La creatività bambina, una scrittura anarchica che trasborda oltre la sintassi, salta di palo in frasca, ma non perde mail il filo e la compassione per i più fragili. Pubblichiamo la postfazione a “Un giorno” di Monica Sarsini grazie alle edizioni Vita Activa Nuova
di Roberta Mazzanti
Se vi piacciono i libri grazie ai quali abbandonare i punti fermi, se amate scorrere nel flusso delle parole e approdare in luoghi insoliti, questo nuovo libro di Monica Sarsini fa per voi. Lo prenderete come un compagno nel cammino vagabondo che Monica traccia fra gli esseri amati – che siano umani o animali, luoghi naturali o case, opere d’arte o carceri, cimiteri o libri, per lei non fa differenza perché con tutti loro stabilisce i suoi percorsi sentimentali, e tutti li racconta con uguale intensità. Racconta la vita di una donna nei corsi e ricorsi delle sue passioni, nei lunghi filamenti del passato e nelle istantanee del presente, nei moti dei piedi e dell’anima.
Monica Sarsini è una zingara della scrittura: il suo stile erratico e avvolgente ha una forza espressiva anarchica, consapevole della potenza delle parole e al tempo stesso rassegnata di fronte alla volatilità delle promesse ed esorcismi che affidiamo alla scrittura, impotenti a fare da baluardo contro i dolori eppure capaci di consolarci dopo l’urto della sconfitta, della paura, della morte.
La scrittura di Monica è aperta, come le porte della sua casa; i personaggi dei suoi episodi devono poter uscire in qualunque momento del giorno e della notte, mettersi in cerca del gatto Dino (adottato dopo che si era intrufolato in chiesa, “salterellando con un ritmo in levare tra chi informicolito stava scomodo in ginocchio e chi storpiava allegro una litania”), o di due asine amiatine (ritrovate nella vallata dopo aver gridato a lungo nel buio “il loro nome di ragazze facili, Carolina, Gisella”); le sue donne si muovono irrequiete sulle tracce di un libro o di un’amica, di un amore perduto da resuscitare nel rimpianto, tra le luci e le ombre dei luoghi abitati insieme.
La conosco, la leggo e l’ammiro da molto tempo. Anche la nostra amicizia è itinerante: se desideriamo parlare, ci mettiamo in cammino fra strade e giardini fiorentini, dove andiamo di buon passo… è paradossale che ci siamo trovate unite, in anni lontani, dall’incapacità di camminare serene senza timore di svenire, sempre cercando di rientrare precipitose in qualche casa (spazio non meno inquietante, ma fermo, dove illuderci di essere al riparo, come se i terrori che ci afferravano non fossero abitanti dell’anima, a quei tempi forse troppo invasa da correnti pericolose).
Non per caso, erano gli anni in cui lei scrisse e io le pubblicai una fantastica raccolta di storie dal titolo I passi della sirena: da quell’ossimoro fiabesco sprigionava l’andamento insolito della sua prosa e della sua memoria.
Allora ci eravamo date coraggio una con l’altra, riconquistando per amore e per forza il movimento fisico, tese a ritrovarci di nuovo instancabili, decise a non perdere quel privilegio e la gioia di condividerlo.
Lei aveva già pubblicato altri libri, due pubblicati da Vanni Scheiwiller nella raffinata serie “All’insegna del pesce d’oro”: Crepacuore (1985) e Crepapelle (1988), seguiti più in là da Crepapancia nel 1996; Scheiwiller che nello scritto qui pubblicato compare come “l’editore” in visita periodica nella città dell’autrice, per incontrare insieme a lei lo scrittore Romano Bilenchi.
Va poi detto che il primo filo tra lei e me si era dipanato grazie a Goffredo Fofi – pellegrino instancabile ed esploratore di strade, di persone e pagine scritte –, e alla sua “Linea d’Ombra”, la rivista dove nel 1988 avevo scoperto la prosa di Monica. Camminare insieme può aiutare a non sbandare, come lei qui racconta di aver fatto con “lo scrittore” che ospitava ogni tanto in casa e che accompagnava in un “procedere imbarazzato nell’ambiguità della città dalle strade strette e le alte mura dei palazzi addobbate fuori del tempo come se avessero sbagliato il giorno per presentarsi vestiti in maschera alla festa”.
