PERSONAGGE: Ebe

Anna Ausilia Ranieri, 25 aprile 2021

Ebe

di Anna Ausilia Ranieri

 

 

Avevo da poco compiuto vent’anni quando iniziai a fare la staffetta.

Pedalavo da sempre, da bambina.

Ero fortunata, perché venivo da una famiglia ricca e benestante.

Avevo potuto studiare ed ero cresciuta in un ambiente progressista, nutrita dalla profonda cultura di mia madre e dall’avanguardia di mio padre.

Per cui, sebbene nata sotto il fascismo venni su libera dentro, e quando sentii quel richiamo alla libertà, non ci pensai due volte a salire ancora una volta in sella alla mia bici e arruolarmi assieme a chi la resistenza l’aveva o inseguita o adottata come unica forma per avere salva la vita.

Me lo disse mia cugina che stavano cercando nuove staffette dopo l’ultimo rastrellamento che si era portato via molti di noi, inclusa un’amica che fu torturata e abusata per una causa a cui avevamo tutti volontariamente scelto di aderire.

Sono stata staffetta per quasi due anni, fino alla liberazione e poco dopo.

Il periodo più bello e intenso della mia vita, perché quando hai vent’anni non ti ricordi di nient’altro che non sia o l’amore o l’ideale in cui credi.

E io li avevo tutti e due: non c’era al mondo donna più fortunata di me.

Mi facevo chiamare Ebe, questo era il mio nome di battaglia.

Ognuna di noi ne aveva uno. Lo avevo scelto perché era corto, non si rischiava di perdere tempo per pronunciarlo, soprattutto sotto pericolo.

Guanti a mezze dita, cappotto di lana e gonne lunghe, pedalavo nei miei stivaletti di pelle marrone, portando nascosti nei capelli e nel sottofondo del sellino messaggi, medicine, munizioni, cibo per i miei compagni e compagne distaccati su nelle baite di montagna.

La vera fortuna fu che specialmente all’inizio vedendoci in bicicletta i soldati non capivano che eravamo noi a fornire sostegni e informazioni. Per loro eravamo soltanto belle ragazze che andavano in bicicletta per dimenticarsi della guerra. Una specie di vezzo al femminile al quale i soldati rispondevano fermandoci e tentando un approccio con noi.

Era pura paura, ma reggevamo il gioco, poiché sapevamo che dentro le nostre calze o arricciati nelle nostre trecce, c’erano codici che dovevamo recapitare.

Dopo qualche mese salutai la mia famiglia e dissi loro che mi sarei spostata nella valle ad ovest, nel distaccamento verso i monti.

Né mio padre né mia madre mi trattennero, avrebbero fatto lo stesso al mio posto. Non ci vedemmo più fino a quando l’Italia non fu liberata, né ci scrivemmo per quei lunghi mesi.

Rimanemmo sospesi.

Nessuno di noi sapeva nulla dell’altro.

Mio fratello più piccolo al fronte francese, il più grande lo avrei raggiunto al distaccamento dove mi stavo trasferendo, i miei genitori avrebbero continuato la loro resistenza in paese, ospitando rifugiati e prestando cure ai feriti.

Mia madre era infatti infermiera e ci aveva insegnato molto dell’arte medica e fu per questo che mi chiamarono al fronte ovest, quello più esposto al fuoco nazifascista.

Raccolsi poche cose con me e le misi in un fagotto fatto col foulard di matrimonio di mia nonna. Presi le foto dei miei, poca biancheria, un fazzoletto profumato e una lettera di mio padre. Nella calza destra una piccola pistola che all’epoca ancora non sapevo usare, al collo la medaglietta di cianuro.

Prima di diventare staffette facevamo un giuramento: la nostra vita per la vita dei nostri compagni, la nostra vita per la vita della causa. E ci veniva dato il cianuro, da ingoiare se fossimo cadute in un’imboscata, per non tradire i nostri segreti.

Arrivai al forte ovest dopo tre giorni di pedalate praticamente ininterrotte.

Ero stremata e con le dita della mano sinistra immobilizzate dal freddo, i polpacci feriti sotto le calze di lana.

Arrivata, i miei compagni mi diedero subito una giubba di lana, una zuppa calda e una brandina. Ero senza forze, dormii per quasi venti ore di fila.

Mi vennero a svegliare il mattino dopo che era quasi l’alba: la più bella della mia vita.

Il Comandante di distaccamento voleva conoscermi prima di partire di lì a poche ore per una spedizione di avanguardia. Di solito non lo faceva, ma quel giorno partiva anche lui. Per cui, di fretta e furia, mi rassettai come potei, mi sistemai a malo modo i capelli e misi su i calzoni.

