La redazione del Letterate Magazine di fronte al voto del 25 settembre ha cominciato a discutere. Poi qualcuna di noi ha scritto un suo pensiero e un’altra ha risposto. A quel punto ci siamo lanciate: e ciascuna di noi ha scritto il suo pensiero da elettrice e non elettrice. Eccovi il risultato.
C’è una cosa che mi ha colpito come uno schiaffo: la volontà di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia di fare una legge che obblighi a seppellire i feti dopo l’aborto, sul “modello Veneto” e “Lombardo”. È punitivo, sadico, perverso, quanto far ascoltare il battito del cuore del feto alla donna che vuole abortire, una tortura inventata dal premier sovranista d’Ungheria e di recente copiata in Umbria, una regione governata dalla destra.
So che vecchie e nuove povertà avanzano e soffocano le lotte sociali, che le sinistre non hanno saputo difendere lo Ius soli e neppure lo Ius scholae per consentire una vita dignitosa ai migranti. So anche cosa vuole farne la destra, dei e delle migranti: li abbiamo già visti all’opera, con le navi cariche di disperati tenute fuori dai porti. So che vorrei sentire, da sinistra, progetti più precisi contro l’emergenza climatica e per evitare che le e i giovani lascino l’Italia che non offre loro lavoro, servizi sociali, aiuti. Desidererei un ministero della Cura con un portafoglio cospicuo perché occorre curare il suolo, le acque, le città, gli umani e tutto il vivente.
Ma voglio restare su temi più legati al mio essere femminista, perché non se ne parla mai abbastanza, neppure a sinistra. E segnalo un altro fatto talmente scurrile e carico di disprezzo verso le donne da farmi disperare all’idea di invecchiare con Meloni/Salvini/Berlusconi al governo. È stato quando il direttore del quotidiano Libero ha commentato la svolta linguistica dell’enciclopedia Treccani, che ha introdotto i femminili di molti mestieri nelle proprie pagine e nuove parole come casalingo, con il titolo “È arrivata la ‘Treccagne’, dizionario femminista”. Non voglio votare insieme a persone che votano politici, giornalisti e sindache che condividono battute simili, cimiteri dei feti, odio per gli omosessuali, disprezzo per lo stato, indifferenza per le mafie. Da sempre quando voto, non penso solo a chi dirige quel partito, ma anche ai miei compagni e compagne di voto, con cui condivido progetti, dubbi, desideri.
Norma Rangeri ha scritto di recente su il manifesto che nei primi anni Settanta a chiedere di fermare gli aborti clandestini c’erano tutti, socialisti, radicali, cattolici di base, comunisti. Solo l’Msi, nella cui memoria e fiamma tricolore la fratella Giorgia è cresciuta, si è sempre opposto all’aborto in nome di “Dio, patria, famiglia”, slogan che tuttora lei va proclamando.
Quindi, con tutti i limiti delle sinistre e molto scoramento per le cose che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto… E dato per scontato che la politica è l’arte della mediazione e del governo delle divergenze e che mi trovo molto più a mio agio da mezzo secolo nel movimento femminista che in un partito, andrò di certo a votare, continuando a sostenere alcune candidate dello schieramento di sinistra anche se vorrei fossero più coraggiose, disobbedienti e unite. E come sempre voterò pensando a mia madre, a come era felice di aver finalmente potuto votare. “Dopo tutto quello che hanno lottato le suffragette”, diceva.
(Silvia Neonato)
Una donna al governo non vuol dire niente
«Una donna, senza un nome e un cognome, non esiste». dice Ida Dominijanni a proposito del tam tam giornalistico crescente che vuole a ogni costo vedere nella ipotesi di Meloni premier una innovazione cara al femminismo: come se l’elezione di qualsiasi donna, in quanto tale solo per caratteristiche biologiche, esaudisse un desiderio remoto e molto atteso. Non è così per molte femministe, donne che leggono la realtà con attenzione senza cadere in facili slogan, critiche verso una diffusa compiacenza che segue sempre il carro dei vincitori, come se eventuali briciole sparse intorno portassero un po’ di benefici a quelli che si accalcano.
