Grazie a Maria Occhipinti e alle femministe decoloniali come bell hooks sappiamo dare peso alla parola “privilegio” nel confronto con donne di altre culture, altre estrazioni sociali e lingue con cui pure ci sentiamo solidali. Il laboratorio Guarire. La ferita, la pelle, lo spazio, le pratiche (11- 12 giugno, Palermo, Ecomuseo del Mare Memoria Viva)
Di Elvira Federici
Una sorta di disagio, una sottile dissonanza cognitiva ed emotiva si prova ogni volta che ci sporgiamo oltre il nostro universo linguistico e ci affacciamo anche con i nostri corpi su contesti e spazi non abituali. Un salutare disorientamento di cui abbiamo bisogno perché – nonostante il sincero desiderio di apertura, il bisogno di altre istanze e sguardi, di ricerca incessante dentro quel differimento che permette di cogliere altro della realtà – siamo dentro una bolla, dentro un orizzonte di significati che si costituiscono in forma argomentativa, spesso precostituita. Ci avviciniamo o entriamo reciprocamente anche in feroci conflitti ma sempre su un piano discorsivo. Non si tratta di una dicotomia corpo/linguaggio, materia/discorso, processo inestricabile che proprio il femminismo ha contribuito a rendere visibile; si tratta di smascherare le abitudini consolidate, la condizione, la posizione, lo status, il luogo da cui prendiamo quella parola.
L’intersezionalità è in grado di farsi carico di quell’intreccio di differenze materiali e simboliche su cui inciampa invece un’inconsapevole, per quanto rigettata, postura coloniale. Questa, non è un mistero, è sempre più contestata dalle pratiche transfemministe e decoloniali che, appunto, sono pratiche: accadono in contesti non ripetibili e difformi dalle nostre comfort zone: non-salotti, non-seminari, non-convegni, non-accademia. Maria Occhipinti già lo segnalava scandalosamente, nell’approccio con le femministe romane, intellettuali culturalmente e socialmente “privilegiate”.
Il nostro femminismo ha imparato, grazie a donne come lei o alle femministe decoloniali (una per tutte: bell hooks) a dare peso alla parola “privilegio”, a soppesarne la portata nelle nostre vite e nel confronto con le vite di donne di altre culture, altre estrazioni sociali, altre lingue e abitudini, a cui pure ci sentiamo attratte e solidali.
Mi riferisco in questo caso, alle donne di Costa Sud, che abitano intorno ad un’area ferita della città, una costa lunga 27 chilometri devastata dallo sversamento di detriti, e lasciata all’incuria. Un territorio vissuto in continuità con le storie personali di ciascuna; storie che si misurano con le inquietudini del presente, con la precarietà lavorativa dei figli adulti, la faticosa quotidianità di fronte ai bisogni familiari, l’incrudelirsi del rapporto con gli spazi sociali e con la città. Donne cui manca il tempo da dedicare a letture, dibattiti, a conversazioni che esulano dall’ambito familiare, e che pure si sono messe in gioco in un laboratorio, durato alcuni mesi, condotto da Gisella Modica, con la danzatrice e performer Emilia Guarino, che ha avuto per tema la guarigione: che significa guarire? Che ce ne facciamo delle ferite sul corpo, quelle visibili e quelle dell’anima? Che ruolo ha il luogo?
Donne che proprio a partire dai luoghi la cui ferita ci implica, incidendo sui nostri stessi corpi, hanno immaginato processi di guarigione: con il respiro, con le mani, con la danza e il movimento; ma anche con la propria parola, spesso in lingua materna, accanto e a commento delle parole di pensatrici e scrittrici come bell hooks, Gloria Anzaldua, Chandra Candiani, Antonietta Potente, Anna Maria Ortese.
Il laboratorio si costruisce su una dislocazione di tutte le partecipanti rispetto a ciò che è per loro abitudinario, a partire dal proprio posizionamento, dall’avere sempre presente il luogo da cui si prende la parola. Una parola che sia incarnata, articolata, efficace, profonda, scaturita dall’esperienza di ciascuna. Che non sia un enunciato di maniera, ma una pratica politica di verità.
L’esercizio di dislocarsi comincia dalla parola stessa: non metterla al primo posto, come unico tramite del confronto e della relazione, ma lasciarla “indietro” – o meglio lasciar parlare altro, corpo, movimento, sensi, emozioni, visioni, le immagini del video di Giacomo Ceste – con l’esito paradossale di far emergere parti più profonde del sé, mentre resta sullo sfondo la petulanza logocentrata dell’io.
Nella prospettiva radicalmente ecologica del seminario, voci, esperienze e storie di donne di ogni età, cultura, appartenenza, e vita dei luoghi – quartieri, fiumare, edifici, rive marine – si intrecciano per riuscire a toccare una stessa ferita; per fare esperienza, a partire dai luoghi violati, di una guarigione possibile.
Così, si comincia dalla pelle, membrana che permette il passaggio tra dentro e fuori, dal respiro, dal silenzio, dal contatto, si continua con la danza ad occhi chiusi. Poi si porta l’esperienza vissuta sulla riva del mare: si cercano le tracce della ferita, della crepa, non si distoglie lo sguardo, ma si prende in carico lo stato delle cose, proprio come sono: relitti, spazzatura, detriti, insieme alle fioriture che crescono ostinate nella calura, e che si appropriano del posto incuranti del degrado. Raccolti insieme, resti e fioriture, andranno a creare degli “altari”, ciascuna/o il proprio, fatto di racconti di storie e di memorie personali.
L’azione che conclude la ricerca e il percorso è troppo bella e forte nel ribaltamento che ci propone, nella visione che a ciascuna/o spalanca – da quel momento la poesia prende forma in un salto di livello logico ed estetico – che voglio lasciarla dentro al silenzio in cui è nata.
Possiamo provare non a riviverla ma a trasformarla nelle parole quotidiane che alcune delle donne presenti hanno suggerito, come se la vita potesse combaciare, talvolta, con il desiderio e il corpo accoccolarsi nel pensiero.

Elvira Federici

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