Abusi sessuali e caporalato per le lavoratrici dell’agricoltura. In viaggio tra Italia, Spagna e Marocco, Stefania Prandi racconta il doppio sfruttamento delle donne attraverso 130 interviste anche a sindacalisti e associazioni. Aborti e solitudine: eppure qualcuna trova il coraggio per il metoo.
Clotilde Barbarulli
Se ogni tanto sui giornali si legge di sfruttamento di migranti nell’agricoltura è solo perché accadono tragedie e incidenti di solito poi insabbiati: il rapporto 2018 di Medici per i Diritti Umani sulla condizione di vita e di lavoro nella Piana di Gioia Tauro, ad esempio ha messo in luce la presenza di circa 3500 lavoratori – per i produttori locali di arance, clementine e kiwi – in condizioni illegali e in situazioni abitative degradanti. E comunque di rado sono emerse indagini specifiche sulle donne. Il libro di Stefania Prandi – frutto di una ricerca e di una inchiesta sul campo, durate più di due anni, con oltre centotrenta interviste a lavoratrici, sindacalisti e associazioni – si dipana tra Italia, Spagna e Marocco, fotografando il lavoro duro e sottopagato di donne, private dei fondamentali diritti, fra baracche malsane, container, casolari fatiscenti in mezzo alla campagna, serre inquinate dai diserbanti chimici agroalimentari, stanzoni senza finestre né armadi, lontani dai centri abitati.
Il progetto Oro rosso è cominciato nel 2016 con un lavoro fotografico in Sicilia e si è poi allargato alla verifica di fenomeno di violenza di genere in agricoltura in altre aree del Mediterraneo. Essendo Prandi una freelance, la ricerca dei fondi è stata laboriosa perché per ogni zona aveva bisogno di un budget minimo per coprire le spese degli spostamenti, dell’alloggio, dei mediatori.
La scelta di utilizzare manodopera femminile per i lavori agricoli viene motivata dalle stesse parole: le donne sono considerate “più delicate” nella raccolta della frutta, “predisposte geneticamente”, “pazienti”, “più resistenti degli uomini”; a questo si aggiunge il fatto che la manodopera femminile è sempre meno pagata e più ricattabile, sottoposta anche a molestie e stupri.
Con un approccio di genere e intersezionale, nell’intreccio fra subordinazione lavorativa e violenza sessuale, l’autrice mette al centro del libro la sopraffazione e il ricatto, ma anche la resistenza alla violenza, verbale e fisica, e il coraggio delle denunce che però “troppo spesso cadono nel vuoto”. Nei luoghi dell’inchiesta è radicata l’idea che, per avere e mantenere il posto di lavoro, si debba accettare uno scambio sessuo-economico (Tabet), una regola sottesa proprio perché la violenza è un prodotto della società, uno dei meccanismi sociali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.
Se la scrittura delle donne è caratterizzata dal frammento che coglie l’istante e non può quindi esservi soluzione di continuità tra giornalismo e narrativa, il giornalismo militante come quello di Prandi unisce il rigore alla passione civile, nell’urgenza del raccontare, nel restituire a chi legge la pluralità e la conflittualità che il mondo contiene; e a differenza della spettacolarizzazione della notizia, cerca di analizzare, capire, porre interrogativi, dare spazio alla parola dell’altra senza sopraffarla, riuscendo a far intravedere emozioni, reticenze, paure, desideri.
Vengono narrate così Kalima, Fatima, Petra ed altre che lavorano all’oro rosso, come sono chiamati i pomodori prodotti nelle aziende agricole di Vittoria, ricorrendo alla stessa espressione usata in Spagna per fragole e frutti rossi. Nonostante l’ingente produzione, sono poche le azioni intraprese per migliorare le condizioni delle lavoratrici in Sicilia e in Puglia, come emerge dai racconti di rumene molestate. E’ difficile parlare con loro, temono di essere licenziate se la gente del posto viene a sapere che hanno incontrato una giornalista. Un operatore sociale, che ha testimoniato ma inutilmente sulle violenze, spiega che tutti sanno, “autorità incluse”, ma “è più semplice fare finta di nulla”, ignorando i frequenti aborti delle straniere. La gente non vuole che sia data un’immagine negativa del territorio, anche perché si ritiene – assurdamente – che le rumene abbiano un’idea diversa del sesso quindi sarebbe eccessivo parlare di abusi.
Kalima accetta di raccontare ma – dopo un documentario di denuncia della tv francese nel 2009 – ha paura di essere notata a Palos de la Frontera, vicino a Huelva nell’Andalusia, una zona che prospera grazie alla coltivazione delle fragole: viene dal Marocco come lavoratrice stagionale, favorita dai contratti che preferiscono donne sposate e con figli cosicché restano solo il tempo del raccolto. Dopo anni in una azienda con un proprietario corretto, si è trovata a lavorare con un supervisore che molesta tutte le lavoratrici, minacciandole: “La paura di passare per prostitute dissuade le donne non solo dal denunciare, ma anche dal parlare”. Alle domande al riguardo, sia alle forze dell’ordine sia alle associazioni, si risponde con dinieghi e mancanza di dati, anche se nella zona, nel 2016, ci sono stati 185 aborti da parte di marocchine, rumene e bulgare.
La “Casa delle donne che piangono”, dove ha vissuto Kalima, ne ospita un centinaio: Stefania Prandi è accompagnata da un sindacalista che cerca di opporsi allo sfruttamento, ma le donne rifiutano di parlare, affermando che non ci sono problemi. Gli abusi invece sono perpetrati nelle serre ed il padrone esercita il suo potere: tutto “nell’azienda agricola deve appartenergli”, come al tempo della schiavitù.
L’approvazione nel 2016 della legge anticaporalato è uno strumento importante, ma non sufficiente, nell’attuale mercato del lavoro deregolarizzato, dove vige la legge del più forte. Nello specifico, prevalgono la paura per le donne di denunciare, la responsabilità delle istituzioni che non fanno controlli e spesso non credono alle lavoratrici, oltre ai processi faticosi, lunghi, e costosi. In tempi di #metoo qui lo scenario è molto diverso da quello del mondo dello spettacolo: il ritenere la vittima di un abuso parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto, si complica perché le braccianti sono sottoposte ad una doppia oppressione, di classe e di genere, che favorisce l’autocolpevolizzazione per una forma di vergogna collegata, anche se ingiustamente, alla violenza sessuale. Hanno paura per ragioni di incolumità fisica e per il rischio di perdere il lavoro.
Al termine della lettura si resta con l’inquietante interrogativo sul drammatico silenzio di sindacati, associazioni e istituzioni di fronte a tante sopraffazioni e sofferenze.
Stefania Prandi, Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo, Settenove 2018, pp. 107, euro 14,00
Altri testi utili:
Paola Tabet, La grande beffa. Sessualità delle donne e scambio sessuo-economico, Rubettino 2005.
Scritture di frontiera tra giornalismo e letteratura, a cura di C. Barbarulli, L. Borghi, A. Taronna, vol. 2 degli atti del Convegno Sil Bari 2007, Servizio editoriale universitario 2009.
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Clotilde Barbarulli

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