Ogni donna ha una sua storia, come ogni essere umano, e non bastano certo i silenzi e le accortezze dell’ultimo tempo a cambiarla, anzi rafforzano l’idea di una strategia accurata di scalata al potere, per riproporre le politiche di sempre del suo partito, quanto mai lontane e difformi rispetto a quanto le femministe chiedono da anni. I diritti e le scelte politiche, lo sappiamo, non restano acquisiti per sempre, occorre essere vigili e attente a non precipitare nei baratri che ci illudiamo di non vedere.
(Gabriella Musetti)
Non ci crediamo più, ma…
Non ho alcun dubbio se andare o no a votare domenica 25 settembre: bisogna andare. Andare perché la maggioranza la fanno i votanti, non gli astenuti. Andare perché c’è, a sinistra, un’ampia rosa di candidate e candidati che hanno in programma le scelte ecologiche, il verde, il rispetto dell’ambiente e verso tutte le diversità. Direi che bisogna andare, e credere nelle singole persone che si sono candidate con questa precisa volontà, ce ne sono tante, e tante giovani. Penso a Elly Schlein, per esempio, ma anche a tante e tanti altri. Mi si dirà: non ci crediamo più, niente cambierà mai.
Non ci credo, mentre vedo che le azioni singole, le piccole, buone idee di tanti, anche nella società civile, coltivano speranza e promettono cambiamento. Penso alle Cucine popolari di Roberto Morgantini a Bologna: nate dal desiderio di aiutare chi ha fame, chi sta male, sono diventate già tre, e cucinano centinaia di pasti, grazie a una fitta rete di volontari. Novità dal basso, dalle persone. Penso a Gian Andrea Franchi e Lorena Formasir, con le loro valigette di medicinali e cerotti in piazza a Trieste, ad aiutare i migranti che arrivano con i piedi piagati, disidratati, affamati. Il diritto di Antigone. Penso a Flush, festival autogestito di editoria femminista a Centro di Documentazione delle Donne a Bologna, un successo, partito dal basso. La società civile va avanti, ci sono tanti esempi preziosi. Dobbiamo aiutarla votando chi, al di là di tutto, sta dalla parte dei deboli, dell’ambiente, degli ultimi. Persone nuove ci sono, che camminano in fretta. Diamo loro fiducia col nostro voto.
(Loredana Magazzeni)
L’astensionismo è ghosting
C’è una pratica che esiste da sempre, ma che di recente è stata ribattezzata col nome di ghosting. Ghosting, come suggerisce la parola stessa, significa diventare un fantasma, scomparire, smettere di esserci. Nella pratica, ciò comporta che chi fa ghosting non risponde più alle telefonate, ai messaggi, lasciando l’altra persona in un abbandono silenzioso che altro non fa che animare nuovi fantasmi angosciosi. Il ghosting fa schifo: è un atto di codardia estremo, di chi non ha il coraggio di comunicare a una persona con cui magari ha fatto sesso anche più di una volta che non è più disponibile, che se ne va.
L’astensionismo alle elezioni del 25 settembre 2022 per me è l’equivalente del ghosting. La cittadina e il cittadino hanno una relazione con la democrazia: di delusione, di amore e odio, di fierezza, di indifferenza, ma quella relazione esiste, è un’evidenza.
Giustificare il proprio astensionismo sostenendo che non esistano partiti, candidate e candidati degni è un atto di estrema superbia: davvero, tra tutte le persone che sono in lista, possiamo dichiarare senza tema di smentita che non c’è nessuno che se lo merita? È statisticamente impossibile. Non è sufficientemente giusto neanche il partito dei Verdi? Neanche la causa ambientalista è abbastanza valida?
L’astensionismo, come il ghosting, è l’atteggiamento di chi crede che abbandonare la propria relazione alla chetichella sia la cosa giusta da fare, di chi pensa: sono troppo fig@, troppo intelligente, troppo delus@, troppo colt@, troppo espert@ per perdere il mio tempo con te, candidat@, con te, amante, con te Altr@ da me.
Non fare ghosting con la democrazia, vai a votare.
(Laura Marzi)
Poi però un governo fa
Una persona, mettendosi in relazione con un’altra, sta creando un rapporto politico. Dimostriamo il nostro posizionamento politico in ogni cosa che facciamo anche, e forse soprattutto, quando non siamo consapevoli di averne uno. Siamo sempre soggetti politici. Non possiamo dimenticare Gramsci, insomma.
