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Le protagoniste della scrittrice, stimata da Verga e Sciascia, sono percorse da un desiderio di movimento e di libertà che si manifesta nei gesti più minimi. Si percepisce come un accenno trattenuto di passo di danza, uno slancio frenato ma persistente e ognuna crede in qualcosa o si prende cura di qualcuno

di Ivana Margarese

Che farci? Ognuno di noi crede di avere diritto alla felicità.
— Maria Messina, Lamore negato

In una lettera a Giovanni Verga, con cui intrattenne un fitto scambio epistolare, Maria Messina scriveva: «Mio padre è nato ad Alimena […]. La famiglia di mia madre era di Prizzi. La mia sicilianità s’è dunque alimentata nelle più profonde radici dell’animo mio: sicilianità di razza, di nascita e di sentimenti, di cui vado orgogliosa»[1].
Nata a Palermo nel marzo del 1887, Messina trascorse l’infanzia a Mistretta, nel cuore dei Nebrodi, dove la famiglia si trasferì quando lei aveva sei anni. Questa esperienza, durata fino al 1909, ha segnato profondamente la sua formazione e lasciato un’impronta duratura sul suo immaginario narrativo.
Nonostante la dichiarata consapevolezza della propria identità isolana, risulta tuttavia riduttivo interpretare la sua opera come mera espressione di un verismo regionale. L’universo narrativo messiniano, pur radicato in contesti sociali definiti, si configura come uno spazio di introspezione e di indagine psicologica, in cui emerge con particolare rilievo la coscienza femminile, osservata nei suoi moti interiori più segreti. La sua scrittura è capace di attraversare l’ombra per restituire, seppure fievole, una luce: quella delle aspirazioni inascoltate, dei desideri caparbi e silenziosi. Le sue protagoniste, spesso destinate a un’esistenza marginale o dolorosa, sono percorse da un sommesso impulso vitale, da un desiderio di movimento e di libertà che si manifesta nei gesti più minimi. Si percepisce quella “resistenza silenziosa” che attraversa tutta la produzione messiniana.
In loro si avverte come un sussurro di movimento, un accenno trattenuto di passo di danza, uno slancio frenato ma persistente. Ognuna di queste figure crede in qualcosa o si prende cura di qualcuno. Scrive Messina: «Chi crede all’utilità del suo lavoro o alle parole di chi l’ama, chi rimpiange la felicità perduta per sua colpa o chi ricorda una cara creatura sparita – ciascuna esce talora dal cerchio della vita, per entrare, sola e non vista, nel piccolo mondo spirituale che custodisce, intatte, le forze più fresche, le aspirazioni più nobili della sua femminilità»[2].
Anche la vita della scrittrice, spesso descritta come appartata e monotona, contraddice in realtà l’immagine stereotipata di una donna stanziale. Visse in Toscana, in Umbria e a Napoli; viaggiò, lesse e scrisse con assiduità[3], costruendo un percorso di vita tutt’altro che immobile.
Ada Negri, nella prefazione alla raccolta Le briciole del destino (Treves, 1918), riconobbe nella sua prosa una capacità di penetrazione psicologica e di osservazione del reale che la distaccava dalla semplice tradizione verista: «Le briciole del destino… Tu hai voluto studiare questi cantucci d’umanità, che sanno di vecchia polvere, di vecchi stracci abbandonati, di vecchie ragnatele, di vecchie lagrime rancide. Tu vi sei riuscita, piccola sorella Maria. Come?… Non so. La tua anima fresca si compiace stranamente degli oscuri meandri ove pullula la povera gente senza risorse, senza fortuna, e, anche, sì, senza coraggio. E l’intuizione, che aiuta il novellatore assai più che l’esperienza, ti conduce talvolta a misteriose profondità». Tale giudizio evidenzia un realismo depurato dall’enfasi naturalistica e orientato verso l’indagine delle dinamiche interiori. In questa prospettiva, il mondo femminile rappresentato da Messina appare come un laboratorio di resistenza morale e psicologica, uno spazio in cui la soggettività tenta di affermarsi entro limiti sociali e affettivi stringenti.
Continuo a riconoscere nella scrittura di Maria Messina il guizzo impercettibile di un passo di danza, come se, chiuse nella loro quotidianità, le sue protagoniste percepissero improvvisamente il richiamo dell’aria libera, il desiderio inappagato di un orizzonte.
Questo tentativo di tenere aperto il futuro quando esso è nella realtà ermeticamente sigillato sembra trovare un’eco nei versi di Variazioni belliche di Amelia Rosselli:«Perché il cielo divinasse la tua ansia di morire / sepolto da una frana di sentimenti, io mi appartai / alla rincorsa d’un nuovo cielo».
Leonardo Sciascia[4], che insieme a Elvira Sellerio contribuì a sottrarre Messina all’oblio, la definì “una Mansfield siciliana”. E in effetti, come la scrittrice neozelandese, Maria Messina possedeva un talento raro nel cogliere i dettagli impercettibili della realtà, quelli che ne determinano segretamente il senso. Giuseppe Antonio Borgese riconobbe in lei uno dei temperamenti “più attraenti della nostra letteratura femminile”, capace di narrare “in tono minore”, attraverso “piccoli gorghi ove silenziosamente scompaiono vite cui manca perfino la forza di gemere”. Le sue protagoniste sono spesso chiamate a tacere, a occultare i propri desideri, ma comprendono molto più di quanto osino mostrare. Come ben suggerisce il titolo del libro di Clotilde Barbarulli e Luciana Brandi, la scrittura di Maria Messina sa dare colore al silenzio, trasformandolo in spazio di espressione e di dignità[5].
Nel racconto Luciuzza[6], la tensione tra perdita e resistenza si condensa nella figura della bambina protagonista, che trova nell’amore per la propria bambola l’unico rifugio possibile dopo la morte della madre: «Prendeva la sua bambola fedele – il padre glie l’aveva riportata una sera, nella cassetta con le robine – la baciava pianino, per non farsi sentire, le sussurrava un mondo di discorsi a fior di labbro. Spesso s’arrestava perplessa domandandosi se San Pietro la lasciava entrare con la bambola in braccio. Le bambole non vanno in Paradiso, non hanno l’anima… Pure, a nasconderla ben bene sotto il grembiulino? Meglio ancora, sotto lo scialletto?.. Poteva domandare alla nonna. Ma Luciuzza non ardiva».
Gravemente malata, Luciuzza compie un ultimo atto di cura: ruba un ritaglio di broccato per vestire la bambola, nella speranza di poterla portare con sé in Paradiso: «Ci doveva andare con la bambola vestita di broccato. Così San Pietro, vedendola tanto ben vestita, l’avrebbe fatta entrare…».
Quell’unico legame, Luciuzza non lo avrebbe spezzato.
In questo gesto si condensa la poetica messiniana, la continuità del sentimento nonostante la perdita, la sopravvivenza del legame nell’assenza, la capacità dell’immaginazione di redimere la realtà e di restituire dignità al silenzio e alla fragilità, trasformandoli in luoghi di resistenza umana e poetica.

