Nel dicembre 2019, durante il convegno biennale della SIL dedicato al lavoro delle donne, si tenne un workshop sulla rappresentazione letteraria, e non solo, della migrazione femminile. (Per saperne di più sul convegno, e scaricare l’ebook con gli atti dei workshop clicca qui). Coordinava uno dei workshop Lidia Curti, una donna straordinaria che purtroppo abbiamo perso lo scorso anno.
Fra i numerosi interventi, una riflessione di Chiara Ingrao sulle sfide da lei affrontate nella scrittura del suo romanzo “Migrante per sempre”, ispirato ad una storia vera di emigrazione italiana ma anche di immigrazione in Italia. Quando abbiamo deciso di pubblicare questo testo su Letterate Magazine, Chiara ci ha proposto di allargare lo sguardo anche ad altre storie di donne migranti. La scelta che abbiamo fatto non pretende di essere esaustiva, solo di sollecitare curiosità e spunti di riflessione. Vi proporremo sia vicende di migrazione dall’Italia verso altri paesi, in diversi luoghi e diverse epoche, sia storie di immigrazione in Italia da vari angoli del mondo: dalla Somalia alla Romania, dalla Bosnia alla Palestina, dall’India agli Stati Uniti, all’Argentina, al Belgio.
La lingua è casa interiore
Intervista a Eva Taylor, scrittrice e poeta di lingua madre tedesca che scrive anche in italiano. «Casa è dove ti fanno entrare: si riferisce non solo alla casa individuale, ma alla casa sociale, un luogo, una comunità che ti accoglie»
di Loredana Magazzeni
«La lingua tedesca di Eva Taylor porta con sé le tracce della storia di tutto un paese per decenni diviso a metà, tra Est e Ovest, oltre a quelle di una famiglia separata tra quelli che decisero di partire e quelli che decisero di restare. E proprio “Tracce” si intitola uno dei capitoli del romanzo in cui l’io narrante spiega che, quando iniziarono a preparare la fuga, i suoi familiari cercavano di rendersi il più invisibili possibile per non destare sospetti e, una volta arrivati dall’altra parte, lo sdoppiamento continuò, sino a diventare una sorta di doppia natura, poiché il sospetto che ci fossero sempre orecchie in ascolto li portava a cancellare tutte le tracce possibili. Forse è proprio il peso di questi segni invisibili, ma ben presenti dentro di sé, che spinge l’autrice a riflettere sulla lingua e i suoi residui, a concentrare la sua prima raccolta poetica, nata direttamente in italiano e intitolata “L’igiene della bocca”, proprio sulla parola, con l’attenzione di una studiosa di linguistica, di una traduttrice e di chi vive quotidianamente nel plurilinguismo, in particolare tra il tedesco, la lingua madre, l’italiano, la lingua d’adozione e l’inglese, la lingua di casa». Così Laura Toppan riassume bene la condizione di vita di Eva Taylor (Eva Maria Thune), che ne ha scritto a sua volta nel romanzo “Carta da zucchero”.
Eva insegna Lingua Tedesca all’Università di Bologna ed è anche traduttrice e poeta. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia, fra cui “L’igiene della bocca” (2006), “Volti di parole” (2010), “Lezioni di casa” (Arcipelago Itaca, 2019). Fa parte della Compagnia delle Poete, nata nell’estate del 2009 per iniziativa di Mia Lecomte, studiosa e poeta italo-francese, composta da poete straniere e italo-straniere accomunate dall’italofonia.
Quanta forza, potenzialità e ampiezza dello sguardo, su sé stesse e sul mondo ha una poeta migrante?
Il senso di estraneità mi ha accompagnato già in Germania a causa della mia storia famigliare e ne ho scritto in “Carta da zucchero”. Il tema della ricerca di “casa” non mi ha mai abbandonato, ma è strettamente legato a quello della comunicazione, cioè alla possibilità di poter avere fiducia nella lingua, essendo la lingua fondamentalmente la casa interiore. A livello di scrittura l’ho affrontato in molte forme, anche ironiche, come nel gruppo di poesie Ricettario minuto (in “Volti di parole”) in cui mi avvicino alle faccende di casa con la realizzazione di ricette (come pure nella poesia Grembiule di casa) – un gioco di intertestualità che mi piace molto a livello formale.
A livello politico-sociale posso dire che l’esperienza della migrazione mi ha aperto lo sguardo, sono diventata un soggetto politico attraverso questa esperienza e quindi credo che la migrazione sia il grande tema della nostra epoca. Me ne sono occupata anche nel mio lavoro, per esempio nella ricerca sul Kindertransport (vedi: www.gerettet2019.wordpress.com).
