La protagonista di “Quello era un posto” ha una sorta di coro alle spalle che spiega a tutti che adesso che è madre deve cambiare. Ma lei sa di essere una persona intera, vera, reale, a cui qualcuno ha messo in braccio due bambine, bellissime e amate, e ha detto che da quel giorno le bambine l’avrebbero identificata per sempre. Intervista all’autrice Sonia Laezza
Di Silvia Suriano
Tutto nasce dal mio desiderio subitaneo di conoscere l’autrice di Quello era un posto, Sonia Laezza, che mi ha fatto sentire una sintonia rara – non per un’affinità che quasi mai la maternità regala – per l’ampiezza dello sguardo, del respiro e dell’animo umano. Il dialogo con lei ha ridato linfa al desiderio di stare di nuovo e sempre in quello spazio che chiamiamo infanzia e in quel luogo estremo che chiamiamo maternità.
Quello era un posto mi è arrivato nella sua verità, nel suo non essere un esercizio di stile atto a compensare le stereotipate e scontate frustrazioni della maternità, ma un racconto autentico di tutte quelle pulsazioni intensissime che ti attraversano quando diventi madre e la tua vita è irreversibilmente altro da prima.
Ho ritrovato la me di qualche anno fa, e ho tirato anche un sospiro di sollievo nel prender consapevolezza della distanza dall’affanno di quando i bimbi sono solo accudimento (sono davvero mai solo accudimento?), e mi son chiesta se ci sono degli universali o se ogni racconto è unico.
Questa è la sua storia?
È sempre nuovo e diverso raccontare un racconto e io ne sono, sempre, felice. Grazie per aver usato la parola “verità”. Un libro che arriva nella sua verità è una storia che arriva nella sua verità.
Parto da questa considerazione per rispondere e prendo a prestito una frase di Andrea Bajani che vorrei tanto aver scritto io: un romanzo deve dire il vero e non il reale. E allora, la verità che arriva è sì la mia verità, la verità della mia storia e della storia di tutte le vite da cui ho saccheggiato qualcosa per raccontare. In ogni punto della storia di Valentina, la protagonista, c’è la verità di Sonia ma in misura diversa. È la mia storia a intensità alternata.
Ho la sensazione, dopo un decennio di letture a tema maternità, di avvertire ultimamente odore di marketing e moda: un argomento ignorato (se non per narrazioni classiche, di madre in postura oblativa e tutta casa e figli salvo eccezioni rare) diventa battuto. Insomma della maternità (non come desiderio ma come pratica e quotidianità) ne parlano tutti e tutte. Per certi versi si è sempre fatto nelle cucine abitate da donne che ricamavano, cucinavano, badavano a casa terra famiglia, ma oggi rispetto a un ventaglio di esistenze molto più plurali e libere mi stona qualcosa. E cioè una pratica conseguente che manca a tante affermazioni politicamente corrette.
Torno al suo libro però, che invece è intonato, sia quando la madre è solista sia quando c’è un coro di altre figure che fanno da contro canto. Che madre è Valentina?
Parlare di maternità è scivoloso. Il livello di rischio è altissimo, ci sono i detrattori del tema, giustamente dato l’abuso, ci sono i custodi della sacertà del ruolo di madre, ci sono gli ironici a ogni costo, che forse sono quelli che, personalmente, disturbano di più. La maternità contemporanea è travestita da una delle declinazioni possibili che ogni donna può, consapevolmente e liberamente, intestarsi ma in fondo parlare di maternità in modo dissonante oltre a essere rischioso o disturbante è ancora un tabù e i tabù non si sfidano, sono una proibizione che va ben oltre il divieto. Ma la maternità è, necessariamente, dissonante.
Valentina è solista, come diceva lei, ma ha il coro alle spalle, che ricorda e spiega a lei e a tutti gli altri che adesso che è madre deve cambiare. Valentina è una madre che sa di essere una persona, intera, vera, reale, una persona a cui un giorno qualcuno ha messo in braccio due bambine, bellissime e amate, e ha detto senza dire – perché il tabù non si dice – che da quel giorno quelle due bambine l’avrebbero identificata per sempre. La parte per il tutto. Valentina si ritrova a essere la sineddoche di se stessa, è la madre di Carlotta e Beatrice e della persona ci si può dimenticare. Ecco la dissonanza. La persona che vuole restare tale anche da madre, ma che non si sottrae al fatto, vero e reale, di essere madre. Valentina non vuole travestimenti, non vuole scegliere come declinarsi, vuole o almeno vorrebbe restare se stessa solo che la se stessa che vede nello specchio non la riconosce più. Per conoscersi di nuovo parte dalla condizione che accomuna ci tutti, che non è quella di genitori ma quella di figli. Parte dalla figlia che è stata, che è. Parte da suo padre e allora ci si può chiedere: che figlia è Valentina?
Ho letto di recente un articolo intitolato “La follie maternelle: un paradoxe?” di Dominique Guyomard, un’allieva di Françoise Dolto, che esprime un pensiero chiaro: il legame fortissimo che si crea coi figli fin dalla gravidanza ha bisogno di un suo svezzamento psichico sano per entrambi, ma ha anche bisogno di riconoscere nelle pulsioni materne una cifra di normalità. Insomma non bisognerebbe parlare solo di madri sufficientemente buone ma anche di madri sufficientemente folli.
