Dal delitto Varani alla peste: la letteratura non dà scampo

Giulia Caminito, 6 dicembre 2020

A metà di “La città dei vivi” è lo stesso autore Nicola Lagioia a notare una assenza nel suo resoconto minuzioso, nella ricerca, nella ossessione di cui vive la scrittura della sua ultima opera, l’assenza delle donne, o quantomeno la poca presenza. Il romanzo verità che narra la vicenda della oscena e insensata morte di Luca Varani per mano di due giovani uomini, Manuel Foffo e Marco Prato, è una lunga testimonianza sulla città di Roma prima di tutto, o almeno la versione che Lagioia decide di raccontarne, che fa da sfondo perfetto al collasso oscuro e disastroso di una notte che ancora oggi dopo anni, e anche dopo aver letto l’intero libro, resta misteriosa, terribile.

Le persone che si fanno personaggi sono nella “Citta dei vivi” (o dei vinti stavo per scrivere) soprattutto uomini.

Sono uomini i carnefici e la vittima, sono uomini i padri che più di tutti parlano al pubblico, ai giornalisti, in televisione, tramite i social o i blog, sono uomini i carabinieri, gli avvocati, è uomo lo scrittore stesso. Certo le donne esistono nel libro come esistono nella vicenda, ma sembrano sottrarsi al libro e alla vicenda, a partire dalle madri degli assassini e della vittima per arrivare alla fidanzata di Luca Varani che appena è uscito il libro su Facebook ne ha scritto prendendo le distanze, definendolo un modo per lucrare su una vicenda che lei ha subito veramente. Le dichiarazioni della ragazza infatti appaiono nel libro sempre estrapolate dai social, ma l’autore racconta anche l’incontro con l’avvocato della giovane, eppure lei sembra distanziarsi dal processo narrativo, dall’indagine, per restare nel proprio luogo che è quello della perdita, del sentimento.

Per quanto il libro faccia del suo fulcro la ricerca stessa delle informazioni, il gioco di specchi tra l’autore (Lagioia racconta episodi della propria adolescenza in cui ritrova alcune variabili tragiche della vicenda) e i protagonisti, non viene ovviamente raccontata tutta la trafila, tutti gli anni in cui Lagioia ha lavorato al libro e come. Non sappiamo quindi se questa sottrazione femminile, della ragazza di Varani e di altre voci (fa eccezione una giornalista che come Lagioia è molto legata al caso e se ne è occupata a lungo), sia dovuta a una loro scarsa partecipazione volontaria o a una scelta precisa. Forse non è neanche interessante capirlo, perché l’oggetto della lettura e della riflessione deve essere il libro stesso, il risultato, l’approdo. E l’approdo ci racconta un mondo a molte voci maschili, diverse anzi diversissime tra di loro, che si accusano, si cannibalizzano, si sodomizzano, si compatiscono, si feriscono, si uccidono le une con le altre. Alle loro spalle la città continua eternamente a morire, cade bocconi, ma non crolla mai del tutto.

Forse la grande femmina, la donna più colpita, più distrutta è proprio Roma, è proprio la città, è questo l’elemento femmineo che viene squassato, distorto, sporcato.

La sensazione che da romana ho avuto leggendo il libro è di una lunga molestia, una città assediata, torturata. In molti punti mi sono sentita toccata, mi sono innervosita, perché volevo rispondere che non è sempre così, non è solo questa la mia città, non mi andava giù la Torino della salvezza, la Milano dell’efficienza e la Roma della voragine, ma poi ho dovuto ammettere a me stessa che il mio modo diverso di viverla non la rendeva per questo diversa da quello che purtroppo realmente è, o comunque riesce a essere la maggior parte del tempo. E quel tempo Lagioia lo sa raccontare con precisione. Quello della prostituzione, quello dei gabbiani famelici, quello dei ratti negli ospedali, quello delle macellerie chiuse dove è rimasta dentro la carne a marcire.

Cosa vuole dirci questo il libro? La città degli uomini vivi, degli uomini morti, degli uomini di mezzo è la città spacciata?

Lagioia ha scelto la sua vicenda da raccontare, il buco nerissimo in cui infilarsi, ha scelto una storia di uomini e delle loro perversioni, solitudini, perdite, tristezze, confessioni, bugie. Io ho trovato questo un atto interessante, più potente di molte altre dichiarazioni pro femministe che leggiamo quotidianamente, l’ho trovato un atto di accusa feroce.

L’unica donna veramente attiva nella vicenda è Marco Prato stesso, un uomo vestito da donna che aveva molte amiche donne e che forse avrebbe voluto essere donna a sua volta. C’è nell’immagine di questo giovane vestito da donna (per piacersi o per piacere il confine è labile), che a martellate uccide un ragazzo e poi si leva i tacchi, perché trascinare il suo corpo morto sui tacchi è troppo difficile. Quel gesto di sfilarsi i tacchi e in qualche modo sfilarsi la femminilità io a leggerlo nel libro l’ho trovato stordente, il momento in cui torna in qualche modo l’uomo, ed è l’uomo che deve spostare un cadavere, deve coprirlo, occultarlo alla vista.

