«La nostra trasformazione, individuale e collettiva, avviene attraverso la costruzione di uno spazio creativo radicale», scriveva bell hooks, teorica dell’educazione come pratica della libertà. Ma a criticare l’accademia e il sistema educativo c’è anche il gruppo di Spaccademia a Firenze, che trovate su DWF n. 126.
Di Clotilde Barbarulli
bell hooks (Gloria Jean Watkins negli anni Sessanta), racconta il disagio del ritrovarsi nelle scuole pubbliche bianche, che continuavano a riprodurre un regime di separazione, depotenziando e marginalizzando i neri («Abbiamo dovuto rinunciare a quanto era per noi familiare, ed entrare in un mondo freddo e alieno»), mentre esprime il rimpianto per il periodo della segregazione con una scuola densa di affetti e vita, dove l’insegnamento era « un atto politico perché radicato nella lotta antirazzista».
Per questo il riconoscimento della differenza, così come dell’intersezione tra diverse forme di discriminazione all’interno della formazione, rimarrà per bell hooks il primo fondamentale passo di una pedagogia critica capace di riconoscere la conflittualità sociale presente nella scuola, senza separare la teoria dalla pratica, perché «conosciamo attraverso la nostra vita e viviamo quella conoscenza, che supera tutto ciò che qualsiasi teoria abbia mai teorizzato». Quando insegnerà si accorgerà che i corsi dedicati ai women’s studies – come del resto la stessa letteratura pedagogica – includevano solo docenti bianche e «non erano ancora pronti ad accogliere un discorso focalizzato sulla razza e sul genere», e troverà nel pedagogo degli oppressi, il brasiliano Paulo Freire, l’idea della coscientizzazione della classe e dell’educazione come pratica di libertà. Ne vede i limiti, in particolare il linguaggio sessista (in una ironica autointervista di Gloria a bell), ma ritiene di poter usare liberamente certi suoi concetti.
Le giovani ricercatrici del fascicolo di DWF, Spaccademia, vivono in tempi diversi, ma patiscono lo stesso nell’accademia limiti e schemi, insieme alle complicazioni derivanti dall’affermarsi di una concezione liberista del sapere che crea e rafforza chiusure e ritmi, imponendo «criteri di classificazione meccanici di mercato». Le dottorande e ricercatrici, precarie, «figlie dell’ansia» con le loro esperienze «frantumate e irriducibili», ai linguaggi codificati dell’università, alle sue gerarchie, alla rigida divisione di ruoli e di posizioni cercano di opporre l’orizzontalità, dalle pratiche al posizionamento al partire da sé. Vogliono parlare della propria esperienza di donne e persone LGBQT, tenendo conto delle diversità di condizioni di vita, credendo nelle possibilità di un sapere incarnato in corpi differenti. Nei vari scritti emergono così problemi di una prospettiva transfemminista in un contesto universitario di ordinario ciseterosessismo, attraversato da battute transfobiche e sessiste, da aspettative stereotipiche, da molestie e discriminazioni.
Per tutto questo, a distanza di anni, l’attualità di bell hooks quando parla dell’insegnamento come pratica della libertà e non come catena di montaggio: significative le recenti proteste alla Sorbona di studenti contro la violenza dell’istituzione che non intende modificare lo svolgimento degli esami nell’attuale pandemia, e la conseguente lettera aperta, “J’annule”, di Rachele Borghi (docente in geografia) per dichiarare la propria disobbedienza civile. bell hooks sottolinea anche la necessità di riconoscere la corporeità e la diversità dei soggetti: la rimozione del corpo si collega infatti «alla cancellazione delle differenze di classe, e, soprattutto, alla cancellazione del ruolo delle strutture universitarie come luoghi di riproduzione di una classe privilegiata».
Ancora oggi la domanda di trasformare le istituzioni educative attende dunque ovunque una risposta, ma le Nine, un nome collettivo in cui si esprime una molteplicità di voci, hanno organizzato nel 2020 il Convegno Sciopero femminista. Riflessioni, pratiche e lotte collettive nella Scuola Normale Superiore di Firenze offrendo voce – e questo è stato un momento di apertura importante per l’accademia – ai movimenti femministi e transfemministi che per primi hanno dato vita allo sciopero: hanno così creato comunità in una aula universitaria con il riconoscimento del valore di ogni singola voce.
Se bell hooks spiega di aver attuato un «disinvestimento» nel ruolo accademico per metterlo in discussione, le Nine credono, grazie al femminismo, che «non si tratta tanto di occupare posti di potere, quanto invece di rovesciarne i presupposti». L’educazione come pratica della libertà non riguarda solo la conoscenza ma, allora come oggi, le pratiche e le strategie, in tutti i percorsi formativi, come sta emergendo particolarmente in questi tempi di pandemia: se è importante il dibattito che si è aperto sulla didattica a distanza, non è però la sola presenza a fare la differenza, ma è la visione complessiva a poter creare cambiamento perché «gli/le adolescenti sono tra quelli e quelle che vivono sul margine della partecipazione democratica» (Roberta Ortolano qui sul Magazine). Per insegnare non bisogna tenere il corpo ed i sentimenti da parte, tantomeno fuori dalla classe: «La nostra trasformazione, individuale e collettiva, avviene attraverso la costruzione di uno spazio creativo radicale» (bell hooks).
Se può creare amarezza il persistere di limiti, condizionamenti e stereotipi nell’accademia odierna, tuttavia quest* giovani che si riconoscono, si ascoltano, pronte a «ripartire dai margini», spazi radicali di possibilità, anche con nuove linee di ricerca, consapevoli di essere politicamente scomode e nello stesso tempo non immuni dalle logiche pervasive del potere, resistono alle condizioni dell’università neoliberista, ed offrono – immettendo il proprio corpo nel racconto ed affermando l’autorevolezza dell’esperienza autobiografica – una prospettiva di possibilità di trasformazione delle istituzioni formative: «Voci che graffiano torri d’avorio, e sulle pagine di DWF diventano piazze».
Non possiamo essere grate e felici – sostiene Sara Ahmed – per un sistema che vuole inglobarci, quando questo è formato da ineguaglianza e discriminazioni. Le istituzioni affermano di fondarsi su promesse di felicità; promesse che nella maggior parte dei casi nascondono la vera violenza dell’istituzione stessa. Le femministe killjoy però (citate non a caso in Spaccademia) sono disposte a mostrare la violenza delle convenzioni e degli stereotipi nella società e nelle istituzioni formative, perché sono ingrate, autoironiche, caparbie, arrabbiate, scomode.
Spaccademia: pratiche femministe in Università, DWF 2 (n. 126) aprile-giugno 2020, pp. 80 ill.
bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, trad. del gruppo Ippolita, introd. Di Rahel Sereke e Mackda Ghebremariam Tesfau’, Meltemi 2020.
Roberta Ortolano, “Scuola e demoni”, Letterate Magazine 7/2/2021
https://blogs.mediapart.fr/khadija-toufik/blog/080121/jannule-une-enseignante-publie-une-lettre-ouverte-la-sorbonne
PASSAPAROLA:









Clotilde Barbarulli

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