SOFFIASSE DAVVERO QUEL VENTO DI SCIROCCO*
Volano buste, rotolano cumuli di oggetti, si spostano cassonetti, il caldo umido mi gonfia le gambe ad ogni passo. Camminiamo a grandi quadrati io e Silvia tra Circonvallazione Casilina e Prenestina, un lato dopo l’altro. Non c’è posto dove fermarsi, la polvere filtra nelle mascherine, gli occhi sono arrossati. Io e la mia amica ci aggiriamo, non possiamo ancora tornare a casa, non possiamo rimanere per strada, non riusciamo a parlare. Siamo alla fine del mondo, o è solo un terribile scirocco in mezzo a una fase due di una pandemia? Stiamo solo osservando le macerie di una città mai pulita o stiamo incassando l’ennesimo colpo di una guerra antica sui nostri corpi? Ne parlano tutti e noi siamo in silenzio tra i cumuli.
«Sto un po’ male, mi sento confusa. Mi sento confusa anche per quella vicenda».
«Eh, sì, lo so».
Lo sappiamo entrambe che tutte le volte è così. Ci rimaniamo male per tutto, non sopportiamo più gli insulti, i dileggi, le cattedre delle spiegazioni, le notizie, le supponenze, i giornalisti volgari e quelli educati, la pulizia dei contatti sui social. Le parole su Silvia Romano, anche questa volta, ci arrivano negli occhi, ci rincorrono nell’alba, ci aspettano dietro l’angolo della strada. Sono gli agguati di un cacciatore notturno che scavalca un recinto perché può farlo, perché conosce i trucchi. Sono trucchi millenari che si tramandano di generazione in generazione, mi verrebbe da dire genetici.
E io casco nella buca, precipito con chi di noi sente tutto, e lo sente sulla sua pelle. Ogni volta che si usa la parola stupro senza averne cognizione, qualcuna di noi sprofonda; ogni volta che si usa la parola reclusione, qualcuna di noi sprofonda; ogni volta che il tono offende il corpo, qualcuna di noi sprofonda.
Ci prendiamo tanta polvere negli occhi, ci pieghiamo in due dai crampi, evitiamo le transenne dei lavori in corso che volano, e non abbiamo imparato a scansare nulla. Nel momento in cui accolgo il dolore di una sconosciuta, mi ritrovo così impantanata nel mio che tutto si fa mischiato, e in quel miscuglio cerco di cavarmela: rispondere pacatamente a chi ha già scotomizzato l’indicibile per analizzare e spiegare le “situazioni difficili” e ha già una serena verità in tasca (le cose stanno così, la situazione è questa, come si può vedere che…), trattenere la rabbia di fronte al livore senza oggetto altrui (quanta rabbia dobbiamo ingoiare prima di ammalarci?), prendere a calci i muri, fare le flessioni, respirare molto.
«Possibile che tutte le volte incassiamo così? Tutte le volte ci fa male? Dovremmo saperlo ormai come funziona. Invece di rispondere ai colpi, dovremmo schivarli».
Schivare, quindi. Penso alle volte in cui sono riuscita a schivare un pericolo, e mi viene in mente una circostanza precisa: ero su una barca a vela, all’improvviso la combinazione tra un colpo di vento particolarmente intenso e la distrazione del timoniere ha portato il boma (quella sorta di bastone orizzontale che regge la base della vela) a cambiare lato repentinamente, attraversando come una tagliola il pozzetto. Si sa dal minuto uno che sali su una barca che devi fare attenzione, devi tenere la testa un po’ china (credo sia quello a conferire ai/alle velisti/e quell’aria un po’ dinoccolata del collo), ma a volte te lo dimentichi, ti distrai, tiri troppo su la testa. Non c’è pietà nella combinazione di un caso atmosferico e almeno due errori, uno di attenzione e uno di sottovalutazione: il boma ti arriva in testa. Può fare veramente molto male. A me è arrivato così forte quella volta che ho perso i sensi. Il mare mi era addosso, non più solo intorno, il cielo scurito, la vista assente, l’udito a fischio.
Come schivare i millenari boma in testa che ci piombano addosso tutte le volte che un caso di cronaca riporta al centro le contraddizioni giganti del mondo concentrandoli tutti insieme su un corpo di una donna?
Allenare le orecchie al vento, l’olfatto agli odori, il tatto alle superfici, la vista ai dettagli, l’intelletto alle furbizie. Pre- sentire.
Ciclicamente una forma polverosa di patriarcato testa le capacità delle donne di essere unite e resistenti. Compatte. Una specie di ingegneria dei materiali sui nostri corpi e la nostra politica. Ma la compattezza non è del femminismo, per questo forse siamo l’unica rivoluzione permanente della società: siamo una materia viva che si disgrega, che vive nel tempo, che si scompone e si decompone. Non siamo una testuggine di un esercito. Mentre scavalco un cumulo di spazzatura e provo a dimenticare i commenti su Silvia Romano, mentre sopporto in silenzio l’ennesimo articolo che galoppa sugli scontri tra le femministe, propongo un piccolo spostamento, quello stesso minimo che può far evitare un boma in testa: diciamocelo e diciamoglielo che non dobbiamo dimostrare a nessuno di essere unite e resistenti. Schiviamo da prima quello che sappiamo già avverrà ogni volta: dei nostri corpi faran macello, dei nostri pensieri faran riduzioni.
Alzo lo sguardo verso la mia amica, tutto è già accaduto senza che ci dicessimo niente, abbiamo finito il terzo giro del circondario, abbiamo camminato e patito insieme per un’altra Silvia. Che cali un po’ di silenzio, l’unica espressione percepibile in mare prima della tempesta.
*il titolo fa riferimento alla canzone di Guccini “Scirocco”
PASSAPAROLA:








Viola Lo Moro

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