La notevole presenza di Giulia Caminito sulla scena letteraria attuale non è più sorprendente, come accadde per l’esordio nel 2016 con La grande A, seguito da Un giorno verrà, i romanzi intervallati dalla pubblicazione di racconti e saggi, interventi critici e curatele editoriali di impronta militante, a sostegno di molte scrittrici italiane passate e presenti. Con fertile cadenza biennale, Caminito si ripresenta ora con L’acqua del lago non è mai dolce, dove riconferma la sua originalissima scrittura unita a una salda padronanza degli intrecci, e fin dal titolo lascia presagire una storia di amarezze affioranti o sommerse in acque infide.
La bravura dell’autrice non sorprende più, molte valutazioni la riconoscono fra i migliori talenti letterari emersi negli ultimi anni – ed è rincuorante, per chiunque abbia a cuore lo sguardo critico delle donne sulla produzione editoriale, notare che alcune fra le più ammirate e partecipi letture del nuovo romanzo sono venute da penne femminili e femministe, a riprova di una rete di interessamenti reciproci ormai estesa e salda di cui lei è parte attiva – tuttavia Caminito ci offre con L’acqua del lago non è mai dolce alcune novità tanto nella scelta di un’ambientazione contemporanea, quanto negli esiti della vicenda.
L’evidenza più sottolineata anche dall’autrice stessa, nella nota finale al libro come nelle interviste, è il contesto tanto prossimo a lei, nel tempo (gli anni recenti della sua stessa adolescenza, alla svolta nel nuovo millennio) e nello spazio, dalla Roma urbana con le sue composite realtà sociali al paese di Anguillara Sabazia sul lago di Bracciano. E sebbene la famiglia protagonista le sia lontana tanto per provenienza sociale – sottoproletariato in cerca di mezzi e di nicchie in cui sopravvivere e possibilmente avanzare verso più stabili e rispettabili approdi – quanto per le peripezie incontrate, varie tracce di vissuti personali sono disseminate e fuse con l’invenzione.
Un’invenzione in cui Caminito ha dato prova dell’immaginazione sociologica e della finezza psicologica che aveva già mostrato sia ricreando il milieu delle colonie italiane in Africa, sia calandosi nelle disavventure degli anarchici marchigiani di inizio Novecento. Ma qui, per paradosso, l’impresa narrativa è più ardua, il coinvolgimento più calamitante e calamitoso perché l’elastico fra autobiografismo e creazione ex novo si fa più tesa, anche per via della scelta per lei finora inedita di una voce narrante che si propone in prima persona, dall’infanzia sino alla prima giovinezza; solo a quel punto, in fondo alla parabola, scopriremo il suo nome – del tutto incongruente, Gaia –, in calce a una lettera di dolente commiato.
Nel prologo-antefatto, però, la protagonista sotto i riflettori è Antonia Colombo, ex ragazza madre poi matriarca e unica procacciatrice di reddito per un male assortito insieme di marito reso paralitico da un incidente sul lavoro e quattro figli scombinati, fra i quali Gaia, la sola femmina. Antonia inaugura il romanzo con un’indimenticabile sceneggiata: “Lei entra e la stanza si fa piccola”, lei occupa le case così come occupa l’esistenza della figlia e di chiunque le orbiti intorno, lei impone il dove, il come, il quando… e alla figlia troppo simile, pelle bianca lentigginosa e vistosi capelli rossi, tocca per anni di osservarla nelle sue esasperate battaglie, nella sua “sgraziata policromia”, per rinnegarla, paralizzata dalla vergogna: “ogni nostra caratteristica è per me mortale difetto”.
La maggior parte delle recensioni ha giustamente focalizzato come primario il tema delle sofferenze e insofferenze di Gaia per le disparità sociali e culturali tra la propria disastrata famiglia e quelle borghesi in tutte le loro sfaccettature ed esibizioni, dalla piccola borghesia del paesone lacustre alla più ricca borghesia di chi abita in villa e inonda i figli di oggetti e premure, quegli oggetti carichi di status ma privi di sostanza e durata su cui la figlia della serva Antonia tanto spasima; quelle premure familiari che nella durezza di casa Colombo nessuno riesce a offrire e nemmeno a pretendere. La bravura della scrittrice trasforma le descrizioni minuziose di case e di cose in correlativi di sentimenti perturbanti, che la ragazzina a stento padroneggia ma che le sembrano essenziali: “… mi muovo rapida negli elenchi degli oggetti che lui ha ma io no, e quasi mi sembra di possederli con lui […] seguendo il principio dei vasi comunicanti a un certo punto la sua opulenza trasborderà e sarò io a raccoglierla, il vaso piccolo e in basso che guarda in alto a bocca aperta. […] Luciano è il mio ragazzo monile, pepita e baule, il mio orpello prezioso, la spilla di pietre cangianti che espongo sul bavero sinistro della giacca”.
Ossessionata dallo scandalo che comporta l’azione aperta, paralizzata dall’imbarazzo per il giudizio altrui che può essere soltanto malevolo o insincero, Gaia finge amicizia e amore, e dapprima sceglie di addomesticare la sua furiosa e sgraziata sofferenza di povera in una recita di adesione agli stereotipi dei più abbienti; poi, spronata dal desiderio materno, punta sull’eccellenza di una carriera scolastica che dovrà garantirle il balzo verso una vita modesta ma rispettabile.
