Le domande di Gisella Modica, il suo garbo e l’attenzione con cui legge Donne che allattano cuccioli di lupo di Adriana Cavarero mi hanno suggerito tantissime riflessioni, che proverò a condensare qui. In linea di principio concordo sul fatto che si debba ripensare la pratica del femminismo, incluso il pensiero della differenza, a partire dallo scarto problematico tra il lato filosofico e la prassi, intesa come quel versante politico e di governo della realtà (prendo in prestito due termini che Gisella ha utilizzato per spiegarsi ulteriormente a me, con generosità).
Scrive Gisella che “Occorre inventarsi modi di relazionarsi alla natura in grado di spezzare i rapporti di dominazione gerarchica che vadano oltre la sua reificazione, la sua possessione”.
Ora, leggendola, mi è venuto in mente che quel modo di relazionarsi alla natura, se autenticamente concepito, passa attraverso il gesto di guardare, storicizzandola, la culla culturale dove si forma il rapporto con il materno, che nel nostro caso viene attraversata dai culti pre-cristiani e mediterranei della Grande Madre, da cui scaturisce, seppure indirettamente, anche il riferimento di Cavarero alle Baccanti, passando per Arendt e il suo interesse per la centralità dell’umano che però si collega a un nodo biologico che interessa tutti i viventi.
In un messaggio successivo alla stesura del suo testo, mi chiede Gisella: come è possibile che si sia politicamente ferme al riconoscimento del lavoro di cura e riproduttivo, alla conciliazione, nonostante l’avanzamento della riflessione sul simbolico materno?
A mio parere, Cavarero parte ancora più lontano, da un passaggio che sta per essere rimosso, che arriva prima di quel nodo di consapevolezza necessaria che contiene ricadute sulla prassi, sulla socialità.
Dice ancora Gisella: non basta la consapevolezza del femminismo delle origini, incluso quello della differenza. Forse il partire da sé, la narrazione, l’affidamento non sono serviti, se consideriamo che questo arretramento culturale non riguarda solo le donne, bensì il mondo intero, il pianeta. La sua preoccupazione è dolorosa, viva. Merita una risposta. Se le donne, dice, avessero questa consapevolezza – sul vivente, sulla visceralità – forse non si sarebbe arrivati a questo punto di non ritorno per il nostro pianeta, per la vita che stiamo annientando.
Allora, chiede Gisella, serve una discussione sulla donna, sulle donne?
Io ci ho pensato, e per me la relazione osmotica con il vivente, nonostante tutto, tra donne e materia, scaturisce dal vivente generato, che è anche molteplice, fluido. Non credo che questa posizione equivalga a una forma di donnismo. Vorrei provare a spiegare perché.
Per me il rapporto tra materia e immateriale si radica nella generatività del materno – che dall’umano idealmente guarda all’animale non umano. Sento che essa debba andare estesa, assunta in modo politico.
***
Affascinata soprattutto dalla parte dedicata da Cavarero alla visceralità (bestialità) della generatività femminile, Gisella tuttavia muove la propria lettura critica da tutt’altra storia, evocando alcuni aspetti del femminismo anglo-americano che si pone in modo culturalista, anziché storico, nei confronti di ciò che lega i corpi. Invocando una nuova forma di relazione con la natura, tale scuola di pensiero evoca una vicinanza ad essa. Tale vicinanza andrebbe gestita in modo nuovo, cercando forme di mescolanza e ibridazione non gerarchiche. Tuttavia, secondo me, così si incorre nelle maglie del tecnologismo, invocando parimenti una maggiore attenzione al ruolo della scienza. E questa, si sa, manipola volentieri le vite, i corpi, la genetica. Non per nulla, determinati segmenti del transfemminismo che guarda ad Haraway guarda in maniera non del tutto negativa – a volte accetta e sostiene – la pratica della gestazione per altri. Forse alcune esponenti di quel pensiero non sarebbero ostili persino al concetto di utero artificiale. C’è ancora molto da studiare su questo fronte, comunque.