La questione delle identità plurime, del bisogno di trovare un equilibrio interiore è centrale in molte scrittrici migranti. Come interpreti il tema dello “stare a casa”? Non per nulla la tua ultima raccolta di poesia si intitola “Lezioni di casa”.
Recentemente ho sentito un migrante dire: casa è dove ti fanno entrare. Mi ha molto colpito, perché si riferisce non solo alla casa individuale, ma alla casa sociale, un luogo, una comunità che ti accoglie. In qualsiasi paese non si aprono mai tutte le porte ma, stranamente, in quello in cui sei nata c’è una casa culturale più grande che ti può fare da Heimat. Le Lezioni di casa sono un po’ questo: 1) la ricerca di una casa propria, 2) lo smarrimento in una casa estranea e 3) il richiamo di luoghi, di volti e di immagini di case e persone che si sovrappongono nella memoria.
In “Lezioni di casa” racconti di un disagio linguistico, tema di cui scrivi anche in “Libri migranti”, di Melita Richter. Come hai vissuto la scelta di scrivere in italiano, soprattutto in poesia?
Su questo tema ho scritto nel volume “Perché ci vogliono due lingue per scrivere una poesia? Scrivere altrove/ecrire ailleurs, letteratura e migrazione in Italia/littérature et migration en Italie” (ReCHERches 10), volume a cura di Anna Frabetti e Laura Toppan, edito dall’Università di Strasbourg). Ho sempre più l’impressione che il rapporto intrinseco tra il tedesco e l’italiano nella mia scrittura diventi più evidente. Da una parte succede nel processo di autotraduzione, che per me è una grande risorsa creativa; si tratta ovviamente di processi di riscrittura e quindi mi permettono salti da una lingua all’altra, anzi mi divertono proprio. Forse qui vedo un mio guadagno personale: mentre la scrittura in genere per me non è facile (sento molto la minaccia del non-avere-le-parole), né in tedesco, né in italiano, questo saltare tra una lingua all’altra mi piace moltissimo. È la scoperta della dimensione infantile, giocosa della lingua, come quando i piccoli imparano una lingua e si divertono a sperimentarla anche con il non-senso, la lallazione ecc. Quindi c’è l’aspetto ludico, ma spesso traduco o rielaboro i miei testi anche a distanza di anni e ho veramente la possibilità di riscriverli da un’altra angolatura, e la relazione tra le due lingue conferisce fluidità.
Dall’altra parte mi rendo conto sempre più che quando scrivo, scrivo in tedesco, anche quando è in italiano. La mia lingua culturale è il tedesco, con tutto lo studio che si possa fare sulla lirica italiana ecc. non credo di poter spontaneamente creare endecasillabi, come succede a tanti italiani.
Un altro aspetto della scrittura è la dimensione dialogica: spesso i miei testi sono risposte a letture, poesie che mi toccano, piacciono, interrogano e quindi mi incitano a dare una risposta indiretta. Questo è uno dei motivi per cui scrivo di meno in tedesco, mancano le occasioni di comunicazione, e intendo come comunicazione anche la lettura a voce alta con altri.
I conflitti intergenerazionali nel rapporto tra cultura d’origine e cultura del paese d’accoglienza affiorano praticamente in quasi tutti i testi sulla migrazione verso l’Italia. Qual è la tua esperienza?
Questa è forse la domanda più difficile per me. L’antologia di poesia “Matrilineare” (edito da La Vita Felice, 2015) è stata molto importante per me, proprio per aprire un po’ di più questa finestra interiore. Ho un rapporto conflittuale con mia madre, che ha avuto ripercussioni anche sul mio rapporto con il corpo, come puoi facilmente immaginare. Il fatto che non ho figli è legato a questo nodo doloroso. Non so fino a che punto l’esperienza della migrazione ha influito sul rapporto con mia madre. Certo, adesso vivo in continua ansia perché sono lontana e non sarò mai abbastanza vicina a lei. A livello culturale ho capito in Italia, e soprattutto tramite l’insegnamento di Diotima a Verona, dove ho insegnato per 3 anni, molto di più l’importanza della madre in tutti i sensi. Ritengo che le lezioni di Diotima siano state per me una delle tappe importanti di mediazione per arrivare alla mia lingua, materna in senso largo, soprattutto creativa.
La Compagnia delle Poete: questa esperienza di collettivo di donne, ti ha dato forza, ti ha sostenuto?
Certo, la Compagnia è una grandissima risorsa, personale, creativa, un vero regalo, sarò sempre grata a Mia. Con alcune la relazione è diventata davvero importante. La cosa più bella era vedere come le doti delle singole si intrecciavano e veniva fuori qualcosa di sorprendente che si basa molto sull’intuizione.









Loredana Magazzeni

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