Una riflessione sul coprifuoco ora che ci sentiamo di nuovo tutte e tutti liberi di uscire e rivedere amici e parenti. Eravamo abituate a notti silenziose e vuote, paurose per chi sola si attardava oltre le 22. La misura estrema del coprifuoco potrà essere ripetuta? Servirà a estendere il controllo?
Di Viola lo Moro
Sono le 22:40 di un 24 Aprile di questo secolo, l’anno è il 2021. Anno secondo di pandemia. La radio mi incolla a una musica leggerissima, un invito a non cadere nel buco nero, che sta a un passo da noi. Non sta a un passo, ma a un colpo di gomma sull’asfalto. Un colpo, un giro. Ogni giro di ruota, un rumore, un sassetto incastrato nella gomma dello pneumatico. Tutto intorno il paesaggio è la Cassia Bis – una campagna di cemento verde, poi la Flaminia. Entro nella mia città da Corso Francia, il viadotto somiglia a quello che sapevo da adolescente – immobile, rischioso – l’auditorium non è cambiato mai: era lunare prima, rimane lunare anche oggi. Le poche macchine sono scomposte, si mettono tra le righe, scartano quando meno te lo aspetti, oscillano male. I corpi umani si sono disciplinati abbastanza bene dal primo lockdown, ma non hanno imparato a gestire i corpi-macchina. La strada più è vuota, più è pericolosa.
Sono nell’orario del confine, quello rischioso, quando il coprifuoco non è cominciato, ma sta per iniziare. Il confine tra luce e ombra, con un provvedimento del genere, è forzato. Sembra più repentino, accelera i passaggi, concentra l’alcool, velocizza gli incontri, fa precipitare il tempo, quello stesso tempo che abbiamo vissuto dilatato nei mesi precedenti. L’ora in cui tutti si sono ritirati, chi di noi si è attardata ed è sola deve fare un respiro profondo. A un passo da noi. A un passo da me. Un respiro profondo per non sentirci sole, perché la notte l’avevamo riconquistata a suon di telefonate finte alle amiche, a suon di cortei femministi (“La notte ci piace, vogliamo uscire in pace, ci piace pure il giorno, levatevi di torno”), a suon di amici che ti accompagnano, a suon di botte, a suon di antenne tese, di ritorni euforici, dissestati, assonnati, distratti, ma ora – da mesi ormai – la notte è solo uno spazio temporale scuro. Nell’ora del confine escono fuori i mostri, i fantasmi. E con quelli posso interagire, ma nell’ora del confine forzato, escono invece tutte le idiosincrasie di un sistema di controllo feroce e fallimentare. Le ragazze accelerano il passo, e lo spazio pubblico ridiventa uno spazio rischioso.
A più di un anno dall’inizio della pandemia mi continua a sfuggire come si possa far credere che il problema sanitario corrisponda a un problema di controllo dello spazio aperto, tranne quando quello spazio aperto è uno spazio di consumo – lì, misteriosamente, si presuppone una clemenza virale. Una clemenza viral-capitalista. Mi sfugge come si possa imporre – adducendo una forma di buona fede incontestabile della ripartenza – una vita fatta di lavoro (se non è smart di solito comporta i mezzi pubblici, uffici, luoghi al chiuso con altre persone), sfogo alcolico di un paio d’ore, e poi casa in famiglia, al chiuso. Si esce la sera per i cani. Questi cani di città, che abbaiano sempre, sempre più compressi, pure loro. Ma siamo in un paese fatto anche di persone senza cane e senza famiglia, siamo un paese fatto di famiglie violente, di dinamiche relazionali terrificanti, di senza tetto, di nevrosi e psicosi. Chiudere il fuori fa scoppiare il dentro.
La notte, per chi non lo sapesse, e per chi continua a dirmi, “tanto andavo a letto presto lo stesso, non cambia nulla”, è un tempo prezioso per molte/i di noi. Il buio esterno ci serve per essere abitato da chi il buio ce l’ha spesso dentro, è una questione di corrispondenze. Mentre le ruote girano, e la città cambia, capisco che questa misura eccezionale è funzionale solo per farci intendere che anche l’eccezionalità si addomestica, come tutto. È già stata usata nella storia, è usata nel presente, potrà essere riusata in futuro. Esiste un precedente.
Mi ricordo di una canzone che cantavamo durante i campi scout delle ragazze la sera, prima di andare a dormire, mentre il fuoco si stava spegnendo, le ultime braci vincevano la fiamma. “La canzone delle Scolte di Assisi”.
[…] Già l’ora del coprifuoco salì / attente alle scolte guardie armate ohilà / in silenzio vigilate / attente, oh scolte, su vigilate. […]
Piano mi scende una lacrima, non rallento, corro un po’. Non ho fretta di tornare a casa, mi sento di essere una Scolta che deve vegliare una città, tenerla sveglia, obbligare le persone a non dormire. Vigilare.
Arrivo tardi con queste riflessioni, lo so. Durante i mesi del coprifuoco abbiamo visto le strade vuote, ma anche ragazze scappare da uomini che le seguivano, abbiamo visto le volanti della polizia terrorizzare prima e poi sparire subito prima delle 22:00 per lasciare libero gioco a uno spaccio di sostanze pesanti, abbiamo sentito adolescenti urlare dalle finestre.
Durante i mesi del coprifuoco ho servito a tavoli di gente col fuoco negli occhi quando, come se fossi io la persecutrice, dicevo che era giunta l’ora in cui dovevamo chiudere. Durante i mesi del coprifuoco ho visto sparire delle persone che vivevano per strada e alle quali in un certo modo ero affezionata, inghiottite in qualche altro vuoto. Durante i mesi del coprifuoco ho empatizzato con chi vive questa condizione sempre, mi sono disperata per una società che non vuole vedere. Non vuole ricordare. Non vuole vegliare.
Rimando a un articolo che mette giustamente in relazione questa misura “eccezionale” con la normalità di questa misura per le persone con obbligo di firma o le persone immigrate nei centri di accoglienza
https://hurriya.noblogs.org/post/2021/o3/30/emergenza-coprifuoco/
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Viola Lo Moro

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