Storia vera del gruppo di pedagogiste e psicanaliste che fecero rinascere 25 bambine e bambini scampati ai Lager nazisti. Con la supervisione di Anna Freud, la direttrice della casa, Alice Goldberger, e le altre misero in campo una capacità unica di accudimento. Titti Marrone lo racconta nel suo libro “Se solo il mio cuore fosse pietra” e ne parla con LM
Di Silvia Suriano
Qualche tempo fa la mia quinta liceo ha incontrato la giornalista e scrittrice Titti Marrone in virtù della pratica “Incontro con l’autrice” e della lettura del suo “Se solo il mio cuore fosse pietra”. Marrone ha dialogato con ragazze e ragazzi sul suo libro ma è stata soprattutto in ascolto e al contempo curiosa dei loro punti di vista. Da lì il desiderio di ri-cercarla per parlare in modo più approfondito di alcuni passaggi della storia del Novecento, dei suoi libri, del nostro tempo attuale.
Titti Marrone è autrice anche di “Meglio non sapere” (Laterza, 2003) che per primo la condusse a indagare le vicende di alcuni bambini deportati ad Auschwitz.
Da dove nascono “Meglio non sapere” e “Se solo il mio cuore fosse pietra”? Ci racconta l’origine di due libri tanto necessari in quanto moltissimi non avevano mai incontrato queste storie?
Tutto cominciò dopo l’incontro con Mario De Simone, fratello di Sergio, il piccolo ebreo napoletano ucciso dopo esperimenti in cui venne usato come cavia. Dopo cinquant’anni, Mario, nato nel dopoguerra, venne a conoscenza del modo in cui era stato ammazzato Sergio e dei particolari sul medico che lo aveva torturato con altri 19 bambini. In verità, prima nemmeno sapeva che fosse morto: era stato allevato da sua madre Gisella nella certezza di avere un fratello disperso da qualche parte in Europa, e che un giorno o l’altro sarebbe tornato come avevano fatto le due cugine, Tatiana e Andra. Mario mi venne a trovare al giornale dove lavoravo e mi raccontò la storia della famiglia Perlow-Bucci-De Simone. Mi mise in contatto con Tatiana e Andra. Io andai ad incontrarle: non avevano mai parlato prima della loro deportazione ad Auschwitz né sulle prime sembravano ricordare. Poi, gradualmente, come se un grumo si fosse sciolto, presero a raccontare. Però partirono dalla parte bella della storia: parlarono di Lingfield, come per prendere coraggio prima di arrivare a dire di Auschwitz. Entrambi i miei libri, “Meglio non sapere” (che uscirà in settembre in nuova edizione da Feltrinelli) e “Se solo il mio cuore fosse pietra” nascono da lì.
La storia di Lingfield è la storia di un luogo dove alcune donne eccezionali si sono prodigate per prendersi cura delle ferite – del corpo e della mente – di bambini rimasti soli nella e dopo l’esperienza concentrazionaria (includendo anche coloro che sono rimasti nascosti per anni per sfuggire alla persecuzione nazista). Che cosa hanno espresso queste donne? Quali capacità e cosa sono state in grado di mettere in gioco di sé stesse?
Si trattò di un nucleo straordinario di psicoanaliste, pedagogiste, educatrici che si trovò ad avere a che fare con l’umanità più vulnerata e traumatizzata che si potesse immaginare. Venticinque bambini venuti dai lager e a volte addirittura nati lì, o rinchiusi per mesi e a volte anni in cantine e soffitte, o nascosti negli orfanotrofi oppure nei conventi. Avevano tre, quattro, cinque, otto, dieci anni, solo una ne aveva quindici. Ciascuno era portatore di un trauma diverso ed era difficile stabilire quale fosse più grave. Con la supervisione di Anna Freud che le seguiva a distanza, presente in virtù del suo rapporto strettissimo con Alice Goldberger, la direttrice della casa, hanno messo in campo una capacità di accudimento assai complessa, spesso improvvisando, sbagliando nella relazione con i bambini, tornando indietro e correggendo gli errori. Li nutrono, li sfamano, insegnano loro a giocare – molti non conoscevano i giocattoli – e a mangiare – altri non avevano mai deglutito cibi diversi dalla brodaglia del campo – e affrontano i loro traumi. Non esisteva ancora, all’epoca, la psicoanalisi infantile codificata come disciplina complessa, e credo che proprio Lingfield abbia fornito ad Anna Freud, in questo senso, un campo di osservazione ed un deposito di esperienze preziosissimo: si evince dalle sue opere. Ma soprattutto le donne di Lingfield, e Alice più di ogni altra, mettono in campo la capacità di tenere ben saldo il senso dell’umano, unico antidoto per fronteggiare la barbarie che ha devastato le vite dei bambini.
