Testimonianze al tempo del virus/2
L’incubo della peste e le privazioni della quarantena. La violenza del potere e un topino bianco benefico. Un racconto scritto in questi giorni sospesi su un futuro che non sappiamo prevedere
Di Gisella Modica
Puzzava di sangue rappreso e pus.
Dentro il container soffocava. La lamiera bolliva, e la febbre era alta, ma non poteva uscire.
Era nella zona rossa, quella degli appestati, sorvegliata giorno e notte. Prigioniera nel container numero 76, uno dei tanti costruiti in una settimana dall’Esercito, incardinati coi bulloni nell’enorme spiazzo vuoto, alle falde di Monte Pellegrino. Le femmine dentro i container verdi, separati dai maschi stipati sul lato opposto, dentro lamiere dipinte di giallo.
Più avanti, a 500 metri, c’erano rinchiusi i neri.
Aveva la lingua appiccicata al palato, amara e secca come l’aria densa di polvere, che sapeva di plastica bruciata. Una colonna di fumo nero avvolgeva da giorni la città martoriata come il suo corpo, morso da milioni di spilli.
Il paziente zero, quello che aveva portato la peste in città, si diceva fosse un immigrato sbarcato da un barcone di notte al porto: un marocchino fu infatti trovato morto alla Cala, col corpo gonfio di bozzi, la lingua verde e fetida.
Dopo un mese i morti non si contarono più.
Aveva bisogno di respirare, la testa le scoppiava, ma sparavano a chi usciva: avevano il grilletto facile, i cacciatori.
Sindaco e consiglieri, avvisati per tempo dell’epidemia, erano scappati lasciando la città in mano a maghi, fattucchieri e suonatori di piffero, che facevano affari d’oro con finte pozioni miracolose. E ai cacciatori. Col fatto che avevano il porto d’armi legale, la comunità europea che con una risoluzione notturna aveva dichiarato la città corpo infetto, aveva dato loro licenza di uccidere: in primis i disobbedienti trovati per strada, poi chiunque trovato a curare un appestato.
Ci avevano preso gusto, i cacciatori, e uccidevano qualunque cosa fosse a tiro.
Non molti, a conti fatti. Nessuno, in quella città indolente, aveva ormai la forza di mettere in moto il cervello e ribellarsi. Non lo avevano fatto quand’erano sani e pieni d’energia, e i carri armati non avevano ancora occupato le strade “per normali esercitazioni”, figuriamoci adesso resi inabili dal male e condannati all’immobilità sotto il tiro dei fucili!
Nel mirino erano soprattutto i volontari.
La settimana prima erano state trovate riverse sul ciglio della strada che saliva al Monte quattro volontarie che la città ingrata, finita l’emergenza, avrebbe fatto sante e posto le loro effigi dentro alcove sulla facciata dei Quattro Canti di città. Si diceva che avessero curato un’appestata con una dose di vaccino rubato dal caveau dell’ospedale dov’erano numerate e chiuse a chiave per il mercato nero.
Il caldo era insopportabile, e anche il puzzo.
A lei sarebbe bastato fare solo quattro passi davanti al container: uno, due, tre, quattro. E sarebbe rientrata. Tanto da lì a poco sarebbe morta lo stesso, pensò. E sfidò la sorte.
Uscì dalla porta posteriore.
L’investì l’odore acre di bruciato, ma si era alzato un refolo di vento che lasciava respirare.
Fece i primi tre passi guardando il cielo che le mancava, ma quando abbassò lo sguardo emise un grido che rimase soffocato in gola.
La strada in terra battuta era disseminata di cassonetti contorti dalle fiamme che nella notte avevano bruciato immondizia, malgrado il divieto. Su un lato della strada corpi informi coperti da sacchi di plastica erano in attesa di essere caricati sui compattatori dell’Amia che li avrebbe bruciati durante il tragitto, e scaricati cenere a Bellolampo. Questa sarebbe stata la prassi, aveva comunicato il Podestà in principio dell’epidemia, se il numero dei morti per contagio avesse superato quello dei posti in cimitero.
Sull’altro lato cumuli di corpi più piccoli – animali? Forse bambini! – erano coperti di calce viva.
Vomitò.
Non era preparata a tanto.
Non usciva dal container da tempo, neanche per fare la spesa che trovava il lunedì davanti la porta dentro buste di plastica. Sempre la stessa, da mesi: pasta, patate, una bottiglia di latte e acqua nel bidone.
La profezia s’era dunque avverata.
Quando i giornali resero pubblica la notizia della peste, il panico si diffuse dapprima tra la gente del primo mandamento, il quartiere alto. Muniti di mascherine e guanti di gomma, in fila per uno davanti a tende adibite per l’occasione, ritiravano la dose di Tamiflu pagata via internet. Ne erano stati acquistati, si dice, un milione di dosi. Un affare di milioni di euro finiti dritti dritti nelle tasche del Podestà e della sua casa farmaceutica. La gente del quarto mandamento, invece, più ingenua e ignorante, non osservava la quarantena e continuava a riversarsi in massa per i vicoli, incurante del contagio. Pensavano che stare in casa significava ammettere di aver contratto la febbre maligna, e nessuno voleva finire i suoi giorni dentro l’inferno dello Spasimo.
