Parigi, 12 marzo 2021
Esco di casa alle 18.30, mezz’ora dopo il coprifuoco, come fossi una ladra, una criminale. Ecco a cosa ci stiamo abituando, sentirsi in colpa di vivere, di avere un desiderio, una necessità. La metro 3 è vuota. A quest’ora di solito si era schiacciati come sardine e talvolta dava fastidio, l’odore forte di uno, la voce sguaiata dell’altra in lingue sconosciute che tiravo a indovinare. Stasera viaggio con i fantasmi. Esco alla fermata Opéra, piove, i fari delle macchine luccicano sull’asfalto, i cancelli del teatro sono chiusi. Giro intorno a questo edificio monumentale, le cariatidi di bronzo con le braccia alzate illuminano il mio cammino fino all’entrata posteriore, quella degli artisti. Entro. Sempre con una certa emozione in questo tempio pagano. Niente scala monumentale, né ori, né specchi né lustri di cristallo. Uffici, camerini, armadietti, corridoi stretti, scale, salire in questo labirinto fino alla platea. Vuota. Il soffitto di Chagall sopra la mia testa, sogno o son desta?
Sono qui, ospite privilegiata di una coppia di amici per uno spettacolo a porte chiuse, Le Parc, una coreografia di Angelin Preljocaj del 1994 su musiche di Mozart, creata per il balletto dell’Opéra National de Paris. L’orchestra accorda gli strumenti. L’ouverture è l’adagio della Sinfonia n°36 detta «Linz» in do maggiore K.425. Trattengo il fiato mentre si alza il sipario. Lo spettacolo è un omaggio alla tradizione classica del giardino alla francese e a ciò che nasconde. Aristocrazia, libertinaggio, desiderio. I tre atti sono preceduti da un intarsio contemporaneo, rappresentato da quattro giardinieri in abiti dimessi rispetto al fasto dei costumi dorati e ricamati degli altri danzatori. Alternando astrazione e narrazione, Preljocaj disegna un giardino ideale, luogo di incontri, scaramucce, con l’ironia sempre presente nel suo lavoro che scivola rapidamente nel tragico. I passi a due che concludono i tre atti sono semplicemente indimenticabili. L’ultimo, Abandon, sull’Adagio in fa diesis per pianoforte n°23 in la maggiore K.488 è straziante e meraviglioso. I due danzatori, liberati degli abiti sontuosi sono travolti dal desiderio, avvinghiati, abbandonati l’uno all’altra come da troppo tempo non riusciamo più nemmeno ad immaginare.
E piango, piango tutte le lacrime che ho in corpo.
Per i desideri azzerati, per la morte non consolata, per l’impossibilità di curare le nostre ferite con la bellezza. La danza, la musica, il cinema, la scultura, la pittura, il teatro… È da più di anno che non mettevo piede in un teatro e i nostri pochi applausi, una trentina di persone in tutto, non fa che sottolineare il vuoto siderale che si è creato nelle nostre vite. Il problema di noi umani è che ci adattiamo quasi a tutto e possiamo sopravvivere in condizioni assai peggiori di quelle che ci troviamo attualmente ad attraversare. Ma a che prezzo? Come? C’è qualcuno che sta considerando le conseguenze a lungo termine di questa sistematica distruzione del comparto culturale? Queste due ore che ho passato all’Opéra de Paris, guardando e ascoltando la bellezza che gli umani sono capaci di creare, emozionandomi fino alle lacrime, hanno un valore inestimabile. Queste due ore mi riconnettono con la città così grigia e cupa senza i suoi spettacoli, senza i bistrots e la gente ammucchiata nelle terrasses. Mi riconnettono con me stessa, con i miei dolori, il mio lutto, la scrittura. Allontanano la paura che mi assale la notte, nel silenzio del coprifuoco, per noi e i nostri figli e il pianeta tutto intero. L’arte è strumento di lotta contro la morte e proprio adesso che la morte è dappertutto, ne siamo privati. Non ha senso, non è la scelta giusta. Non è così che entreremo in una nuova era. Appena uscita dall’abbraccio del teatro che mi ha accolta, mi ritrovo nella città deserta. Ho paura.
PASSAPAROLA:








Chiara Mezzalama

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