“L’odio è lì, ogni giorno, vivo e innegabile”: così scrive Cloé Mehdi, della banlieue francese in cui vive Mattia, l’io narrante undicenne del suo romanzo. Le vite dei suoi familiari e di tutti personaggi ruotano i intorno a un episodio di violenza poliziesca di una decina d’anni prima: Said, un ragazzo di banlieue picchiato a morte da un poliziotto.
Di Clotilde Barbarulli
Finalmente viene tradotta in italiano la giovane Cloé Mehdi, nota per Monstres en cavale e nata a Vénissieux, nella periferia di Lione, epicentro negli anni Ottanta delle prime rivolte. “Nulla si perde” può sembrare un noir, un genere diffuso nell’oggi per indagare le contraddizioni di fondo della società, che offre troppe domande e scarse risposte, ma la stessa autrice preferisce parlare di “science-fiction post-apocalyptique”. Ha spiegato, in varie interviste, di aver visto e subito da ragazza tanta di quella violenza e di umiliazioni da avere imparato a stare attenta alle morti ricorrenti per mano degli agenti fra cariche e lacrimogeni, criticando soprattutto il termine “bavure” usato per queste vicende come se si trattasse di una lieve irregolarità, mentre sono atti che rientrano nella storia della polizia francese (e non solo, aggiungerei).
L’idea della narrazione parte dall’uccisione nel 2014, durante una manifestazione a Sivens, di Rémy Fraisse, bianco e militante ecologista, che ha fatto scoprire la violenza della polizia ai molti francesi che avevano rimosso le precedenti uccisioni nelle banlieues, e si è rafforzata in seguito alla morte del giovane Adama Traoré, causata dalla tecnica di immobilizzazione adottata (il “placcaggio ventrale”) nel 2016, e alle violenze al ventiduenne Théo ricoverato in ospedale nel 2017.
La pandemia ha colpito duramente quei luoghi, aggiungendosi all’esplosiva situazione sociale, e ha messo in luce – come nel resto del mondo – una società diseguale, razzista, classista, ma l’unica risposta delle istituzioni rimane il controllo violento poliziesco. Chi abita le periferie si ritrova così a fronteggiare non solo la crisi sanitaria, l’aumentata perdita di posti di lavoro, la quarantena in alloggi inadeguati, lo spaccio della droga, ma anche una violenza poliziesca che, se era già intollerabile prima, ora non fa che rafforzare la rabbia sociale. Questo il contesto delle numerose sommosse del 2019, quando, significativamente, a Cannes viene presentato il film “Les Miserables” del regista di origini malesi Ladij Ly, che, cresciuto a Montfermeil, riprende il titolo di Victor Hugo proprio per testimoniare l’intolleranza e le violenze quotidiane in ambienti degradati e abbandonati dalle istituzioni.
Se Faïza Guène, scrittrice di origini algerine, nei suoi romanzi tradotti in italiano già nel 2005, parla delle banlieues tra solitudini e difficoltà di integrazione, con tono lieve per mettere in luce come non siano solo ghetti ma anche zone di frontiera e di possibili contatti, Cloé Mehdi è lucidamente impietosa nel sottolineare soprattutto ingiustizie e scontri, con l’intento di cancellare quella “volgarità” e “banalità” di cui – denuncia la filosofa Judith Revel – sono intrisi i discorsi dei media, discorsi “fascisti e falsi”.
Mattia, il narratore undicenne di “Nulla si perde”, ha visto la sua famiglia sfaldarsi in seguito all’assassinio, per mano di un poliziotto, del quindicenne Said durante un controllo: il suicidio del padre, un educatore del centro sociale del quartiere, il rifiuto della madre, l’abbandono dei fratelli. L’agente colpevole di aver “sfondato” il cranio del ragazzo non è mai stato punito (“Assolto? Cosa voleva dire? Che Said non era morto?”), ma nel quartiere non è calato l’oblio. Perciò anni dopo quando ricompare per le strade appaiono sui muri graffiti di vernice rossa con la scritta “Giustizia per Said”: così capisce di “essere in pericolo”.