[1] Lettera datata 13 luglio 1914 contenuta in G. Garra Agosta, Un idillio letterario inedito verghiano. (Lettere inedite di Maria Messina a Giovanni Verga), Introduzione di C. Greco Lanza, Catania, Greco, 1979, p. 50.

[2] Maria Messina, Congedo (1920).

[3] Cifr. Serena Todesco, Tracce a margine. Scritture a firma femminile nella narrativa storica siciliana contemporanea, Gioiosa Marea 2016.

[4] L. Sciascia, Nota, in M. Messina, Casa paterna, Palermo 1992.

[5] Clotilde Barbarulli e Luciana Brandi, I colori del silenzio.  Strategienarrative e linguistiche in Maria  Messina (Tufani Editrice,1996).

[6] Concetta Greco Lanza paragonò la novella Luciuzza (apparso sulla “Nuova Antologia” nel 1914) ad alcune pagine di Grazia Deledda e Matilde Serao, e sottolineò la prossimità tra la tragica filosofia «non priva di risvolti grotteschi» di alcune novelle di Messina, e l’ironia di certe maschere pirandelliane.

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Ivana Margarese

Ivana Margarese, direttrice editoriale della rivista “Morel, voci dall’isola”, insegna filosofia e scienze umane. Ha conseguito un dottorato e un postdoc in Studi culturali e di genere sui temi del cinema documentario ed è stata docente a contratto di Teoria della letteratura all’Università degli Studi di Palermo. Ha curato “Ti racconto una cosa di me” (Edizioni di passaggio 2012), “I miti allo specchio” ( Mimesis 2022) e “Tra amiche” (Les Flaneurs, 2023). Ha pubblicato racconti in antologie.
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