Mi portarono nel suo ufficio.

Era in piedi, ci dava le spalle davanti allo specchio, stava cercando di rassettarsi la barba. La prima cosa che vidi di lui furono le mani riflesse attraverso il vetro. Sembravano forti, e non so perché sembrava che mi stessero tenendo il volto, accarezzandomi esattamente all’altezza delle guance.

Era molto alto, aveva le spalle larghe e un maglione a filo di pelle. Si voltò subito, appena si rese conto della nostra presenza.

“Lei è Ebe, Capitano. La nostra staffetta medica, sorella di Fidenzio”, disse il ragazzo che mi aveva fatto da scorta.

“Bene! Benarrivata davvero, Ebe! Abbiamo bisogno di te. Qui arrivano feriti, spesso, troppo spesso, e non sempre riusciamo a curarli. Abbiamo pochi mezzi e anche sbagliati, ci occorre la mano di un’infermiera.”

Annuii senza dire una parola, ero completamente stordita.

“Manda a chiamare Fidenzio, vorrà certamente salutare Ebe prima di partire.”

“Partire? E per dove?”, gli chiesi. Fu l’unica cosa che seppi dirgli quel giorno.

“Tra poche ore saliamo verso nord, forse c’è una nuova rete che possiamo utilizzare, ma dobbiamo verificarlo”.

“Qual è il tuo vero nome, Ebe?”

“Romina, Signore”.

“Nessun Signore, chiamami Guido, come io ti chiamerò Ebe.”

“Va bene. Guido è il tuo nome vero?”

“Ebe, io sono Guido e basta. Sai sparare?”

“Veramente no, ma ho una pistola con me”, e presi la piccola arma ancora rimasta scarica nella calza.

La pesò.

“Questa può andar bene per quando sarai in giro di staffetta, ma qui dovrai imparare a sparare seriamente, ad usare armi più grandi, a cominciare dal fucile”.

Ero inorridita all’idea di dover imparare a sparare. Se avessi potuto avrei fatto non uno ma cento passi indietro.

“Cominceremo al mio rientro, tra un paio di giorni. Me ne occuperò direttamente io, faremo nel più breve tempo possibile”.

Ecco, ora imparare a sparare mi interessava molto di più.

Mentre mi parlava di proiettili da tenere cari come gioielli di famiglia e munizioni da non sprecare, notai un dettaglio che mi era fino ad allora completamente sfuggito.

Il colore dei suoi occhi.

Non li avevo notati nella penombra della distanza che c’era tra noi, ma adesso che si era avvicinato, lo vedevo in tutta la sua greca bellezza, due occhi azzurri come il ghiaccio. Ero perduta, completamente, avrei imparato persino ad usare le bombe a mano per quegli occhi.

Entrò mio fratello.

Che gioia rivederlo dopo mesi di silenzio e incertezza sulla sua sorte. Mi abbracciò forte e stretta, come un ultimo addio. Mi chiese della mamma, del papà, di Ginevra, di Giacomo, mi accarezzò la guancia.

Lui lo fece davvero e per l’ultima volta. Poi morì.

Morì quello stesso giorno, a due passi da Guido, che lo riportò a braccio nel campo, ancora respirava. Lo appoggiarono sulla brandina dell’infermeria, arrivai di corsa, sapevo solo che il Comandante aveva portato un ferito grave.

Mi mancarono le ginocchia quando lo vidi steso esanime su quel lettino. Mi dovettero sorreggere, ma arrivai da lui.

Lo chiamai, si voltò, mi guardò e mi sorrise.

Mi disse: “Ciao sorellina”. Gli strinsi la mano fortissimo e con gli occhi mi raccontò tutta l’imboscata, come e dove era stato ferito e che stava semplicemente morendo. Se solo potevo non farmi uccidere prima della fine della guerra, anche solo per salutare la mamma e tutti gli altri per lui. Negli stessi occhi, gli ricambiai la promessa e giurai a me stessa che non mi avrebbero mai nemmeno presa. Mi disse “Lo so”, e poi morì.

Piansi, tanto, sulla sua pancia storpiata più dalla camminata per ritornare al forte che per il proiettile incastrato tra lo stomaco e l’intestino.

Quel proiettile lo estrassi poi io stessa. Non volevo che mio fratello rimanesse con dentro un pezzo di scempio nemico ad accompagnarlo per l’ultimo viaggio.

 

“Buonasera, Ebe”.

“Buonasera, Guido”.