Consideriamo come politiche le nostre scelte di consumo – mangio verdure biologiche del mercato di vicinato o mi affido all’agricoltura intensiva? Aderisco a un g.a.s? Scelgo di acquistare abiti usati o di fast fashion? Vediamo chiaramente l’impatto di queste scelte. Come ingranaggi del capitalismo ci sappiamo orientare e anche opporre. Altra storia quando un nostro atto, il voto, dovrebbe poter tramutare idee in azioni, pratiche, nuove realtà. Si rimane perplesse di fronte a un’azione tanto poco tangibile come il voto. In cosa si tramuterà quella mia preferenza, in concreto? Ci viene richiesto un investimento di fiducia, di riporre la nostra fiducia proprio lì dove così spesso è stata tradita.
Gli aspetti della vita che ci coinvolgono sul piano delle aspettative e degli ideali però richiedono sempre quell’affidarsi, quel rischio di perdere, quel salto nel buio.
E poi, inesorabilmente, le scelte del governo centrale rivelano il loro impatto sul reale.
Dallo studio e la pratica del teatro sociale ho appreso che anche le persone che si sentono totalmente prive di potere – una volta ritrovata la propria voce, la vitalità del proprio corpo, il proprio valore di esseri umani grazie alla relazione con il gruppo – riscoprono di avere un potere e un impatto sulla realtà. Ecco, votare non è un modo altrettanto concreto di riscoprire la propria voce ma è parte delle azioni che si possono attivare per difendere o costruire una realtà dove ci sia spazio per la voce di ogni persona.
(Sarah Perruccio)
L’impotenza dei giovani
Qualche giorno fa ho letto una frase di Simone de Beauvoir che mi è sembrata illuminante, forse disarmante nella sua quasi spietata attualità. «La società non si cura dell’individuo che nella misura in cui esso renda. I giovani lo sanno. La loro ansietà nel momento d’affrontare la vita sociale è simmetrica all’angoscia dei vecchi al momento in cui ne sono esclusi». Ad oggi i giovani sanno che molto dipende da loro, eppure, allo stesso tempo, sanno che il loro potere per cambiare lo stato attuale delle cose è pari a zero.
Queste elezioni che ci prepariamo ad affrontare non sono altro che il risultato inevitabile, e scontato, del momento storico che stiamo vivendo: non si tratta solo della scelta di un partito politico (se ancora ne esiste uno degno di essere chiamato tale), ma della frustrazione che tutti in un modo o nell’altro sentiamo, una frustrazione che nasce dalla consapevolezza di poter fare ben poco. I giovani vivono con ansia la loro impotenza nei confronti di questo paese e verso sé stessi, la necessità di costruire e fare che va di pari passo con l’assenza di mezzi. Allo stesso tempo i più anziani sanno che ciò per cui hanno lottato potrebbe andare perduto. In modo diverso ci sentiamo tutti spatriati dal nostro stesso paese, e forse ignari di quale sia la soluzione.
(Manuela Altruda)
Il vuoto della credenza politica è come non avere religione
Ho un rapporto ondivago con il voto. A diciotto anni andai coi miei genitori a votare con la mia prima tessera elettorale e chiesi a mio padre dove dovessi mettere una croce, tanto poco era il mio interesse per la scelta e tanto forte era invece la fiducia nelle opinioni di famiglia. Per qualche anno andai avanti così, il mio era sempre un voto affidato ad altri e io pensavo a come esprimere la mia idea di democrazia solo in opposizione a ciò che di sicuro non volevo arrivasse a governarmi.
Da quella posizione iniziale non è mai cambiato molto. Studiare filosofia politica invece di aumentare la mia voglia di partecipazione e di presa di coscienza l’ha ridotta al minimo assoluto, perché il paragone tra la teoria politica e la realtà che vedevo nel mio paese era talmente esagerato da imporre il silenzio e lo sbigottimento. Quando ho studiato il movimento anarchico ho acquisito più consapevolezza rispetto al non-voto, pratica che il movimento anarchico ha sempre portato avanti essendo uno dei pilastri teorici e pratici per gli anarchici il non riconoscimento della rappresentanza o della presenza al governo. Il movimento infatti ha sempre promosso un attivismo duro e continuo ai margini della politica, per creare disturbo all’ordine attraverso una serie di azioni ben visibili che vanno dalla contestazione pubblica, alla stampa movimentista fino agli attentati e gli ordigni posti in luoghi rappresentativi del potere. Il non-voto quindi mi è apparso come una decisione possibile e sensata, che può essere però affrontata se dall’altra parte c’è un coinvolgimento politico ben preciso: quando insomma si agisce nella società e si crea un tessuto politico altro e alieno a quello predisposto dalla democrazia.