La scrittura di Sarsini è sovversiva[1], e tuttavia accogliente: lei maneggia le parole con magia stregonesca, illuminando quelle rese opache dall’usura quotidiana e accostandole ad altre desuete, dissepolte con i suoi scavi nelle grotte d’altri tempi; lei intreccia i linguaggi contadini con quelli appresi nelle sue profonde e disparate letture, e poi li dispiega nello spazio vitale dei suoi libri. E “lo scrittore” raffigurato con “i capelli lunghi scompaginati e scoloriti sotto il cappello floscio e un cucchiaio di legno che quando fu l’ora di desinare tirò fuori dallo zaino militare”, ci ricorda subito una marionetta dei suoi famosi teatrini; gli spazi angusti di un vecchio palazzo sono suggeriti da “una finestrucola (che) si affacciava sulla pochezza di un cortile interno”, da cui “trasparivano episodi logorati dal tempo” come il russare “profondo e regolare” di un vicino che “pareva un rumore appartenente agli intonaci, o a scorrere nelle grondaie”. Ci conquista la descrizione di un uomo amato che stava seduto “in salotto dentro la larghezza di un sorriso”; ci sono le amiche “figure abitatrici di città (…) dedite a riassestare relazioni da interni piuttosto che a misurarsi con la spietatezza della natura”, ma c’è anche Angiolo “nato nell’odore dei castagni”, e c’è una pianta di “efedra fragilis pronta a scattare nella danza come un pagliaio verde di fili sottili sotto i quali stesse nascosta una donna in punizione”.
Questa scrittrice gioca con le frasi come una bambina troppo presto fattasi adulta, una bambina che si trovi d’improvviso in un gioco duro e ne ricavi stupore e sospetto… ma senza smettere di fantasticare, di consolare con le proprie storie e di accogliere quelle altrui. Ho sempre amato la sua capacità di scorrere liberamente nella scrittura, nei ricordi, fra gli oggetti e provare gioia anche soltanto per la capacità di rimetterli in gioco nelle maniere più sorprendenti. Non per nulla Monica Sarsini è creatrice di quadri e di rappresentazioni fantastiche che definisce come “scatole”, teatrini tridimensionali dove opera ribaltamenti tragicomici delle narrazioni canoniche senza che le personagge e i personaggi siano più inceppati nel sì o nel no, nel buono o nel cattivo, da assurde coerenze moraleggianti.
Nelle sue rutilanti scatole Monica ha colto i lati più folli delle parabole, delle fiabe e dei miti, quelli suscettibili di incantesimi che ne capovolgono la logica narrativa, fanno prorompere la furia nascosta nelle creature fatate e la bellezza nei mostri. Nelle sue rappresentazioni teatrali e scritte convivono spavento e delizia, compassione per i destini infelici e tragicomici di ogni creatura vivente, che sia una donna privata del suo uomo, un coccodrillo morto d’amore per una trota gigante, uno scrittore senza requie insultato dall’infausta bruttezza del mondo circostante… La sorpresa irrompe nel flusso più pacifico, la paura si annida nel luogo più protetto, la vita e la morte sono sempre compresenti, abituali, senza che la morte perda la sua schiacciante potenza.
E la sua proiezione letteraria, quella bambina troppo prossima alla morte, continua a cercare zattere per salvarsi, abbracciata a un gatto oppure appesa ai rami degli ulivi, galleggiando sui libri, sugli oggetti, sulle sue paure come un Ismaele aggrappato alla bara di Queequeg dopo il naufragio, ma senza abbandonare la ricerca perché la Balena Bianca può celare in sé il segreto dell’esistenza e quindi della morte. Sopravvivere al crepacuore senza occultarne le ferite è una scelta coraggiosa che implica una scrittura piena di compassione, uno stile che accolga le tante voci del dolore e della speranza, che non operi selezioni intellettualistiche ma riesca a salvare i saperi della migliore letteratura insieme alla pregnanza dei linguaggi spontanei.