Era entrato nella mia stanza. Avevo da poco finito di ricucire mio fratello, il proiettile ancora insanguinato sulla sedia accanto al mio cuscino.

“Volevo farti le mie condoglianze e se vuoi raccontarti cosa è accaduto oggi”.

“Grazie, Guido, non ce n’è bisogno. Mi ha raccontato tutto Fidenzio”.

Rimase sorpreso della mia risposta ma non mi chiese altro e proseguì.

“Ebe, ti ho osservata oggi in infermeria quando è arrivato Fidenzio. So che è stato il tuo primo ferito di guerra e che non potevi avere battesimo peggiore, ma mi aspetto da te più sangue freddo e prontezza di spirito davanti a un compagno ferito”.

Si interruppe. Forse aspettava che gli dicessi qualcosa o che scoppiassi a piangere. Nulla di tutto questo. Gli dissi soltanto: “E’ giusto”, e me ne ritornai a pulire il proiettile. Del resto, eravamo in guerra e i sentimentalismi non mi avrebbero aiutata a salvare le vite ferite dei miei compagni.

Tutta la notte pensai al racconto di Fidenzio e alle parole di Guido.

Più sangue freddo e prontezza di spirito.

Prima di quel pomeriggio pensavo di averne a iosa, dopotutto ero una staffetta partigiana, i tedeschi e le squadracce mi avevano fermata molte volte e nessuna delle volte avevo ceduto. Pensavo di essere pronta per il fronte, quello vero, quello che ferisce e uccide e non soltanto pedala, ma non era così o almeno non lo era stato in quel pomeriggio.

Quella notte piansi Fidenzio fino a non avere più lacrime e ringraziai Guido perché con le sue parole aveva salvato anche me.

Mi svegliai molto prima dell’alba e andai a sedermi accanto alla sentinella di sud-est; volevo vedere l’alba alzarsi dalle montagne, ma una mano mi toccò la spalla. Era Guido, mi fece alzare, dovevamo metterci in cammino.

Mi diede un fucile, me lo misi a tracollo e camminammo un’ora mentre l’alba si levava. Mi stava davanti, io arrancavo dietro, il fucile era troppo scomodo per il mio corpo esile, ma non mossi un fiato, nessun pensiero diverso dalla linea dell’ombra che Guido disegnava davanti a me. La seguivo vigile, la studiai attenta, me ne innamorai, e giurai di diventare io la parte di riflesso di quella forma.

Da adesso in poi, senza il mio passo, Guido non avrebbe mai più mosso un solo muscolo e io avrei ucciso per lui, sempre, un attimo prima.

E forse fu per quel mio intento che bastarono poche albe per farci innamorare.

 

Imparai a sparare molto bene, mostravo una naturale attitudine nel maneggiare le armi, pulirle, smontarle, insegnare alle altre compagne che nel frattempo si erano unite questo necessario aspetto della vita al forte.

Ero diventata il Comandante in seconda, pur continuando a fare da staffetta, mi occupavo dei feriti e dell’apprendimento delle nuove reclute.

Guido mi amava moltissimo e questo mi bastava e sollevava per me i pesi che mi trascinavano in basso, potendo solo immaginare il dolore che la mia famiglia portava nel cuore per la morte di Fidenzio e per una figlia di cui non aveva più notizie.

Il tempo correva e anche le battaglie cominciavano a susseguirsi sempre più frequenti. Ero sempre con Guido, in ogni azione, dietro di lui c’ero io, anche se a lui non piaceva l’idea di lasciare il forte senza nemmeno il Comandante in seconda, ma io avevo fatto la mia promessa e nulla mi avrebbe allontanata da lui in battaglia, piuttosto gli avrei impedito di partire.

Finché rimasi incinta.

Avevo paura, ero spaventata, non sapevo come avrebbe potuto prenderla.

Riuscii a parlargliene solo tre giorni dopo, era inutile aspettare oltre.

Quando glielo dissi, non mi rispose, si alzò e al centro del campo iniziò a cantare.

Fu l’unica volta quella sera che si sentirono cori partigiani riecheggiare tra le nostre tende. Ci era vietato cantare o meglio, cantare tutti assieme, perché le eco dei canti potevano arrivare agli orecchi dei neri o dei tedeschi e farci scoprire.

Ma quella sera cantammo, e continuammo a cantare ancora da soli nella nostra tenda, e facemmo l’amore, per dare il primo vero bacio al nostro primo figlio.

Era più felice adesso Guido, ma anche più preoccupato e previdente.