L’assenza fisica e psicologica delle figure genitoriali ed in particolare delle madri sembra non cancellare del tutto il bisogno di un nucleo familiare da parte di questi bimbi e bimbe. È possibile affermare che creano una sorta di famiglia di coetanei, tra pari? Penso in particolar modo ai sei piccolini “detti del cucchiaio” (bimbi sotto i sei anni del Campo di Terezin e che non si separavano mai dal proprio cucchiaio) ma anche ad un incontro recente tra una mia classe e Sami Modiano in cui lui parlando dell’amico Piero Terracina conosciuto ad Auschwitz e mai più abbandonato ha detto: “Avevamo entrambi tredici anni, ci siamo riconosciuti, eravamo rimasti soli e ci siamo adottati come fratelli”.
Ci sono alcuni bambini che in vario modo riescono a costruire, nel cerchio di rapporti nati nel lager, una rete affettiva fondamentale. Lo fanno quelli che, come Zdenka, identificano in una delle assistenti di Alice una sorta di figura materna sostitutiva: nel suo caso sarà Edith. Lo fa Julius, il bambino che ad Auschwitz si prende cura di Tatiana, Andra e delle altre due sorelline Esther e Shana. Lo fa a sei anni la stessa Tatiana, cui la madre non aveva esplicitamente affidato la sorella Andra di quattro, che pure sviluppa un’attitudine protettiva verso di lei. Lo fanno, l’uno con l’altro, i sei “bambini del cucchiaio”: sono sei, almeno quattro di loro non hanno mai conosciuto i genitori né sanno che cosa sia una carezza materna o paterna. Eppure loro si danno conforto a vicenda, si uniscono in una sorta di monade, si muovono come un unico bambino, sopperendo al bisogno primario di affetto. Sì, è proprio vero quello che dice Sami Modiano, ed è ancora più vero nel caso di bambini di tre, quattro anni. Il che rinvia ancora una volta all’importanza dell’accudimento, anche come dinamica di reciprocità.
Lei si è occupata a lungo della storia delle sorelle Andra e Tatiana Bucci e del loro cugino Sergio De Simone, una storia sconvolgente, in cui le madri scompaiono e ricompaiono. I tre cuginetti si separano quando Sergio cade nel tranello delle SS: “Chi vuole rivedere la propria mamma faccia un passo avanti”. L’istinto più naturale per un bambino lo trasforma in una cavia prima e in una vittima poi. Lascia un grande senso di tristezza anche il momento in cui Andra e Tatiana arrivano in Italia e alla stazione non riconoscono la madre Mira, che inizialmente tengono a distanza. E infine c’è Gisella, madre di Sergio, che dopo molti anni scopre la terribile fine toccata al figlio ma non la racconta. È impossibile leggere questi rapporti sottoposti a strappi, torture e sofferenze senza chiedersi come sia stato possibile per queste persone andare avanti. E le chiedo perché secondo lei Gisella non ha mai raccontato a nessuno la storia di Sergio? Non voleva che quel peso, quella storia di morte gravasse sulla vita del secondo figlio nato dopo il 1945? Oppure una madre non ha le parole per giustificare il suo essere viva di fronte alla morte del figlio?
Nei miei due libri le madri sono molto presenti, come del resto il tema stesso della maternità. E ad esempio ci sono due madri che affrontano l’impossibile per salvare i figli – una arriva perfino a sposare un ufficiale delle SS – e quando potrebbero infine recuperarli, vivere con loro, li rifiutano. Una addirittura lo fa e poi gli nega l’autorizzazione a essere adottato. Io cerco di non avere mai un atteggiamento giudicante, nel narrare le loro storie, che sono vere come tutto il resto. E sono, in ciò, totalmente d’accordo con il grande scrittore polacco Gustaw Herling che, a proposito della sua esperienza da ventenne nel gulag staliniano raccontata nel capolavoro “Un mondo a parte”, diceva: non ci si può arrogare il diritto di esprimere giudizi su persone che si siano trovate a vivere in situazioni che sono fuori dall’umano.
