Quali sono le forme narrative privilegiate per raccontare le donne in luoghi tradizionalmente maschili quali quelli lavorativi, cura a parte? Dal convegno della Società Italiana delle Letterate del 2019, Visibile e invisibile. Scritture e rappresentazioni del lavoro delle donne, è nato un volume collettaneo di ricerche e testimonianze sul tema e soprattutto sull’evoluzione delle narrazioni femminili sul lavoro
Di Amanda Rosso
Nel 2019, prima che la pandemia di Covid-19 ci costringesse a ridiscutere le nostre priorità, prima delle battaglie campali per la carta igienica, prima che le disuguaglianze sociali e di genere emergessero da un lockdown in cui il lavoro e la casa sono diventati luoghi di frizione, ricerca e scontro politico, la Società Italiana delle Letterate ha organizzato il suo convegno biennale dal titolo Visibile e invisibile. Scritture e rappresentazioni del lavoro delle donne. Le relatrici e le partecipanti al convegno si sono soffermate sulla relazione fra il lavoro e il tempo di vita, sulle forme varie e diverse del lavoro, e sulla genealogia di quello femminile, e specialmente della sua narrazione, nella seconda parte del XX secolo. Dal convegno del 2019 a Venezia, di cui potete leggere sul sito della SIL, è scaturito un volume collettaneo con lo stesso titolo, a cura di Laura Graziano e Luisa Ricaldone, che pone al centro le strategie narrative e le modalità poetiche adottate, nonché sui modelli, simboli e codici testuali impiegati per dare forma alle rappresentazioni del lavoro delle donne. Ci si chiede «Come viene raccontato il lavoro delle donne nelle opere scritte e visive più recenti? Quali sono le forme narrative privilegiate per raccontare le donne in luoghi tradizionalmente maschili? E quali personagge illustrano meglio le trasformazioni cruciali delle professioni e delle attività precarie?»
Nella loro introduzione, Graziano e Ricaldone analizzano la relazione storica, politica e letteraria fra genere e lavoro, e mettono in evidenza le contraddizioni intrinseche a una relazione di sfruttamento che può altresì operare come strumento di emancipazione. «Dovremo arrivare agli anni Settanta», scrivono, «perché le donne del femminismo e gli operai delle fabbriche vedano la distorsione perversa del misurare il valore della vita con quello del lavoro». Le curatrici esaminano la trappola della «doppia attività lavorativa, sociale ed esterna ed “emozionale” e interna» richiesta alle donne, ma anche l’evoluzione di un paradigma produttivo che fagocita l’individuo e trasforma le sue preferenze, passioni, i suoi gusti, perfino le informazioni più irrilevanti, in capitale.
Laura Graziano, in A che ora è il crollo del Capitalismo? si occupa, oltre che dell’evoluzione delle modalità lavorative sempre più asfissianti, di quella che l’economista Cristina Morini chiama «femminilizzazione del lavoro», in cui sia gli uomini che le donne devono essere capaci di «attingere a sentimenti quali passione, dedizione, capacità di relazione, sentimenti che abbiamo sempre considerato parte della vita non lavorativa e pensato come specifiche attitudini del mondo femminile». Nel suo contributo, Graziano si concentra sulle tracce letterarie del lavoro in relazione ai concetti di Esterno e Aperto, sia come luoghi fisici che permettano di sfuggire alla fabbrica e la casa, che come possibilità del femminile di esondare, come capacità dell’immaginazione, «[…] aperto alle idee, aperto come disponibile, aperto è lo spazio pubblico e non privato. Aperto è un luogo che contiene un intervallo, una pausa, una latenza». Da La condizione operaia di Simone Weil, a La Vita Agra di Bianciardi, da L’Iguana di Anna Maria Ortese ai racconti di Lucia Berlin e i lavori più recenti di scrittori e scrittrici italiani/e come Andrea Bajani, Michela Murgia e Nicola Lagioia, Graziano traccia una parabola letteraria della possibilità di raccontare il lavoro e la sua evoluzione, le indegnità e le strategie narrative di una classe operaia che si allontana sempre di più dalla fabbrica per frammentarsi e atomizzarsi fra le mura domestiche.