Non avrei potuto sperare di meglio se non crescere un bambino in tempo di pace. Ma forse la mia gravidanza fu così bella proprio perché vissuta al forte con Guido e i miei compagni e compagne in tempo di guerra.

Mi aveva da subito impedito di andare con lui in azione, proprio non ci furono parole che tennero da parte mia. Ma non tennero neanche le sue, perché io avevo promesso di fargli da ombra e avrei continuato anche adesso.

Lo convinsi a lasciare il comando delle azioni a uno dei nostri migliori elementi solo fino al mio parto. Non la digerì facile, non la digerì subito, ma alla fine si arrese e per dirmi di sì quel giorno, prima sorrise e poi pianse, con la promessa che a guerra finita avrebbe preso il primo prete per strada e mi avrebbe sposata lì, subito.

Arrivò la primavera, mancava poco più di un mese al parto, ma continuavo a fare da staffetta, le comunicazioni si stavano intensificando assieme alle azioni, era l’aprile del 1945, la liberazione era vicina.

Non lo sapevamo ovviamente che stava per arrivare quel momento ma si percepiva nell’aria un nuovo rinnovato fremito che anticipava di un passo il cambiamento che poi sarebbe realmente avvenuto.

Io e Guido dovevamo spesso separarci, non potendo più tenere fede alle nostre promesse di reciproca salvezza delle vite l’uno dell’altra. Ma ci eravamo scambiati molte fedi e parole e sapevamo che tutte le sere saremmo rientrati al forte sani e salvi. Ed effettivamente fu sempre così.

Arrivò il 25 aprile.

C’era fermento.

Guido doveva andare e io raccordare in staffetta l’ordine di insurrezione ai compagni del fronte est. Ci scambiammo un bacio prima dell’alba, lo guardai come tutti i giorni attraverso la sua ombra, mi sentivo sicura e forte e anche lui lo era. Salutò la mia pancia con un bacio ed entrambi partimmo, lui con i suoi ragazzi, io con le mie staffette.

Eravamo dirette verso il forte giustizia e liberazione, ma lungo la strada incrociammo camionette e rastrellamenti, per cui ci dividemmo in coppie o in singole e prendemmo le strade delle vacche, più sicure e meno battute. Fu la mia salvezza e la salvezza delle mie compagne.

Correvo, correvo, quel giorno volavo sulla mia bicicletta. Non sentivo fame, non sentivo sete, non sentivo il peso della pancia di ormai quasi otto mesi. Pensavo solo all’ordine di insurrezione, all’Italia ormai quasi libera, mancava così poco alla risoluzione della causa per la quale io e Guido ci stavamo battendo.

Pensavo solo a lui, ai suoi occhi che amavo, alle sue mani grandi e dolci, a nostro figlio, al sacerdote che ci avrebbe uniti in matrimonio senza nemmeno il velo da sposa ma tanta fede e tanto amore.

E tutto questo mi bastava, mi bastava a non sentire la paura, a non sentire che accanto a me, di fianco, parallela a un passo, c’era la mitragliera tedesca che sfilettava colpi e proiettili a noi staffette partigiane che con le ali ai piedi gridavamo “Evviva l’Italia Libera!”, e piantavamo nei cuori della resistenza il seme della libertà.

Mentre proseguivo con le ruote in braccio al vento, non so né come né perché, il mio sterzo sbandò nell’attimo prima di una curva.

Caddi malamente dalla bicicletta e ruzzolai fin giù in mezzo a una radura.

La bicicletta, fortunatamente, scivolò con me e ne sentì il rumore della ruota che continuava a girare per inerzia quando mi resi conto di stare riprendendo i sensi.

Mi faceva male la pancia e mi sanguinava leggermente la testa. Avevo preso un colpo molto forte, ero preoccupatissima per il bambino, pensavo a Guido, pensavo a me. Cercai di rialzarmi, ma avevo bisogno di un sostegno, non riuscivo a sorreggermi da sola. Mi trascinai per qualche metro verso la parte più interna della radura, c’erano dei ceppi e mi sarei aggrappata ad essi per sostenermi, alzarmi e poi riprendere verso la bicicletta. Dovevo arrivare al forte quanto prima, avevo bisogno di farmi visitare.

Arrivai con non poca fatica al ceppo più vicino, ancora la vista completamente annebbiata dal dolore e dal mancamento. Mi appoggiai finalmente, respirai a lungo, mi calmai e alla fine ritornai anche a vedere.

Attorno a me, bloccati ognuno a un ceppo, c’erano i miei compagni di brigata, legati per le mani e fucilati senza nemmeno una benda sugli occhi. Avevano fretta di ucciderli.