Certo viene da chiedersi come si possa andare avanti, dopo aver conosciuto l’orrore estremo e averlo visto accanirsi sui propri figli. Io mi rispondo dicendomi che la vita, finché c’è, è più forte di qualsiasi cosa così come lo è la speranza di poter ricominciare. In Gisella funziona in modo impressionante un altro elemento: l’impossibilità di accettare l’idea che il figlio Sergio sia morto, che diventa in qualche modo la sua sfida alla morte stessa. Non solo lei non parla con nessuno quando torna da Amburgo dov’era stata invitata prima di Mario, perché si costituisse parte civile contro i responsabili della strage di Bullenhuserdamm. Non solo non lo racconta al figlio (il marito è ormai morto). Gisella non accoglie mai quell’idea neanche in sé stessa, la sua mente la espunge. “È un bambino così bello, nessuno può pensare di fargli male. Qualcuno lo avrà preso per crescerlo come figlio”. In questo modo, nella sua mente lei lo salva, perfino “cedendolo” ad altri, rinunciando al proprio statuto di madre pur di poterlo immaginare vivo. E intanto lo continua a cercare fino alla propria morte, con centinaia di lettere inviate alla Croce Rossa, ai comitati per la ricerca dei sopravvissuti, ministeri degli esteri di tutta Europa.
Dopo esserci incontrate ho letto “Le madri salvate” di Colombe Schneck. È la storia di un segreto familiare che viene svelato dopo decenni. L’autrice racconta delle due zie materne Masa e Raya, sopravvissute al ghetto di Kaunas in Lituania e alla deportazione successiva, mentre i rispettivi bimbi Salomé e Kalman no, e scopre che ciò è avvenuto perché la nonna materna di fronte alla rampa della morte aveva sottratto i nipoti alle figlie per consentire a queste ultime di vivere. La storia è straziante e l’autrice afferma che questa scelta ha consentito a Raya e Masa di rinnovare il proprio senso della vita, più del resto della famiglia costretto a fare i conti ininterrottamente con i morti e la Shoah. È possibile tornare a un’esistenza degna di essere vissuta per chi ha vissuto tutto ciò? È legittimo desiderarlo?
Sì, la mia risposta è sì a entrambe le domande. Anche se il ritorno a un’esistenza, se non felice, almeno piena, è difficilissimo e diverso per ciascuno. Per Tatiana e Andra, come per buona parte dei sopravvissuti inclusa Liliana Segre, è stato possibile anche in virtù della “pausa alla memoria” che hanno sentito il bisogno di attuare per anni: tutte e tre hanno parlato del proprio passato solo a molti anni di distanza. Per alcune persone, come per le bambine Esther e Shana che sono poi quelle ritratte nella copertina del mio libro, andare avanti si può a condizione di rimuovere il passato cancellando i numeri tatuati nel campo: è una scelta che non pochi hanno fatto. Ciascuno ha il proprio percorso e soprattutto, lo ripeto, noi non ci possiamo arrogare il diritto di esprimere giudizi su persone che si siano trovate a vivere in situazioni che sono fuori dall’umano.
La Storia porta dentro di sé ogni evento. La storia spesso sembra ripetersi e la guerra ne è una costante. So che grazie a un’associazione creata con alcuni suoi amici napoletani si è occupata anche di accoglienza di famiglie ucraine fuggite dalla guerra in corso. Com’è questa esperienza di volontariato? Ha sentito riecheggiare alcune parole e sensazioni incontrate nella stesura dei suoi libri?
A Napoli sono tra i soci fondatori di una libreria indipendente, animata da noi volontari, che si chiama Iocisto. Abbiamo molte attività anche nel sociale, oltre alle vendite di libri. Tra le altre, abbiamo istituito un legame con il centro di accoglienza per migranti Marechiaro, che ci ha segnalato una loro urgenza: mettere alcuni bambini tra i 6 e gli 8 anni appena arrivati dall’Ucraina in condizione di imparare almeno un po’ d’italiano per poter andare a scuola. Ed è stato molto bello vedere con quanta dedizione i soci si siano impegnati in questo. Tra loro, coordinati dalla vulcanica Annamaria Auriemma, c’è anche Mario De Simone, il fratello del piccolo Sergio. Guardando quei bambini, mi rendo conto di quante analogie ci siano, in tutti i tempi, tra tutti i bambini portatori di traumi in seguito a guerre, deportazioni, allontanamenti forzati dal proprio Paese e dalla propria vita. E sento, eccome, riecheggiare condizioni e sentimenti analoghi a quelli provati e vissuti dai “miei” venticinque bambini. Per cui a volte penso: la Shoah costituisce, sì, un unicum nella storia della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, e bisogna stare attenti nello stabilire paragoni che ne snaturino la sostanza di rappresentazione estrema del male. Però oggi è forse più utile riconsiderarne un altro aspetto. È forse venuto anche il momento di leggere quell’orrore come se fosse una lente da sovrapporre alla contemporaneità, dove vediamo emergere, ad esempio nel conflitto russo-ucraino, analogie inquietanti. A questo dovrebbe servire raccontare e proporre nelle scuole storie come quelle dei miei due libri.