L’articolo mi ha rimandato al suo libro, che parla in modo originale anche di salute mentale delle madri, di tutto quel groviglio di pensieri aspettative limitazioni, a tratti impenetrabile in cui una donna si ritrova dopo la nascita di un/una bambino/a. La protagonista si rivolge ad uno psicanalista. Gli appuntamenti settimanali scandiscono il racconto. Cosa porta una madre a chiedersi se quella nuova condizione stia passando il segno della patologia? Nella testa delle madri abitano pensieri inimmaginabili: fughe sparizioni gesti inconsulti. Chi è il Lupo?
Mi piace molto l’immagine della madre sufficientemente folle. È nella follia che sta il divino, nel mondo classico, è nella follia che sta il sacro. Le madri partecipano della natura del sacro e del divino per questa cosa impressionante che fanno di mettere nel mondo creature altre da sé. Poi se sono sufficientemente buono lasceranno per il mondo creature in grado di essere se stesse.
La salute mentale è, forse, il vero tema del libro. La recente maternità della protagonista indica il momento in cui la presa di consapevolezza sul proprio stato di salute mentale avviene ma non la causa. Valentina lo dichiara apertamente, nel corso di una seduta: post partum indica il momento e non la causa della depressione. Le cause stanno tutte dentro la persona, non dentro la madre, perché altrimenti se quella persona non fosse mai diventata (non avesse mai scelto di declinarsi) madre allora non avrebbe sperimentato il groviglio di pensieri? Io non lo credo, se qualcosa abita dentro una persona verrà il momento in cui si paleserà. Le madri accadono, dice Valentina, a conclusione del percorso con lo psicanalista. Le persone accadono. Dentro le persone accadono pensieri immaginabili ma non raccontabili, fughe e sparizioni in nuce e gesti inconsulti come scenario immaginifico. Il segno della patologia, se tracciato, non è riconoscibile da soli. Valentina si rivolge allo psicoterapeuta perché deve dire l’indicibile, cioè quello che le madri non dicono. Forse se il segno c’è è questo, lo scarto tra il detto e il non detto, quando una madre dice tutto trema, tutto può crollare.
Il Lupo è il non detto quando viene detto. È la depressione, quella che Churchill chiamava il cane nero, per Valentina è il Lupo, è una parte antica di sé, per risalire alla sua origine bisogna tornare molto indietro e non si è certi della datazione. Il Lupo ha un suo nome proprio per indentificarlo come altro da sé, per poterne prendere le distanze, perché sia soggetto a cui intestare responsabilità proprie. Il Lupo è una bestia che non impedisce a chi ne è abitato di alzarsi ogni mattina e vivere nel mondo “come se”. Ecco che, allora, visti da fuori è tutto normale.
Tra i vari temi che mi hanno toccata nel suo libro, c’è quello di una solitudine che sembra irrimediabile, anche se hai una famiglia presente e un marito intelligente e sensibile al fianco. Avvicinandomi al femminismo tanti anni fa ho trovato corrispondenza nell’espressione “femminismo come contrario della solitudine”. Ahimè la maternità ha poi mandato in frantumi – almeno parzialmente – questa bella descrizione. Non voglio generalizzare, ma in parte a me è andata così, che resto comunque convintamente femminista.
Il coro alle spalle di Valentina è attento a lei ma sembra impossibile raggiungerla. A volte – penso al nonno – c’è un’invadenza non richiesta, un’ingerenza quasi fastidiosa, altre volte il marito sembra abitare uno spazio genitoriale – in cui sono concessi stacchi e uscite – che non può che renderlo più superficiale. Valentina abita un margine in cui si sente sola? Sbaglio o solo la sua migliore amica ne comprende la condizione?
Parto dal fondo. Valentina non può fare altro che andare in psicanalisi, perché non ha il tempo di rinviare, di cercare altre vie, di chiedersi se esistano. Lo dice in modo limpido, è bloccata in ascensore e deve fare qualcosa. La psicanalisi è la via per comprendere. Poi, se lei mi chiede se ci sono altre vie, allora io le dice di sì, possono esserci ma solo dopo aver compreso, solo dopo aver imparato la grammatica delle emozioni.
Nell’ascensore Valentina è sola. È sola nella stanza dello psicanalista. È sola in mezzo alle altre madri nel corridoio dell’asilo o ad una festicciola di bambini in mezzo alle (altre) madri. È sola ogni volta che il suo coro interagisce con lei o per lei. Ma è la solitudine dell’incomprensione. È la solitudine che si può provare quando si è stranieri in un luogo in cui tutti parlano la stessa lingua ma tu no. Non è sola durante le telefonate con Laura, la sua migliore amica, perché c’è comprensione, c’è la stessa lingua a unire e la stessa qualità del silenzio ad avvicinare. Laura e Valentina sono la stessa donna da diversi punti di osservazione come la mano è la stessa, che la si guardi dal palmo o dal dorso.