Posso dire in tutta onestà di aver mai avuto un profilo tale da ritirarmi rispetto ai miei doveri di cittadina? Non credo, come ho smesso di credere negli anni che scrivere sia una forma di impegno politico, valido abbastanza da rientrare nell’ambito della militanza. Considerando quindi la scrittura come qualcosa che non è sufficiente a evitare i meccanismi della democrazia, mi sono domandata sempre di più che fare. Trovarsi nel vuoto della credenza politica è come non avere religione, sei più autonoma, sei indipendente, non ti fai manipolare, non osservi regole o imposizioni, ma quando arrivano i momenti più bui e terribili non hai nessuno a cui appellarti. E io mi sento così, in un momento politicamente buio, senza nessuno a cui chiedere salvezza o almeno speranza per questi anni a venire.
(Giulia Caminito)
Una scheda aliena tra due nazioni
Quando penso al voto, penso allo scherzo bizzarro e crudele di vivere a cavallo fra due nazioni: l’Italia, che mi manda una scheda elettorale per corrispondenza, e il Regno Unito, dove non posso votare alle elezioni ministeriali perché non ho la cittadinanza.
Posso votare dove non vivo più e non posso votare dove vivo da quasi nove anni. Posso votare per un futuro ipotetico e non per un presente già in atto. What a palaver…direbbero qui in Albione, un’espressione che significa allo stesso tempo “inutile burocrazia”, “filippica indesiderata” e, il mio preferito, “una conferenza fra due gruppi di persone che tipicamente non parlano la stessa lingua”.
Questa incongruenza è ciò che vorrei sopravvivesse di tutto quello che ho da dire, ma non ho gli strumenti per dire, su queste elezioni. L’incongruenza del ricatto, del soffocamento che provo nel sapere che ci si aspetta che io debba difendere un diritto che così tanti, ma soprattutto tante, hanno lottato per conquistare. È una responsabilità enorme, quella di raccogliere una siffatta eredità, ma allo stesso tempo, con l’approssimazione del “meno peggio”, mi sento di tradire quegli sforzi basati sulla speranza come atto politico (l’ottimismo della volontà, avrebbe detto Gramsci) di cui quegli uomini e quelle donne hanno investito il voto.
L’incongruenza di non poter votare se non per le grandi coalizioni, inglobandomi in quella supposta democrazia le cui reliquie ancora crediamo di portare in corteo.
Che cosa significa allora, rifiutare il voto? Perché, se è vero che il voto è un dialogo aperto con il potere, così è il non voto. Non l’astensionismo annoiato e rassegnato, il populismo che non fa distinzioni, l’ignavia pigra o il becero disinteresse, ma l’astensionismo come lotta di sottrazione, come presa di posizione in negativo. L’astensionismo di ripensarsi non solo soggetti attivi e politici quando attori una scelta obbligata, ma anche quando si sceglie di mandare un messaggio chiaro, di non appoggio, di non approvazione. Non voler essere rappresentat* e forzat* a votare al ribasso.
Cosa ne è delle persone che questo diritto non ce l’hanno, perché l’entità stessa della democrazia rappresentativa, della maggioranza, si basa sull’esclusione e l’alienazione di coloro che sono più vulnerabili alle maree infauste della politica? E che ne sarà di chi lavora instancabilmente al di fuori delle reti da pesca della democrazia rappresentativa, di chi vive l’idea di politico non solo come personale ma soprattutto collettivo?
Mi fermo e mi chiedo se il mio voto, e quello di molte e molti altr* come me, potrebbe diventare una modalità di scegliere interlocutor* politic* più sensibili, per mettersi in relazione con il potere, come invariabilmente accade, un potere che per sua natura io rigetto perché non c’è incontro possibile fra libertà e potere – ma che altr*, nella dimensione del loro operato, possono trovare meno ostico.