Mattia vive ora in una forma di famiglia eccentrica, attraversata da sofferenze e attenzioni silenziose, con Zé, suo tutore dai difficili trascorsi, che “si annega nella poesia” e che cerca di tenere ancorata alla vita la fragile e affascinante Gabrielle. Il ragazzo – fra vari tipi di silenzio e ricordi dolorosi – ha capito ormai il diverso trattamento istituzionale a seconda di dove si vive, ed è così diventato un testimone pieno di amarezza anche se desideroso di affetti, in un quartiere saturo di una rabbia prossima ad esplodere (“l’odio è sempre lì, ogni giorno, vivo e innegabile”), evocando l’atmosfera del film di Mathieu Kassovitz, L’odio (1995). Mattia conosce paura e rabbia, sentimenti che ha visto nei genitori e nell’amata sorella in perenne fuga, e li patisce ogni notte quando un mostro sembra impadronirsi di lui impedendogli quasi di respirare: “Un peso enorme mi preme sul torace. Soffoco. …Impossibile accennare anche il minimo movimento”. Si è reso ben presto conto, dopo essersi tormentato sulla giustizia, mentre i suoi cari si smarrivano tra non detti, sofferenze e sensi di colpa, di quanto “il linguaggio sia impotente di fronte alla complessità delle cose”.
Le banlieues pongono un problema di condizioni sociali e politiche di precarizzazione assoluta della vita spesso svuotata e ridotta a mera sopravvivenza, perciò la rivolta “non può essere che temporanea”, uno scoppio improvviso che non coincide con un complesso di movimenti orientati verso specifici obiettivi finali. Nelle banlieues dove le forze dell’ordine sanno di poter picchiare e uccidere impunemente, la rivolta si dà sempre al presente per rispondere alla repressione del potere, è spazio di pura insorgenza, perché, nonostante l’esclusione violenta, i corpi, figure del desiderio irriducibile di giustizia, resistono ad ogni rimozione. Se non si reinveste, sostiene Revel ricordando giustamente il passato coloniale della Francia, negli spazi urbani e sociali abbandonati, per favorire l’occupazione e la tolleranza, si corre il rischio di consegnarli all’estremismo politico e/o religioso. Infatti, come mette in risalto il romanzo, nelle rappresentazioni veicolate dai media e da molti politici non emergono mai le differenti storie di chi abita quei luoghi, ma solo problemi di sicurezza.
In una visione etica che nutre le questioni sociali, questo inquietante e coinvolgente romanzo così apre crepe sia nella monoliticità dell’odierna società (non solo francese) sia nell’appiattimento massmediatico, ma lo sguardo di Mehdi, implacabile nel considerare le politiche dominanti insieme agli atteggiamenti dei poliziotti, si carica di empatia in particolare sia verso Mattia – che si è costruito “il suo muro di mattoni” per resistere, ma che non rinuncia all’affetto – sia verso Zé e Gabrielle, figure lacerate da un sistema che li vuole cancellare, e con la scrittura accarezza il loro fragile eppure tenero legame attraverso l’accenno poetico a gesti e attenzioni: parole che, nella tensione emotiva, partecipano dei silenzi, dove i margini del non detto sono affidati alla sensibilità, umana e politica, di chi legge.
Cloé Mehdi, “Nulla si perde”, trad. di Giovanni Zucca, ed. e/o, 2020
Per Revel https://www.meltingpot.org/Le-Banlieues-raccontate-dai-media.html
“Cloé Mehdi e i corpi negati delle banlieue”: intervista a cura di Guido Caldiron, Il manifesto/Alias 21/11/2020
Federica Castelli, Corpi in rivolta. Spazi urbani, conflitti e nuove forme della politica, 2015.
Faiza Guène, kif kif domani, 2005.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥
Clotilde Barbarulli
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