«Né orientale, né occidentale, questa nazione è accidentale». L’esordio di Namwali Serpell narra la decolonizzazione del suo Paese, lo Zambia, intrecciandolo con la vita di tre famiglie, di cui una italiana. Un libro imponente giocato tra il magico e l’epico
di Samanta Picciaiola
The Old Drift – Capelli, lacrime e zanzare nell’edizione italiana – è l’opera di esordio di Namwali Serpell.
Un’opera prima imponente attraverso la quale l’autrice sperimenta una scrittura che esonda e tracima i confini dei generi letterari attraversando un secolo, quello della fondazione e decolonizzazione dello Zambia, per sfociare in un futuro distopico nel segno della fine di ogni antropocentrismo.
Il romanzo prende il via da un errore fatale a partire dal quale si innesca un susseguirsi di eventi che travolgono tre famiglie di differenti provenienza e culture che intrecciano i loro destini nel corso del secolo attraversando continenti e conflitti. Amori proibiti, incantesimi e rivoluzioni: tutto si connette in una trama imponente e avvincente a un tempo.
Una scrittura che muove da una matrice epica – l’Eneide in esergo – salvo staccarsene in fretta attraverso il superamento delle tradizionali tecniche di focalizzazione del racconto sospinto da potenti metafore acquatiche, vegetali e zoomorfe che soggiacciono tutta l’opera. Attraverso una partitura polifonica una voce narrante, onnisciente sì, ma cieca come Edipo, compone un albero genealogico le cui radici – le nonne – sono dominate da personaggi femminili (Agnes, Sibilla e Matha) che ramificano nelle biografie singole -le madri – le quali a loro volta come affluenti muovono a congiungersi nel minaccioso bacino della grande diga prossima alle Cascate Vittoria. E l’apocalisse – i figli – non può che venire dall’acqua e avere la forma dell’esondare come se l’autrice seguisse per tutto il tempo il ritmo dettato dal corso dello Zambesi, il grande fiume che genera e distrugge attraverso e oltre l’affannarsi degli esseri umani infrangendone argini e confini:
«Non si può intrappolare la furia multiforme di un popolo, di un fiume, di una donna!».
Come nelle fiabe, e al fiabesco la Serpell attinge come mostra la storia di Sibilla novella Raperonzolo, i personaggi si muovono su uno sfondo magico dove a dominare sono gli elementi e i processi naturali colti nella loro indifferenza ai destini umani.
É affidato alle parole di Naila lo smascheramento di qualsiasi ideologia progressista, di qualsivoglia tentazione teleologica: “Progresso?”- disse lei «Progresso è solo la parola che usiamo per mascherare il potere che fa quello che vuole». (pag. 742).
Serpell lavora dunque dentro una direttrice nota della scrittura delle donne che è quella dello sgretolamento delle retoriche dei Padri, sgretolamento a sua volta fondato in primis sulla messa in discussione di un concetto lineare e progressivo di tempo al quale in Capelli, lacrime e zanzare si oppone l’eterno ronzare, sempre uguale, degli insidiosi ditteri. Un basso continuo e fastidioso a cui è affidato il diluirsi delle storie nella cornice della Storia. L’inessenziale che abita le pieghe del tempo e ne spia tutte le linee di frattura.
Così il racconto zigzaga e transita dal fiabesco al tragico drammaturgico e classico salvo decentrarne l’accento attraverso l’espediente narrativo senza dubbio più estraniante di tutto il romanzo ovvero l’introduzione di un “coro” affidato alle zanzare appunto, ma mutanti e virate al cyborg grazie all’ingresso in scena dei droni, invenzione che domina il futuro prossimo dei figli della saga. Un invito a sollevare lo sguardo oltre la linea del sangue che è anche la linea del Virus, dunque mortifera e infeconda, per cogliere quelle parentele transumane – diremmo alla Braidotti – che ambiscono a scalzare le pesanti e posticce identità nazionali: «Né orientale, né occidentale, questa nazione è accidentale». (pag. 15).
Serpell sembra suggerire che solo da qui può germinare un novello senso di appartenenza, un riconoscersi attraverso le differenze. Tuttavia sappiamo che si decolonizza lo sguardo anche e soprattutto ri-disegnando geografie elettive che si smarcano dalla storia dei Padri, la storia dei fondatori. Quella stessa Storia che ispira il corsivo della vicenda dell’esploratore Percy M. Clark il quale ironicamente fa capolino come padre involontario nell’incipit del romanzo: «Questa è la storia di una nazione, non di un regno o di un popolo, perciò inizia, ovviamente, con un uomo bianco». (pag. 13). E non sfugga l’intersezione di genere e provenienza incarnata dal personaggio di Percy di cui l’autrice cita nelle note finali l’autobiografia nonché il razzismo che ne innerva la mitizzazione e ne annaffia la trasmissione.
Il romanzo inizia con la Z, l’ultima lettera dell’alfabeto, omaggio alla madre che introduce alla vita e alla lettura, a cui è dedicato, stringendo in un abbraccio la lingua e la matrice, l’appartenenza e la discendenza. E tante sono le madri e le sorelle dell’universo dell’autrice – dalla Zadie Smith di Denti bianchi alla Chimamanda di Metà di un sole giallo passando per la Nnedi Okorafor di Chi teme la morte – che ci riportano alla non mai abbastanza indagata topologia e topografia della scrittura delle donne nella quale questo libro va a incardinarsi in maniera audace e sfolgorante.
Namwali Serpell, “Capelli, lacrime e zanzare”, traduzione di Enrica Budetta, Fazi 2021
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Samanta Picciaiola

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