Chiudo con un altro aspetto che mi sta molto a cuore e le chiedo: cosa impara dagli incontri nelle scuole? Spesso tra cultura e giovanissimi, ma anche tra politica (nel senso filosofico e nobile del termine) e giovanissimi c’è una distanza importante. Chi è giovane nel nostro paese non viene guardato, non viene ascoltato e quindi non viene spesso rappresentato. Io vedo che le classi raccolgono un grande stimolo da questi incontri e vorrei si presentassero sempre più occasioni di dialettica intergenerazionale e autenticamente reciproca, in cui anche a loro viene riconosciuta la capacità di raccontarsi e di insegnarci ciò che a loro importa.
Faccio molti incontri nelle scuole di ogni ordine e grado, con studenti preparati da insegnanti che trovo eccezionali, e sempre ne ricavo sensazioni fortissime. Ma a questa domanda vorrei rispondere riportando una lettera bellissima scritta da una studentessa del primo anno di un liceo di Pomigliano D’Arco. Si chiama Claudia Tortora, ha quindici anni, papà napoletano e mamma ucraina.
Ecco la lettera di Claudia Tortora.
Ciao Sergio,
Ti scrivo questa lettera per dirti di come la storia non abbia influito sul nostro presente e di come le persone non hanno imparato niente dal passato.
Infatti proprio in questo momento il mio cuore è diviso in due parti, una parte è serena, tranquilla, spensierata e si trova qui in Italia mentre l’altra parte è preoccupata, agitata, malinconica ma speranzosa e si trova in Ucraina dove tantissimi bambini non vivono un’infanzia felice e serena come d’altronde non l’hai vissuta tu.
In Ucraina, dopo quasi un anno di guerra molti bambini non ce l’hanno fatta a sopravvivere ed anche i loro genitori.
I ragazzi della mia età sono stati strappati via dalle loro famiglie per combattere contro il loro grande nemico: la guerra. Giovani vite col futuro offuscato cercano di aggrapparsi ad uno spiraglio di vita.
Ricordo le estati passate in Ucraina, il verde delle campagne ormai tramutato in un paesaggio distrutto, grigio, anniento dall’egoismo e dal cinismo della guerra.
I visi delle persone ormai non hanno più luce, hanno gli occhi spenti, assuefatti al dolore.
Ai bambini è stato sottratto tutto, compresa l’infanzia, il periodo più innocente che un essere umano possa vivere. Ormai non sembrano più fanciulli ma adulti, cresciuti troppo in fretta in un contesto che non gli appartiene.
Anche a me, dalla parte d’Europa “in pace”, è stato tolto qualcosa: le passeggiate con mia nonna che non rifarò più, i giri con la biciclettina rossa nella città di Iviv, dove si respirava un’aria di tranquillità.
Nella mia mente richiamo il ricordo del signor Roman, un caro amico di famiglia, che mi insegnò ad andare in bicicletta ma adesso tutto è cambiato, ora aiuta le persone a fuggire via dalla guerra portandoli verso un posto sicuro e verso nuovo avvenire. Proprio come è successo ai tuoi venticinque coetanei che hanno vissuto sulla propria pelle l’inferno di Auschwitz e Terezin o che sono stati nascosti, in un inferno ugualmente atroce, per mesi in scantinati, al buio, soli e reclusi. O come è successo a coloro che sono stati condotti in un convento, dove hanno dovuto imparare nuove preghiere per un Dio sconosciuto, dove hanno risposto a un nome diverso dal proprio.
Questi bambini sono scampati alla morte e a condizioni disumane trovando rifugio a Lingfield, un luogo di rinascita, con le sue distese verdi, dove é stata loro restituita un’ immagine di ciò che avrebbe dovuto essere la fanciullezza.
Ma tu, Sergio, sei il bambino che non arrivò a Lingfield. Nei miei pensieri ti immagino nell’ultimo inganno di quella promessa; vedo i tuoi occhi fiduciosi e speranzosi di ritrovare la tua mamma.
E penso ai bambini che Italia come in tutti gli altri Paesi d’Europa, attendono di ritrovare il volto dei propri genitori e di ricomporre quell’unità familiare che l’orrore ha spezzato anche oggi, nella mia Ucraina.
E sono certa che anche qui ed oggi ci siano tante Alice e Anna che si impegnano quotidianamente per rammentare e rammendare i fili di queste esistenze.
Titti Marrone, “Se solo il mio cuore fosse pietra” , Feltrinelli, 2022
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Silvia Suriano
Ultimi post di Silvia Suriano (vedi tutti)
- INTERVISTA. Le donne di Lingfield e i “loro” bambini - 30 Aprile 2023
- Madre femminista felice - 17 Gennaio 2023
- Io posso essere io - 8 Ottobre 2021