In Dentro l’algoritmo Cristina Bracchi si concentra sulle «narrative resistenti», le disuguaglianze razziali, geografiche e di genere legate alla cittadinanza, l’appartenenza, il diritto ad avere il «posto nel mondo» di cui parla Hannah Arendt. Alla progressiva perdita di diritti da parte dei lavoratori e delle lavoratrici, Bracchi unisce anche il ruolo degli «algoritmi produttivi del capitalismo avanzato» che trasformano i corpi e le vite in «fattori di calcolo», in «corpi-merce» di chi lavora, e dei/delle migranti. Le pratiche femministe, continua l’autrice, non possono prescindere dall’interrogazione delle dinamiche di potere che sussumono le nostre esistenze. Da Virginia Woolf a Donna Haraway e le sue «forme ibride di identità», a Valeria Parrella, Bracchi opera una lettura obliqua del capitalismo cognitivo e dell’annullamento di quella già frammentaria separazione fra tempo di vita e tempo di lavoro che caratterizza la molteplicità occupazionale delle donne nella società Occidentale contemporanea. Nuovamente Morini nota che le donne vengono spinte a dirottare verso «l’“impresa-corpo-vivente” tutto il tempo, tutte le cure, tutte le parole, tutte le attenzioni». Non solo quindi lavoro retribuito e lavoro di cura non retribuito, ma quel «lavoro senza fine» di cui parla Daniel Cohen, un «affanno perenne dell’agire opportuno» che, scrive di nuovo Bracchi «dall’ambito della cura è stato assunto in ogni campo lavorativo».
Tuttavia Bracchi mette al centro le narrative resistenti, dell’«interrelazione fra felicità sociale e felicità individuale», in cui è possibile non solo esporre e denunciare, ma perfino, a tratti, sottrarsi alla dinamica di sfruttamento e sorveglianza delle tecnologie. «Avere consapevolezza che non siamo il lavoro che facciamo è un cambio di prospettiva che consente di nominare il lavoro da una distanza di sicurezza che esprime dissenso verso la sussunzione della vita nel lavoro», prosegue l’autrice, che cita i lavori di Chiara Ingrao, Simona Vinci e Gisella Modica. «Quali strategie di ri-narrazione dei lavori e delle esperienze si possono attivare?»
Sul rapporto controverso fra donne e lavoro in Giappone si occupa Luisa Ricaldone in Il lavoro, la vita, dove analizza da una parte il celebre romanzo dell’autrice belga Amélie Nothomb, Stupore e tremori, che esplora la polarizzazione culturale fra Oriente e Occidente nell’intendere la relazione con il lavoro, e dall’altra la produzione di autrici giapponesi che si sono occupate dei diversi elementi sociali ed emotivi che si intersecano nelle narrazioni sul lavoro femminile. In particolare la centralità della fabbrica e del supermercato, e gli elementi perturbanti che ne caratterizzano i ritmi, i rituali e i processi atti ad ammansire e fagocitare i corpi, sono al centro dei romanzi di due autrici, Horoko Oyamada e Murata Sayaka, che in La fabbrica e La ragazza del Convenience Store rivelano gli aspetti perturbanti di quella macchina fagocitante e totalizzante che è la «progressiva femminilizzazione della società» di cui scrive Morini. Ricaldone ci mette in guardia di fronte al pericolo del lavoro inteso come religione, un sistema di valori e rituali che proprio in virtù della loro potenza identificativa rappresentano l’ordine che «dà forza alla fragilità della donna perché la contiene impedendo che il caos prenda il sopravvento». In un sistema precario puntellato da crisi economiche e pericoli imminenti, la trappola del lavoro come fonte di stabilità e riconoscimento si mescola al progressivo sgretolarsi delle reti di supporto informali, in Giappone come in Europa.
Di corpo-merce e scenari ibridi parlano anche Laura Fortini e Laura Pugno a proposito del suo romanzo Sirene che pone al centro della narrazione il rapporto fra i corpi e il «capitalismo estrattivo» di cui scrive Shoshana Zuboff in Capitalismo della Sorveglianza. Sirene è un romanzo che parla del «futuro come se fosse il presente», dove i corpi delle sirene sono «la rappresentazione e la figurazione più cruda del lavoro delle donne […] oggetto sessuale di piacere estremo e cibo […]», e dove tuttavia è ancora possibile immaginare una forma utopica di sopravvivenza del non umano, o dell’ibrido, in un importantissimo scarto politico che non vuole vedere il mondo solo nelle sue manifestazioni antropomorfe, ma abbraccia la possibilità di un’esistenza post-umana che non contempli un noi futuro, ma solo un Altro da noi.
Partendo dalla «messa a lavoro delle donne e del loro corpo» dialogano anche Giulia Caminito e Chiara Ingrao, che pongono al centro il lavoro culturale delle donne, la scrittura, e il loro corpo di scrittrici in relazione non solo all’atto di scrivere, ma al processo di promozione dei libri, il carosello dei premi letterari e del ciclo di vita dei romanzi, la cui sopravvivenza spesso dipende dalla capacità e la possibilità di chi scrive di portare visibilità ai libri.
La scrittura non è più intesa come processo creativo e intellettuale tout court, bensì come uno sforzo multimediale e transeunte, fisico ed emotivo, che talvolta si rivela più complesso e stancante della produzione stessa.