Accanto al mio corpo ormai stremato dai colpi, il corpo senza respiro di Guido.

Senza saperlo, ma solo per l’istinto dell’amore, ero andata verso il suo ceppo per tentare di rialzarmi.

La testa china verso sinistra, i suoi occhi belli senza un palpito.

Quando me ne resi conto lo chiamai, gli presi il viso tra le mani, tentai disperata di rianimarlo, magari era ancora vivo. Il capo gli cadde di nuovo chino. Era morto, fucilato come tutti gli altri. E non aveva avuto nemmeno il tempo di raccontarmi cosa fosse accaduto.

Mi sentii morire dentro, e per un attimo mi dissi: “Resto qui a morire anch’io. Magari mi trovano e uccidono anche noi e ci ritroviamo tutti di là, dall’altro lato, così potremo ancora cantare senza la paura di essere scoperti”.

Ma poi mi tornarono alla mente le parole di Guido: “Più sangue freddo e prontezza di spirito dinanzi a un compagno ferito”.

E allora lo baciai. Le labbra, gli occhi, le mani e tutto quello che potevo baciargli, chiedendogli perdono per non essere stata l’ombra perfetta fino all’ultimo giorno.

Lo salutai con la promessa che sarei tornata a prenderlo entro la notte.

Mi alzai con fatica, non sapevo più nemmeno dove trovare le ultime gocce di forza. Arrivai alla bicicletta, me la trascinai su fino al dirupo. Fortunatamente i copertoni erano intatti. Montai su e feci quello che sapevo fare meglio: pedalai e pedalai.

Adesso volevo solo arrivare al forte est.

Ormai mancavano pochi chilometri, ma mentre pedalavo, cominciai a sentire fitte fortissime nell’addome, come cazzotti senza respiro nella pancia. Il sangue prese a scendermi copioso tra le gambe e in un attimo fui completamente fradicia.

Mi si ruppero le acque.

Urlando di dolore continuai a pedalare, il bambino stava nascendo già senza padre e non potevo permettermi di lasciarlo al mondo anche senza madre.

Mi affidai a Guido e a Fidenzio, pregai loro di farmi arrivare sana e salva al campo. E così accadde.

Arrivai gridando. Le compagne giunte prima di me mi videro in ginocchio, in preda alle doglie. Mi portarono subito in infermeria, mi feci riconoscere, chiesi del Comandante e per tutto il parto non feci altro che descrivere la radura dov’erano ammassati Guido e i nostri compagni, perché li andassero a prendere prima di insorgere.

Partirono varie squadre, una di queste forse fu quella che poi riportò Guido e molti altri dei nostri amori ormai defunti nuovamente accanto ai nostri cuori, ma solo alcuni giorni dopo, quando non c’era più molto tempo se non quello di una rapida sepoltura.

Nacquero due bambini, li chiamai Guido e Fidenzio, rimettendoli nelle mani del padre e dello zio. Le compagne fecero arrivare un sacerdote che avrei preferito ci avesse sposati e invece battezzava i bambini poche ore dopo il loro arrivo nel mondo.

Ma non ci stettero molto, morirono la mattina dopo, insieme, così come erano nati. Il trauma della caduta dalla bicicletta ma soprattutto la morte di Guido aveva completamente bloccato il flusso di sangue dalla mia placenta ai bambini. Non gli era arrivato più ossigeno, e fu già molto se riuscirono a nascere vivi e a prendersi il nome dello zio e del padre.

Mi ripresi subito, fisicamente intendo.

Pochi giorni dopo il parto ero di nuovo in sella alla mia bicicletta, con una sensazione di leggerezza che non provavo da tempo e uno smarrimento completo nel cuore.

In un giorno solo, solo uno, avevo perduto tutto, presente e futuro, marito e figli, casa e famiglia.

Mi era rimasta solo la causa, per la quale noi tutti fummo disposti a perdere tutto, ma ancora per poco, perché finalmente avevamo vinto, l’Italia festeggiava le truppe alleate entrare vittoriose nelle città.

La Resistenza, quella di noi donne partigiane e di noi uomini partigiani, aveva scritto la storia dell’Italia anche in sella ad una bicicletta.

PASSAPAROLA: FacebooktwitterpinterestlinkedinFacebooktwitterpinterestlinkedin GRAZIE ♥
The following two tabs change content below.

Anna Ausilia Ranieri

Ultimi post di Anna Ausilia Ranieri (vedi tutti)

Categorie
6 Comments
0 Pings & Trackbacks

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.