Chandra Candiani, una scrittrice affine a Sarsini nella rappresentazione dell’alternanza tra catastrofe e rinascita e nell’attaccamento vitale all’infanzia non tanto come memoria ma come riattivazione di gesti e parole della creatività bambina, guarda al vuoto e scrive: “sapere che cosa sia e che cosa senta il cuore è una faccenda di cicatrici, segui la cartina muta delle ferite e trovi il luogo spoglio che chiamano cuore. Lascia segnali per tutti gli altri che seguiranno le loro piste per arrivare alla stessa spoliazione”.[2]
Per curare la ferita della solitudine che si accompagna alla perdita, bisogna avere fiducia nei modi sottili di comunicare con i morti – con loro, è necessario imparare a parlare senza parole. Gli esseri con cui parlare senza parole sono gli spettri dei sogni, insieme agli animali, le piante, le presenze vitali della natura; sono gli abitanti del “cosmo celeste” al quale Anna Maria Ortese ha dedicato una intensa invocazione: “Credo in tutto ciò che non vedo, e credo poco in quello che vedo. Per fare un esempio: credo che la terra sia abitata, anche adesso, in modo invisibile. Credo negli spiriti dei boschi, delle montagne, dei deserti, forse in piccoli demoni gentili (tutta la Natura è molto gentile). Credo anche nei morti che non sono più morti (la morte è del giorno solare). Credo nelle apparizioni. Credo nelle piante che sognano e si raccomandano di conservare loro la pioggia. Nelle farfalle che ci osservano, improvvisando, quando occorra, magnifici occhi sulle ali. Credo nel saluto degli uccelli, che sono animali felici, e si sentono all’alba sopra le case… In tutto credo, come i bambini”.[3]
Anche Monica crede in tutto questo, perciò nei mondi che ci racconta gli esseri umani e il resto del “corpo celeste” sono in continua metamorfosi… e forse la metamorfosi è il gioco modesto ma prezioso grazie al quale fare pace con la morte.
Torno a Chandra Candiani: per lei “giocare è diventare forti, è cimentarsi con la morte e con l’invisibilità, è mancare e poi apparire”, un gioco in cui “l’infanzia, anche quando è spaventosa, è un luogo indimenticabile. Per le correnti. Ci sono delle correnti che ti trasportano in posti senza senso, solo festa”.[4]
Correnti inattese, impetuose e capaci di rompere gli argini che in un tempo non troppo lontano avevano imprigionato le parole di Monica, le parole smarrite perché mai scambiate oppure paralizzate dall’incantesimo pesante della memoria. Ma la corrente senza apparente senso del desiderio apre una crepa, “una crepa da cui improvvisa la vita di quest’uomo è apparsa alla mia”, e nell’incontro si fa strada la certezza “che insieme avremmo fatto cose meravigliose, come chiacchierare, guardare, camminare, piangere, ridere, respirare, annusare, inciampare, sussultare, stupirci, affliggerci, salutarci, canterellare”.
Se l’energia vitale torna a scorrere nel corpo di questa donna, della sua casa e della intera città che abita, per lei scrittrice tornano a scorrere anche le parole, tutte quante: le “parole perdute, del fratello perduto, dell’amore perduto, degli etruschi, di mia madre perduta, della sua”, grazie alla serena confidenza con l’altro che permette lo scambio e allontana la smentita.
Parole fragili ma tenaci, che conoscono la mancanza ma sanno come percorrerla. Scritture che sanno evocare la perdita ma permettono di staccarla un poco dal cuore, con delicatezza, aprendo un respiro vitale fra sé e gli oggetti carichi di troppe memorie, oggetti fattisi ingombranti nella loro “ottusa collocazione” fra il proprio corpo vivo e gli spazi di una casa tanto carica di fantasmi.
Nella seconda parte di questo scritto, grazie a questa crepa vitale, Monica Sarsini sperimenta un ritmo diverso da quello con cui aveva aperto il suo racconto: un ritmo proteso alla ricerca di svincoli dal passato senza troppo tradirlo, l’andare seducente, fluido e impaziente della sirena.
[1] Parlo di sovversione anche in una recensione al suo libro Io e Agnese (Vita Activa, Trieste 2019), apparsa in Gli Asini, no. 70-71, novembre-dicembre 2019, pp. 106-8: “C’è sempre stato nella scrittura di Monica un lato anarchico, insofferente delle regole troppo strette di sintassi e punteggiatura: lei traborda, esagera, muta registro, salta di palo in frasca ma non perde mai la bussola e riesce a guidare chi legge nei suoi viluppi di parole. La sua scrittura è anche una forma di provocazione”.
[2] Chandra Candiani, Questo immenso non sapere, Einaudi, Torino 2021, p. 23.
[3] Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi, Milano 1995, pp. 155-56.
[4] Chandra Candiani, op. cit., p. 95.
Monica Sarsini, Un giorno, Vita Activa Nuova 2023
PASSAPAROLA:









Roberta Mazzanti

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