Tutto questo è assai lontano dai punti cardine su cui muove il discorso di Cavarero nel suo Donne che allattano cuccioli di lupo. Il corpo generativo viene visto nella sua potenza creatrice e non è considerato al pari di un ostacolo alla libertà. Persino quando esso non genera.
E infatti in nessuna parte di questo testo si asserisce che si debba diventare madri per forza. Allo stesso tempo, essendo noi parte di una specie sviluppatasi su una prevalenza di binarismo sessuale, rimane il fatto incontrovertibile che una quota degli esemplari di tale specie siano dotati della corporeità generativa necessaria alla continuazione della stessa. Cavarero non esclude, bensì include autenticamente, storicizzandola, la necessità di relazionarsi al vivente a partire dalla rigenerazione della physis. Per questo motivo – ma la mia è una lettura personale, fallace –per comprendere appieno le parole della filosofa si dovrebbe considerare come il rapporto primo della generatività materna è proprio ciò che ci accomuna al mondo animale, ovvero che risiediamo in un sistema guidato, al di là del singolo schema culturale, da una luminosa e numinosa complementarità dei corpi, laddove quello femminile si è evoluto nella funzione generativa (attestata, tra le altre cose, dall’apparato cromosomico): concepimento e gravidanza, parto (due in uno), nascita da ventre femminile, allattamento, cura della prole, tutto questo insieme a nascita, morte e sepoltura dei corpi, ossia a quella circolarità cellulare che consente di portare avanti la specie. Se ciò che manca è la connaturale armonia con altre creature viventi, ciò non è certo causato dalla reificazione del corpo materno, che è corpo di donna, bensì da una eccessiva e perniciosa tecnologizzazione della specie tutta.
L’aspetto di specie che, tra i viventi, è come tutte le altre generativa e tendente per via evolutiva a preservarsi e a tutelarsi, appare peraltro inscritto dentro un’idea di matrilinearità. Ciò è confermato, tra le altre cose, dall’antropologia e dall’archeologia che guarda alla genetica e all’anatomia medica, a partire dalla teoria dell’Out of Africa, ossia l’idea, oggi largamente accreditata, che uno sparuto gruppo di ominidi si sia sviluppato e abbia popolato i continenti a partire da una donna che, insieme alla prole, 70.000 anni fa uscì dalle coste dell’Africa orientale spingendosi oltre il mare e contribuendo così a diffondere la specie Sapiens. Il DNA di una parte maggioritaria della popolazione mondiale risale a quella prima ‘Grande madre’; lo confermano gli studi di Alice Roberts e di Steven Oppenheimer (menziono i due nomi di cui ho letto le opere dal 2008 in poi, perché il tema mi appassiona particolarmente).
In altre parole, se non tutte le donne possono o devono essere madri (ci mancherebbe), la realtà del vivente ci dice, coraggiosamente, che gli animali non umani e umani, nella quasi totalità, nascono da madri (le eccezioni nel mondo zoologico ci sono, vedi i cavallucci marini, ma non bastano certo a confutare ciò che la stragrande maggioranza del vivente ci dice, ogni giorno). Tutto ciò risulta inevitabilmente lontano dalla visione portata dagli studi culturalisti sviluppatisi negli anni Novanta in area anglo-americana (penso al lavoro di Butler e, in parte, Haraway, delle quali apprezzo tantissime altre direzioni di ricerca, anche per averle utilizzate io stessa), accanto a quelli post-strutturalisti (tornano in mente alcune pagine di Braidotti). Ed è proprio quel ‘potenziale creativo di scienza e tecnologia’ di cui parla Gisella che, sulla scorta di Haraway, viene talvolta utilizzato da alcune voci del transfemminismo per giustificare l’idea di un presunto ‘biologismo’ alla base del fatto che si cerchi, dall’altra parte, di riaffermare la realtà dei corpi, in primis quella del corpo femminile generativo.