Ho voluto un coro prevalentemente maschile, non ho ragionato della poca solidarietà femminile (che per prima ho esperito) ma desideravo descrivere uomini diversi tra loro, padri nuovi e datati, padri in fieri, non padri, per raccontare l’amore che gli uomini sanno dare, come lo sanno dare, per dire attraverso di loro che gli uomini hanno un privilegio inconsapevole e cioè quello di poter restare fedeli a se stessi. Nessuno, ancora oggi, va a chiedere a un uomo se intende declinarsi nella paternità o che tipo di padre pensa di essere. Eppure gli uomini diventano padri come le donne diventano madri, ma agli uomini è fatto dono di preservare la persona, non diventano sineddoche. Volevo un coro di uomini con nomi, profili, descrizioni da contrapporre alle madri, la sola madre di cui si sa davvero qualcosa è Valentina, le altre sono uno sfondo, sagome con capelli lunghi e gonne triangolari a indicare la toilette riservata alle signore. Volevo raccontare la differenza, non accusarla né celebrarla. Non sento di essermi schierata. Gli uomini nella vita di Valentina la amano e sono da lei amati, ciascuno come può e ciascuno per come è.
È forse questa la via d’uscita accettabile, lasciare che le persone accadano e amarle di conseguenza.
Qualche giorno fa una persona che stimo molto ha affermato che bisogna insegnare ai ragazzi che c’è una strada per la felicità e che sta nel provare a dare sempre un senso a ciò che facciamo. Ho pensato alla lettera che compare alla fine del suo libro – e che non rivelo – che a me ha restituito molto senso sia rispetto al bisogno di questo libro sia rispetto all’esperienza della maternità. La maternità espone alla paura più grande che si possa vivere e cioè di interrompere il viaggio al fianco dei propri figli. Se fatico a trovare un senso e la possibilità di felicità da parte di un genitore che perde un figlio (per cui la nostra lingua non possiede neanche una parola specifica), le chiedo se e come si può ricomporre un senso (di felicità o solo un senso) in assenza di un genitore che scompare quando si è ancora piccoli?
Quella lettera è indirizzata inizialmente a due bambine, il linguaggio è quello che si usa con i bambini e poi cambia. Diventa un linguaggio adulto, quello che si userebbe per due donne. Ma non cambia indirizzo, l’indirizzo è sempre quello delle due bambine, solo diventate (prima o poi) adulte. È un testamento di conforto per un momento, il primo, in cui una madre non potrà consolare dal dolore dell’interruzione del viaggio insieme.
Si dice che lasciare un figlio sia l’ordine naturale delle cose e forse lo è davvero. Penso che ogni genitore sia abitato dal terrore di lasciare i figli in un momento della vita in cui non sono ancora in grado di provvedere a se stessi. Ma la verità, la mia verità, è che un figlio sarà sempre fragile davanti alla cesura di questo viaggio, davanti alla geografia del mondo che cambia completamente in assenza del genitore.
Ho la ricchezza di essere una donna adulta con i genitori viventi. Fa sorridere, ormai, quando nel corso di una visita medica nel fare la mia anamnesi mi chiedono di barrare la casella genitori viventi o meno. La prima volta non ho capito, ho dovuto rileggere la domanda. Eppure nessuno si intenerirebbe per me se non avessi più i miei genitori. Perdere, forse, anche la definizione di “orfana”. Di un adulto si dice che resta orfano? Si pensa che resta orfano?
Quando è morto mio nonno avevo quasi 18 anni, mio padre quasi 43. Lui quasi 76. Quasi. Mio padre era disperato, lo guardavo piangere e pensavo “Dio, piange come un bambino”.
Era un orfano, sì, possiamo dire orfano perché era il bambino che piangeva, non l’adulto. Era andato via per sempre il suo papà, il papà di un bambino e non il padre del padre. Piangeva il bambino che aveva terminato il tempo e non sapeva se, alla fine, lo aveva sprecato perché a questo i bambini non pensano mai, solo quando gli dici che è finito, basta, che bisogna proprio andare via. Era un orfano ed era un figlio unico, poco importavano le lacrime di sua sorella accanto a lui, sua sorella era una bambina orfana e figlia unica perché i genitori non sono mai in condivisione.
Perdere un genitore quando si è piccoli ci espone all’assenza per sempre, il tempo è finito e non è mai stato nemmeno davvero impiegato, non ci si può nemmeno chiedere se sia stato sprecato. Non esiste spreco perché non esiste impiego. Esiste l’assenza che non può essere colmata ma può essere vissuta. Penso a “La vita che ti diedi” di Pirandello a personaggi invertiti quando penso a vivere l’assenza. Restituire vita agli assenti potrebbe essere il senso, la direzione. E quando si restituisce, alla fine poi si è felici.
La lettera si conclude, di nuovo, con un tono per bambine e con l’uso di parole che loro conoscono, la formula magica, apriti sesamo, per tornare sempre bambini amati, amatissimi. E quando si è stati bambini amati, amatissimi, alla fine poi si è felici.
Sonia Laezza, Quello era un posto, Morellini 2025
Silvia Suriano
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