Si erano diffuse però anche strane storie di gente malata che al contatto di un liquido che sapeva di sale, era improvvisamente guarita.
Sparsa la voce, si creò un clima di caccia alle streghe.
Un cartello di STREGONERIA SOSPETTA era comparso davanti alla sede di Arcigay, e il giorno dopo fu la volta del centro sociale occupato da studenti di Filosofia. Affissi per le strade editti municipali invitavano i cittadini a vigilare su familiari e conoscenti sospetti di febbre maligna, nonché di “accoppiamenti con lo stesso sesso” e di letture non conformi al canone. Ma anche a denunciare chiunque detenesse in casa galli e gatti neri, specchi e corna di animali o portasse cerchi e triangoli appesi al collo. Nel dubbio i più pavidi si diedero all’astinenza, e intere collezioni di libri finirono bruciati nelle piazze, mentre gli stanzoni di Palazzo Steri pullulavano di profittatori che per vendetta, o per motivi di successione, accusavano parenti e vicinato.
Davanti ai cadaveri dei bambini non resistette, e fece per tornare indietro.
Fu allora che lo vide: piccolo e tutto bianco, gli occhi verdi, spiritati, i baffi vibranti, e lo sguardo che sembrava implorasse.
Ne aveva visti tanti di topi, i container ne erano infestati, ma come quello che adesso le sbarrava la strada, non ne aveva finora incontrati.
Lo scavalcò.
Il topo con una mossetta fulminea si mise davanti a lei, e la precedette. Un passo, e si voltava come per assicurarsi che l’umana lo seguisse.
L’umana fece dietrofront. Il topino le sbarrò la strada.
Che le stesse chiedendo di seguirlo?
Sorpresa, l’umana pensò di disorientarlo: avanzò d’un passo e poi tornò indietro, ma il topo non mollava.
Non riuscì a frenare una risata:
“Vuoi che ti insegua? Ok, ma lo sai che di cognome io faccio Gatto? Mimma Gatto. Capito?”
Il topino squittì, e riprese a camminarle davanti.
Mimma si arrese, e lo assecondò.
Tanto, pensò, sarebbe morta lo stesso.
Il topino si arrampicò lungo l’acchianata che dalle falde del Monte portava alla grotta della Santuzza Rosalia.
Giunto davanti l’antro si fermò e cominciò a scavare.
Scava, scava, finché sgorgò uno zampillo.
Il topo lasciò che l’acqua lo bagnasse.
Mimma si avvicinò dubbiosa, poi lasciò che l’acqua rinfrescasse anche il suo corpo martoriato, e al contatto non sentì più gli spilli. La pelle tornò liscia, morbida ed umida. La odorò: emanava un leggero profumo di rosa.
Leccò l’acqua: sapeva di sale.
Guardava ipnotizzata il topo: più si bagnava più diventava grande. Si bagnava e si allungava, si allargava, si trasformava: diventò un uomo basso di statura ed esile, vestito di bianco. Aveva gli occhi verdi, e lo sguardo implorante.
Emise un urlo.
“Signorina!”
Udiva la voce, ma non riusciva a svegliarsi.
“Signorina! Signorina Gatto!”
Qualcuno la scuoteva.
Aprì gli occhi. Le mancava l’aria. Aveva la lingua appiccicata al palato, secca e amara, il corpo trapassato dagli spilli.
La prima cosa che vide fu il verde della parete, poi un camice bianco. Alzò lo sguardo e incontrò gli occhi verdi e accoglienti del dottore. Teneva in mano una bottiglia di ACQUA SANTA ROSALIA, la minerale che davano da bere nel reparto oncologico dove da più di un mese era ricoverata perché il cancro le divorava il cervello.
“E’ tutto finito” la rassicurava: “Ha avuto un incubo”.
Le giunse il puzzo di plastica che bruciava.
Si tirò su, e guardò fuori dalla finestra.
La colonna di fumo era ancora alta. La fabbrica di Guajana, il giovane imprenditore che si era ribellato agli estorsori, bruciava ancora. La città martoriata dal cancro del pizzo finalmente si ribella titolava il giornale.
Il giornale era ancora sul comodino. Glielo aveva letto sua sorella prima che lei sprofondasse nel sonno provocato dalla morfina. Accanto c’era la rosa dentro al bicchiere, colta nel giardino che circondava l’ospedale.
Emanava ancora un intenso profumo.
“Su, beva la sua acqua, signorina. Due litri, come al solito”.
“Non mi piace, sa troppo di sale”.
“Beva, che poi rifacciamo la tac”, la implorò il dottore: “Chissà che Santa Rosalia stavolta non faccia il miracolo!”
S’imponeva di sorridere, il giovane dottore.
Sorrise anche Mimma, e allungò il braccio.
“Ok. Mi passi l’acqua miracolosa”.
PASSAPAROLA:









Gisella Modica

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