Bekià, ometto di papà, sin da bambina capace di imbracciare un fucile, vestirà i panni del maschio di famiglia che il fratello non vuole essere. Due vite imprigionate nei codici arcaici e feroci del kanun diffuso in molti paesi balcanici. “Colei che resta” è il libro potente di René Karabash
Di Nadia Tarantini
Rotola pagina su pagina la scrittura di René Karabash – tutta minuscola, senza un segno di punteggiatura, a parte le virgole. Quasi a riprodurre i battiti accelerati del cuore della protagonista Bekià, e la concitazione di una storia destinata, per la quale sembra non poterci essere riscatto.
Bekià si fa vergine giurata (ostajnica) per evitare un matrimonio che le fa ribrezzo, e per aver perso alla vigilia delle nozze la purezza, senza la quale è certa che sarà uccisa, con quel proiettile che il padre ha inserito nel suo corredo di nozze. La prima conseguenza è che vedrà cadere a terra, assassinato, il padre. Lo fa e resta così fedele a Dana, una luce che si è accesa per poco, una luce che non si spegnerà mai dentro di lei.
È il taglio originale di una vicenda che ha al centro il kanun delle montagne albanesi, l’insieme di leggi arcaiche e feroci diffuso anche in Kosovo, Serbia, Montenegro, Croazia, Macedonia del Nord. Storia che già conoscevamo in letteratura e al cinema, qui intrecciata con l’amore di due giovani donne, e con il rapporto particolare che lega Bekià al fratello Sali.
Lei e lui, legati dal filo dell’assoluta mancanza di libertà, scambiati di ruolo sin dalla nascita: Bekià ometto di papà, sin da bambina capace di imbracciare un fucile; Sali femminuccia, amante della danza, disprezzato dal padre. Alla vigilia della tragedia che stroncherà l’intera famiglia, Sali fugge e rifiuta la parte di maschio vendicatore o destinato a morire per difendere l’onore della stirpe. Bekià è colei che resta, nel suo ruolo acquisito di maschio capofamiglia. Sali e Bekà uniti dal laccio di una doppia – reciproca – colpa.
«Già nel ventre di mia madre/ sentivo diverse cose/ come mio padre che diceva/ iskam sin, voglio un figlio.»
Elvira Mujčić, che firma la prefazione, ricorda che la terra in cui si svolge la vicenda di Bekià è quella della catena montuosa Prokletije, le Montagne Maledette del Nord dell’Albania; ricorda anche che Karabash, scrittrice bulgara – la Bulgaria dista soltanto 537 chilometri da quella terra, e Dana è una ragazza bulgara – avverte di non illudersi: «siamo di fronte alla storia dell’umanità che si ripete da sempre in ogni angolo del mondo, ed è una metafora delle prigioni che l’essere umano è capace di costruire per se stesso e i suoi simili. In questo senso il patriarcato è la gabbia per eccellenza dove nessuno è davvero libero di essere quello che è».
Il testo di Colei che resta si apre con una poesia – poesia che qua e là lo percorrerà tutto. Poesia come bellezza, meditazione, contrappunto all’asperità della vita crudele che Bekià è costretta a condurre. Bekià, ora Matja, nome maschile che ha scelto come vergine giurata, nelle centotrentanove pagine del libro racconta passato e presente – la sua molto esile speranza di futuro.
Lo fa in un monologo diretto ad una misteriosa intervistatrice, giornalista, cui spiega anche le regole dell’ospitalità, scritte nel kanun: «ci sono due cose che l’ospite non ha il diritto di fare, l’ha capito, giusto, pulire il suo piatto con il pane e mettere legna nel focolare, se lo fa, in quello stesso momento, così come mi vede ora, posso alzarmi aprire la finestra e gridare al villaggio che sono stata offesa dal mio ospite, dopodiché […] dovrei ucciderla».
È un vero e proprio monologo, quello di Bekià, mai sentiamo la voce della giornalista: parte dal momento dell’uccisione del padre e procede come dentro le anse di un labirinto, avanti e indietro, sembra non possa trovare l’uscita – la scrittura di Karabash è semplice e potente, come un coltello scava e tagliuzza, fa a pezzi e ricompone la vita di Bekià/Matja.
Viaggio in una quotidianità feroce e straniata, in una solitudine assoluta popolata di ricordi, ripensamenti e sensi di colpa – viaggio interiore di meditazione intima. René Karabash, poeta, sceneggiatrice teatrale e attrice, ci porta su un palcoscenico inusuale, ma i conflitti che vi si giocano sono quelli, essenziali, di qualsiasi esistenza umana: il corpo, la vulnerabilità, l’amore.
Quanto abbiamo diritto di sacrificare (o non sacrificare) per amore? Si tratta soltanto di amore, o in gioco c’è la profonda essenza della femminilità, della dignità umana, del senso ultimo della vita? E quale il prezzo della libertà?
Al di sotto del monologo di Bekià/Matja, Karabash tesse la trama del dialogo a distanza fra Sali, riparato a Sofia, e la sorella: dialogo ad una voce, perché Bekià non sa leggere e soltanto l’arrivo della giornalista le potrà rivelare il contenuto di quattro lettere del fratello. L’ultima aprirà per lei la porta di casa – e la porterà ad una stupefacente scoperta sul suo corpo. Un corpo che contiene, da trentatré anni, quasi una metafora carnale di tutto ciò che lei ha vissuto.
René Karabash, Colei che resta, trad. Giorgia Spadoni, Bottega Errante Edizioni, Udine 2025 139 pagine, 17 euro

Nadia Tarantini

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