La nostra città sarebbe diversa se fosse governata da sole donne? Il nostro mondo sarebbe stato o sarà diverso quando le donne avranno un ruolo massiccio nella costruzione del potere, nei movimenti finanziari, nelle scelte politiche? È una domanda a cui da donna vorrei rispondere di sì, ma non credo che basterebbe, non credo che la mia risposta positiva darebbe abbastanza peso all’accusa che questo libro contiene, e allora a questo romanzo rispondo con un altro romanzo: “La notte si avvicina” di Loredana Lipperini.

Due libri usciti quasi insieme in questo 2020 che sta diventando per la letteratura un confronto serrato coi mostri della coscienza, coi delitti, con le malattie.

Nel libro di Lipperini un paesino marchigiano d’invenzione diventa teatro di una epidemia di peste, il paese viene chiuso, quasi tutti muoiono a causa del morbo. Il paesino di Lipperini è quindi piccolissimo (quattrocento anime) grande come due palazzi della Roma di Lagioia, ed è un paesino di donne, tutte le protagoniste sono infatti donne e incarnano spiriti diversi: dalla donna-strega e untrice del contagio alla custode della memoria del paese piena di pregiudizi e ferocia, dalla forestiera salvifica alla madre vittima. Ma la cosa interessante del romanzo non è l’esclusione maschile (come non lo è in realtà in Lagioia), piuttosto è tagliente ed è sferzante la critica alle relazioni umane tra donne, la cattiveria terribile che sgorga anche nei contesti più quotidiani, più ovvi, che è quella in particolare materna: madri che pur di difendere i figli o se stesse mettono alla gogna altre madri, le attaccato, le rovinano. Anche qui mancano totalmente i moventi, i motivi che le fanno sentire in pericolo, alcune agiscono per semplice intuito, altre per antipatia, altre per noia, ma spesso toccano le altre e gli trasmettono la peste, che è soprattutto ignoranza, grettezza, mancata empatia, mancato amore.

Il piccolo paesino teatro di una provincia che si ammala e fa ammalare, la grande città che è latrina e sberleffo, è pantomima e dolore. Una, la prima, si estingue, la seconda non sa morire e tira a campare d’inezia, di disperazione.

Non c’è quindi soluzione? Cosa ci salva?

I due libri danno risposte diverse, opposte anzi, che sta ai lettori e alle lettrici scoprire. Trovo però in entrambi una salvezza comune che è quella della non assoluzione, della spietata e per assurdo anche compassionevole critica al proprio sesso e alle dinamiche che sa generare, in questa intelligenza, nel trovare il peggio e non solo il meglio sta un punto di convergenza, di espulsione, di catarsi.

Poi certo ci sono anche i simboli a raccontarci le anime e i significati dei romanzi, e io ne scelgo due: il primo la giovane donna di Lipperini che si salva al contagio, che non ha inghiottito la maledizione, che cammina guardando le case deserte di un paese morto, ma è ancora viva, è sua la città dei vivi.

E l’altra, la più straziante per me, la più assoluta, è la madre di Luca Varani che non dice una parola per tutto il romanzo e rimane sullo sfondo di un racconto che vede suo figlio preso e ripreso e ripreso a martellate e si inginocchia ogni volta davanti alla sua tomba e bussa due colpi. Bussa come a chiedere “ci sei?” come a dire “è permesso?” o ad aspettare che dall’altra parte suo figlio risponda con un’altra domanda “chi è?”. Chi è che bussa mentre sto dormendo. Ed è questo gesto materno, questo rumore, toc toc, a sembrarmi quello di una donna-mondo, una donna-città, che bussa sulla lapide di un uomo-vittima, un uomo-sacrificio – un figlio, un padre, un amato, un segreto – e attende risposta per cambiare insieme l’esistente, provare a svegliarlo.

 

Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi 2020

Loredana Lipperini, La notte si avvicina, Bompiani 2020

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Giulia Caminito

GIULIA CAMINITO è nata a Roma nel 1988 e si è laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo "La Grande A" (Giunti 2016) che ha vinto il Premio Bagutta opera prima, il Premio Giuseppe Berto e il Premio Brancati giovani. Ha poi pubblicato con Bompiani “Un giorno verrà” nel 2019 e “L’acqua del lago non è mai dolce” (2021) con cui è arrivata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Campiello 2021. Ha scritto inoltre due libri per bambini "La ballerina e il marinaio" (Orecchio Acerbo 2018) e "Mitiche" (La nuova frontiera junior, 2020). Nella vita lavora come editor e si occupa di narrativa italiana. È nella redazione di Letterate Magazine. Cura un festival letterario che si tiene a Roma nelle scuole, Under - festival di nuove scritture. Ha portato i suoi laboratori di scrittura in librerie, biblioteche, scuole e carceri.
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