«Come è cambiato il mestiere di chi scrive, i ritmi, la durata, la presenza fisica, la promozione, la vendita di sé e dei propri libri», si chiede Caminito, in un ambito dove non ci si limita a marchetizzare un prodotto, ma spesso ciò che si vende è una narrazione di sé elaborata e pianificata, un «oggetto pubblicamente “spendibile”» prosegue Ingrao, che somiglia paradossalmente all’identificazione totale della protagonista del romanzo di Murata Sayaka.
Il tempo si fa anche qui nodo centrale, il tempo «convulso, spesso, schizoide della promozione», ma anche quello che non si dedica più per fare i libri, «in cui i libri vengono scritti, vengono corretti, vengono pubblicati». Poco il tempo dei libri di sopravvivere.
E qui si avverte l’apice della sovrapposizione fra tempo di lavoro e di vita, dove il tempo di lavoro inteso come produzione letteraria viene ridotto al minimo, strappato all’affaccendarsi di un panorama editoriale in perpetuo movimento, e dove il tempo di vita diventa tempo di promozione, di performance, di affanno. Ma anche in questo scenario si manifesta la possibilità di mettere a critica i sistemi di potere e le logiche capitalistiche attraverso la possibilità per le scrittrici di «fare rete […] un impegno non solo emotivo ma molto pratico, per non lasciare nessuna sola in questa sfida terribile dell’autopromozione», e soprattutto, «per strappare qualcosa in più per tutte: recensioni, visibilità, ascolto». Si ritorna, dunque, alle origini, agli strumenti collettivi che assumono valenze e modalità differenti, ma che permangono negli intenti e nell’immaginazione.
È proprio di un immaginario che offre alternative che ci racconta Loredana Magazzeni in Poesia del lavoro e lavoro della poesia, dove dedica ampio spazio alle possibilità del narrare poetico, ma anche del suo impiego pratico.
Magazzeni scrive che «lo sguardo della poesia sul lavoro è uno sguardo che attraversa il presente e il passato delle donne, mette a fuoco incongruenze e stridori, la forza creatrice della forma e dello stile, portando visioni diverse e complementari del lavoro femminile e intellettuale». Dalla poesia lirica del Quattrocento e del Cinquecento, ad Ada Negri e Antonia Pozzi, fino alle poete contemporanee come Maria Grazia Calandrone, Nadia Agustoni e Antonella Barina, Magazzeni ci guida in un excursus poetico dalle fabbriche ai negozi e i bar, dalla catena di montaggio alle postazioni domestiche delle antenate sarte e ricamatrici, in una genealogia che osserva e racconta la cura attenta delle donne e non solo la loro oppressione. La poesia e i suoi linguaggi cambiano a ritmo con il lavoro, che si fa precario e sradicato, in un tempo in cui «la crisi del lavoro è anche crisi delle relazioni», e in cui al privilegio dell’occupazione si intreccia il privilegio della cittadinanza, dove è necessario ripensare le nostre narrazioni, la fissità di certi ruoli e forme di resistenza, per aprirsi al possibile come fa la poesia con il linguaggio, poiché conserva «zone di opacità […] in cui si coltivano, come in un laboratorio di essenze aromatiche, mescidamenti, nuove combinazioni».
Nell’ultimo intervento del volume, Dalla parte delle sovrane, Annarosa Buttarelli prende invece in esame i concetti di autorevolezza e autorità, per rinvigorire un dibattito ormai stagnante sulla possibilità concreta di una leadership femminile. All’illusione di una orizzontalità che maschera diseguaglianze e squilibri di potere, Buttarelli contrappone «le abilità che si fondano sull’esperienza», l’«autorità generativa», un termine, autorità che, come autorevolezza, secondo l’autrice è stato erroneamente identificata con il potere. Di nuovo il filo rosso delle parole si interseca e richiama agli altri contributi del volume. Il linguaggio e le narrazioni occupano un posto decisivo nel ripensare le dinamiche di potere e le mancanze di un sistema fondato sulla «razionalizzazione della menzogna», una «menzogna organizzativa» a cui si deve porre rimedio tramite la «cura delle parole» e la «cura delle relazioni» che è nostro compito affidare «alla autorità generativa e alla sapienza del governare».
Non solo la ricca varietà dei suoi contributi fanno di Visibile e invisibile una lettura potente e necessaria, ma è proprio la sua facoltà di saper immaginare un possibile al di fuori delle logiche di mercato e dello sfruttamento attraverso il linguaggio e le narrazioni che sa condensare un sapere secolare, pratico e intellettuale, in un volume che offre una decostruzione critica del lavoro femminile ma anche una analisi programmatica delle possibilità immaginative e trasformative della scrittura.
Visibile e invisibile. Scritture e rappresentazioni del lavoro delle donne, eds. Laura Graziano e Luisa Ricaldone (Iacobelli, 2024)
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Amanda Rosso
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