissime le registe da ogni Paese, tra cui Jane Campion e la vincitrice, Audrey Diwan, con un film sull’aborto clandestino di una ragazza francese nel 1963. Numerose protagoniste con ruoli insoliti (sindaca, dirigente e non solo madre) e molta attenzione dei registi alla violenza maschile sulle donne

Di Rita Calabrese

Oltre il Leone d’Oro, assegnato anche quest’anno, come nel 2020, a una donna (Audrey Diwan) e la sempre maggiore presenza di registe nelle varie categorie, forte è stata la dimensione femminile alla 78° Mostra del Cinema di Venezia anche nelle tematiche e nelle nuove prospettive, che nei film hanno trovato rappresentazione in maniera non convenzionale con connessioni inaspettate. Come tutte le arti, il cinema percepisce il presente e spesso prefigura, se non costruisce, il futuro ed evidente è apparsa l’attenzione per le contraddizioni della nostra realtà. Se infatti lo spaventoso numero di femminicidi rivela il non superato dominio patriarcale che cerca di frenare la sempre maggiore coscienza di sé femminile, la denuncia da parte di molti uomini dei diritti negati delle afgane lascia intravedere, nonostante tutto, il lento affermarsi di una diversa visione della società, frutto delle lunghe lotte delle donne.

In tale direzione di cambiamento mi pare si collochi la scelta della giuria di premiare con il massimo riconoscimento L’Evénement (in Italia si intitolerà 12 settimane), regia di Audrey Diwan, tratto dal romanzo autobiografico di Annie Ernaux L’evento, che presenta la dolorosa esperienza di una ragazza che vuole abortire nella Francia degli anni Sessanta, quando l’interruzione di maternità era ancora fuorilegge.

In opere presentate al Lido, anche di mano di registi, più volte ricorre la malintesa forma di sessualità maschile dominante e violenta dello stupro, come se si cominciasse finalmente a riflettere a riguardo. Significativo il magnifico The Last Duel di Ridley Scott che segna un vero cambio di paradigma del grande cinema di azione. Spettacolari scene di battaglie nella Francia del XIV° secolo hanno al centro l’ultimo “duello di Dio” documentato, lo scontro fino all’uccisione dell’avversario come disumana soluzione di processi, tra i divi Adam Driver e Matt Demon, il presunto violentatore e il marito della coraggiosa accusatrice che rischia una crudele esecuzione nel caso di vittoria dell’imputato. Avvincente la struttura del film con le varie versioni dello stupro da parte dei tre protagonisti. Tale problematica pluralità di narrazioni, quasi a sottolineare la difficoltà dell’argomento, si ritrova anche in Les choses humaines di Yvan Attal, presentando efficacemente i diversi punti di vista di vittima e aggressore che, nella sua inconsapevolezza di colpa, rivela la presenza ancora ai nostri giorni di radicate norme di potere patriarcale anche nelle più giovani generazioni.

Come già il romanzo La scuola cattolica sul “delitto del Circeo” del settembre 1975, l’omonimo film di Stefano Mordini si interroga sulla terribile brutalità dei tre “bravi” ragazzi della borghesia romana, che dell’autore del libro, Edoardo Albinati, erano compagni in quella scuola.

Dal punto di vista opposto, stupri e ricatti sessuali vengono rivelati nell’angosciante Imaculat della romena Monica Stan, ambientato in un centro di riabilitazione per drogati, La ragazza che ha volato di Wilma Labate mostra il dolore sconvolgente della giovanissima vittima che, nel silenzio e nella solitudine di una Trieste grigia e periferica, non riesce denunciare e neanche a rivelare alla sua famiglia la violenza subita, ma trova la forza di superare il trauma e dare una svolta alla sua vita.

Le vittime ribelli non trovano comunque sostegno nella loro battaglia: cercano di dissuaderle dal denunciare la violenza la suocera in The Last Duel, ma anche la madre della vittima in Les choses humaines, mentre è dolorosamente incredula quella dell’accusato (il fascinoso interprete è figlio di Charlotte Gainsbourg anche nella vita).