La coppia Antonia-Gaia è il vero cuore nero della vicenda, così come la coppia Adele-Giada stava al centro di La grande A – e in apparenza ritroviamo la stessa struttura di madre dominante, anticonformista, aggressiva in modo aperto fin dall’aspetto vs. figlia sottomessa, imbarazzata dal destino che la madre le apparecchia. Qualche traccia ricorre, non soltanto nei nomi tanto simili, ma anche in certi tocchi di caratterizzazione fisica e psicologica: i vistosi abiti rossi scelti dalle madri, la magrezza asessuata delle figlie, la determinazione a frantumare convenzioni e ipocrisie in nome della schiettezza e per rispetto della verità.
La fissazione per la verità è uno dei tratti di Antonia, che tuttavia non sa coglierla nei comportamenti della figlia… la quale a sua volta è sempre tesa a scrutare “che cosa c’è sotto”, e non riesce a fidarsi di nessuno, soprattutto delle femmine a lei più vicine. Con l’adolescenza, nella coppia madre-figlia si solidifica una finzione ancor più paludosa, soffocante, in cui la figlia è sempre più scollata da quella figurina ideale ritagliata nella carta dei libri su cui si consuma. La ragazza dai capelli rossi vorrebbe essere “piena di cose”, non di parole. E cade in una sorta di bulimia intellettuale, in cui la cultura è inghiottita in bocconi amari, troppo indigesta per assaporarla davvero.
C’è una scena madre nel romanzo (madre in senso proprio!) in cui Antonia trionfante porta a casa un dizionario nuovo da regalare alla figlia, poi insieme gustano le parole che dovrebbero sprigionare l’esaltante effetto del potere: “A ogni vocabolo che pronuncio ad alta voce lei si anima e lo ripete, cerca di farlo suo, con la cadenza dialettale di cui non può mai liberarsi. C’è una forza dinamica, che mi spinge a perseguire la sua soddisfazione, allontanandomi dalla mia”.
Perché anche qui, come nei due precedenti romanzi di Caminito, viene narrato un tremendo conflitto di potere tra forza e debolezza: uno scontro a parti alterne, in cui le due polarità si ribaltano dall’uno all’altro dei personaggi e personagge. Ma trovo che in La grande A e Un giorno verrà siano rappresentate forze in sviluppo, “forme del divenire” proprie dei romanzi di formazione seppure rivisitati da intenti femminili e tardo-novecenteschi. Mentre in questa nuova opera il movimento è circolare, addirittura a spirale, come i gorghi del lago tanto pericolosi per chi ci nuota.
Nel percorso di Gaia la negazione prende il posto dell’affermazione di sé: lei non si rivolta davvero, piuttosto ribalta le ingiunzioni materne a farsi strada grazie alla rettitudine e all’impegno intellettuale senza risparmio, per compiere invece atti di devianza sempre più violenti, devastanti e dolenti. La distruzione diventa la paradossale affermazione di sé, la sofferenza il pungolo capace di risvegliare la sua sensibilità esacerbata, anestetizzata dalle umiliazioni: i dolori nascosti che l’attraversano si distillano in veleni che potrebbero trasformarla nella “donna cattiva” che la madre le preconizzava. Ma la “donna di sangue” in cui tenta di calarsi si svuoterà di quelle rabbiose energie per implodere, con un destino simile a quello del lago che molto tempo fa era nato da un’eruzione vulcanica, da una forza tellurica ormai annegata in acque contaminate: troppa la fatica incessante di stare a galla “nell’acqua sterile di quella sconfitta”, di riaffiorare dopo ogni delusione.
Il potere sociale che Gaia (e con lei sua madre) sperava di ricavare padroneggiando le parole si rivela un’illusione: le parole non sono gradini in ascesa, “no, sono sempre gli altri a raccontarci, sono loro che trovano le nostre definizioni, le nostre parentesi quadre, le radici da cui proveniamo”. La distruzione del dizionario è uno degli atti autolesionistici che aprono l’ultima fase del romanzo, dove le liste di oggetti, di gesti, di definizioni si fanno più insistenti ma più vuote, segni di impotenza, di lettere spedite e mai lette (come non pensare al meraviglioso racconto di anarchica e definitiva impotenza di un pallido impiegato che scrive copiando ingiunzioni altrui, al Bartleby di Melville?).
Non per caso, nel finale Caminito ricorre a una voce diversa: forse quella dell’autrice che segue il tragitto della sua personaggia, le dà del tu, la tallona passo dopo passo lungo ogni tappa della memoria, fino al lago, dove il coraggio di un tuffo per mano all’amica nasce da un grido che pare una formula di estrema salvezza: “il lago è una parola magica”.
Giulia Caminito, La grande A (Giunti, Firenze-Milano 2016).
Giulia Caminito, Un giorno verrà (Bompiani 2018).
Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani 2021).
VV., Il romanzo del divenire. Un Bildungsroman delle donne? A cura di P. Bono e L. Fortini, Iacobelli, Roma 2007.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Roberta Mazzanti
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