L’unica mia speranza, politica anche quella, va da sé, è che ci prepariamo alla lotta, quella vera, nelle strade, sui ponti, nelle case, nelle scuole e alle frontiere, negli ospedali e i CPR, sui posti di lavoro e le università. Perché se il voto e l’astensionismo non sono la risposta, un’alternativa la dobbiamo immaginare per forza.
(Amanda Rosso)
L’astensione è un sabotaggio fertile
Astensionismo non è solo passività politica, rinuncia ad esercitare l’esercizio di voto, né solo teoria del “tanto peggio tanto meglio”. È una forma di “sabotaggio fertile” da parte di coloro, e sono tanti/e, che la politica la praticano, anzi ne fanno troppa, in maniera attiva piuttosto che orientata alla difesa “passiva” dei diritti, radicata nei territori, intorno ai temi dell’ambiente, della giustizia ed esclusione sociale, povertà, discriminazioni di genere, violenza, beni comuni: temi che la politica istituzionale non contempla nell’agenda, anzi spesso osteggia. È la politica praticata dalle nuove generazioni, che citano le suffragette non solo per la battaglia sul voto ma per le loro azioni violente di sabotaggio, supportate dagli uomini.
Lo ha detto Claudia Durastanti durante il collegamento on line di alcuni giorni addietro sul tema dell’astensionismo femminile, coordinato da Annarosa Buttarelli, fondatrice della Scuola di alta formazione politica per le donne.
Le intervenute hanno denunciato il gap generazionale tra candidate, donne delle istituzioni, dei partiti e dei sindacati, e le giovani che non si riconoscono nelle loro parole d’ordine spesso “scollate dalla realtà”.
Ma viene altresì denunciato lo scollamento tra candidate e donne dei movimenti – può esistere rappresentanza senza confronto? – e tra donne degli stessi movimenti. C’è dispersione di pensiero e di energie, mancanza di relazione, di solidarietà e di circolazione di autorità femminile. Ciò che non si vede all’orizzonte, dice Buttarelli, è un forte gesto simbolico di rottura come lo è stato “Sputiamo su Hegel” o “Non credere di avere dei diritti”.
La critica alla politica rappresentativa, che la passata generazione di donne ha espresso anche attraverso l’astensione dal voto, non appartiene alla generazione più giovane. Il loro desiderio di politica si svolge altrove.
Ho scelto tra le tante questioni emerse dal dibattito questi passaggi per esprimere una mia convinzione consistente nel fatto che accanto e oltre alla discussione su “voto sì, voto no” o sull’astensionismo che è solo “un effetto” del disagio della politica, patito soprattutto dalle donne di sinistra, il punto su cui bisognerebbe convergere (evidenziato nel collegamento anche da Assunta Sarlo) è se i dispositivi della delega e della rappresentanza su cui si fonda la moderna democrazia e basata sul meccanismo della leadership individuale e identitaria, di tipo piramidale – che si tramuta nei fatti in autoreferenzialità e in sterile gioco delle parti provocando quello scollamento dalla realtà di cui sopra – siano oggi ancora compatibili e all’altezza delle sfide e dei cambiamenti epocali in atto. Si parla infatti di crisi strutturale, endemica della democrazia che risulterebbe “incompiuta” e su cui il femminismo ha scritto molto.
Sfide che invece sembrano essere intercettate e raccolte dalle giovani generazioni, e che comunque rappresentano il futuro, mettendo in campo forme di attivismo fluide, che si compongono e si scompongono, non identitarie, reticolari, all’insegna del con-fare e del rendersi responsabili a vicenda, in netta antitesi con le forme democratiche in atto. Giovani che magari non voteranno, ma creano comunità dove già sperimentare il futuro qui e ora, con quello che rimane, senza delegare.
Che l’astensionismo è l’effetto della disaffezione alle forme tradizionali della politica istituzionale lo conferma il racconto di una ginecologa intervenuta nel dibattito, una candidata, molto radicata da anni nel territorio per le sue attività nel sociale. Nella sua campagna elettorale non ha riscontrato tra le sue potenziali elettrici forme di astensionismo. Le donne si riconoscono nelle donne che “fanno” ma lo fanno in modi partecipativi, dal basso, intercettando bisogni e desideri concreti. E lo fanno tutto l’anno, non in prossimità di elezioni. Allora diventano “contagiose”.
(Gisella Modica)
Redazione LM
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