Figure materne appaiono anche in altre diverse connotazioni: madri coraggio in Leave no Traces di Jan D. Matuszyuski e Mama, I’m Home di Vladimir Bitokor che, rispettivamente, in Polonia e in Russia lottano impavide per cercare la verità sulla scomparsa dei figli, madri “scambiate” nel bellissimo (ovviamente) Madre paralelas di Pedro Almodovar, capaci di amore infinito, che oltre il presente si volge a violenze passate per ricostruire le colpe del regime franchista. Distratta e latitante, ma capace di ricostruire con fatica il rapporto con le figlie, la protagonista di The Lost Daughter, la splendida Olivia Colman, dal romanzo di Elena Ferrante, prima regia di Maggie Gyllenhaal che trasferendo l’azione in Grecia rende talvolta poco comprensibili i riferimenti italiani. Sicuramente la madre peggiore è la dominante Dominique Sanda di Il paradiso del pavone di Laura Bispuri, dove, in una ormai consueta riunione di famiglia, si rivelano laceranti conflitti e difficili tentativi di riconciliazione.

Appaiono anche ruoli femminili ancora inconsueti: la sindaca di un paesino della periferia parigina, Isabelle Huppert, che dinanzi alla lusinghiera offerta di un posto di ministra deve scegliere tra ambizione e integrità politica (Les promesses di Thomas Kruithof), mentre in Un autre monde di Stéphan Brizé è un uomo (Vincent Lindon) ad essere posto dinanzi al dilemma tra etica e lavoro da una dirigente senza scrupoli, rappresentante della più feroce legge del mercato.

Le registe non esitano ad affrontare anche nuovi temi: il terrorismo islamico sulla scia dell’attacco al Bataclan attraverso la storia contrapposta di due sorelle (Tu me ressembles di Dina Amer), l’incursione nel fumetto di Mona Lisa and the Blood Moon di Ana Lily Amirpour sul rapporto tra una ragazza dotata di superpoteri telepatici fuggita da un ospedale ed una prostituta fuori di testa (Kate Hudson), la nuova inquietante realtà urbana di Mosca preda della droga (Detours di Ekaterina Selenkina), le persecuzioni politiche nella Russia del 1938 (Kapitan Volkonogov di Natasha Merkulova), la rivisitazione al femminile del western di Potsy Ponciroli (Old Henry) e della grande Jane Campion (The Power of the Dog). Meritato il riconoscimento nelle Giornate degli Autori a Casey Kauffman, regista insieme ad Alessandro Cassigoli di Californie, che segue per cinque anni il processo di inserimento umano e professionale e l’intrecciarsi della doppia identità della giovane Jamila, di origine marocchina, nel complesso scenario di Torre Annunziata.

Il pesante lockdown del Covid sembra aver causato il senso di claustrofobia che appare nello spazio chiuso del carcere, creando nuove forme di socializzazione tra uomini (Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, con gli ottimi Toni Servillo e Silvio Orlando) e tra donne (107 madri del ceco Peter Kerekes), ma incredibilmente anche in tre viaggi sottoterra. Se in Mother Lode di Matteo Tortone, tra realismo e pensiero magico tipico delle ambientazioni sudamericane, la miniera d’oro in Perù è luogo di duro lavoro e di morte, in Caveman di Tommaso Landucci una grotta sulle Alpi Apuane a meno 650 metri diventa luogo originale di creatività per Filippo Dobrilla che per 30 anni vi ha scolpito un colosso di marmo. Nello straordinario Il buco, Michelangelo Frammartino ricostruisce la missione di un gruppo di giovani speleologi che nel 1961 dalla Milano del miracolo economico si sono avventurati in Calabria nell’altopiano del Pollino, scoprendo una delle grotte più profonde al mondo. Più che mai coinvolgente questo viaggio lento e silenzioso, sempre più lontano dal mondo esterno, che diventa un affascinante ritorno al ventre materno, alle origini della vita.

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Rita Calabrese

Rita Calabrese già docente di Letteratura Tedesca all’Università di Palermo, è stata presidente della Società Italiana delle Letterate. È autrice di numerosi saggi sulla letteratura delle donne e cultura ebraico-tedesca, tra le sue pubblicazioni: Dissonanze. Aspetti di cultura delle donne (1990); Felicità del dialogo. Relazioni tra donne (1991); (con E. Chiavetta) Della stessa madre, dello stesso padre. Tredici sorelle di genii (1996); Sconfinare. Percorsi femminili nella letteratura tedesca (2003); Acher. L’Altro. Figure ebraiche nella letteratura tedesca, 1996; Dopo la Shoah. Nuove identità ebraiche, 2005; traduzione di A. Seghers, La gita delle ragazze morte (2010); F. zu Reventlow, Piccoli amori, Da Paul a Pedro (2014); F. Lewald, Album italiano (2015) Collabora con le riviste “Mezzocielo”, “Leggendaria”, “Leggere Donna”.

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