Il libro di Cavarero si muove in senso inverso, con onestà intellettuale e originalità di intenti, perché intuisce quel potenziale creativo femminile in quanto capace di trasmettere il nutrimento simbolico e corporeo necessario alla vita umana, immersa armonicamente nell’insieme della creaturalità del vivente. Il cambio di prospettiva auspicato dalle teorie anglo-americane, d’altra parte, maschera con queste incursioni nel ‘mescolamento’ ibrido tra scienza, natura e tecnologia un identitarismo e un tecnologismo forse eccessivamente fiducioso nella mano dell’Uomo (o della Donna). Ciò effettua e perora la causa di uno scollamento determinante e invasivo da tutto quanto invece risulta essere ciò che la realtà dei corpi ci dice in continuazione, e cioè che veniamo tutti da una madre e che i corpi degli animali femmine – inclusi quelli umani – sono gli unici a poter generare.
Raccontare la madre, i suoi lati oscuri, fa parte del bagaglio letterario e discorsivo da quanto meno tre decenni; anzi, a dirla tutta, ancora prima dell’uscita de L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro (1992), tante scrittrici e pensatrici, italiane e francesi in particolare, hanno interrogato il corpo materno per ridisegnare i punti cardine di una relazione quanto mai complessa, per nulla armonica o idilliaca. Si vedano a proposito gli studi di Adalgisa Giorgio sulla maternità nella letteratura italiana ed europea, da cui molte studiose (tra cui la sottoscritta) hanno tratto e traggono ancora oggi spunti fecondi nelle proprie ricerche.
Da Marie Cardinal a Fabrizia Ramondino, passando per Annie Ernaux ed Elena Ferrante, esiste una miriade di fili ininterrotti in cui le scrittrici – proprio quelle narratrici che il nostro femminismo diffuso più lungimirante ha riscoperto e valorizzato – hanno intrattenuto dialoghi produttivi con il pensiero della differenza.
Il loro obiettivo non è mai stato quello di radicalizzare e di ‘ri-biologizzare’ la relazione con la madre, né tantomeno di portare su un piano essenzialista del dibattito se e come si possa immaginare un intrecciarsi dell’umano nell’universo vivente escludendo il corpo generativo delle donne. Semmai, a essere radicali sono state le discussioni susseguitesi in alcuni ambiti circoscritti, le gerarchie e le consorterie, le preferenze amicali, gli estremismi presi a pretesto per opporre non più un’opinione ragionata, ma un giudizio discriminatorio, quello sì escludente. Se si parla di ‘femminismi escludenti’ ad libitum, si rischia di snaturare il proprio obiettivo retorico, facendo polemica sterile che incide nella carne viva dei femminismi tutti.
Pur tuttavia, rimane il fatto – confermato dalle incertezze e dalle paure instillate in tante donne, che si stanno allontanando dal femminismo – che le teorie anglo-americane hanno pericolosamente ri-culturalizzato e tecnologizzato i discorsi sulle donne, sui loro corpi, svuotando i termini del femminismo, proprio a partire da “madre”, adoperando questa parola nella sua mera funzionalità di significante, ogni volta da riempire anche in base a convenienze retoriche o ideologiche. Magari, anzi sicuramente, ciò è stato fatto in buona fede per ‘tutelare’ le minoranze sessuali; tuttavia, resta il fatto che l’intero processo si sia rivelato essere fallimentare, perché per non escludere tali minoranze si è lasciato che le idee identitaristiche superassero il rapporto funzionale con la realtà dei corpi – assumendo, mi duole dire spesso in mala fede, tali identitarismi come categorie che intendono riconfigurare il reale identificando in maniera univoca e ripetitiva il binarismo sessuale come oppressivo, o teorizzando il sesso come altrettanto parte di uno ‘spettro’ così come si è voluto teorizzare il genere.
Si è fatto così in modo che le suddette categorie tendessero a schiacciare o a sminuire proprio quelle soggettività di madri e di figlie alle quali Cavarero si sta appellando nel suo libro, che peraltro è una risposta creativa alla lettura di Ferrante, Lispector ed Ernaux. Non posso sostenere una simile visione. Anzi, ciò che mi preme è che il femminismo, i femminismi nelle loro molteplici declinazioni storicizzate, si possano appoggiare su genealogie e memorie di chi ha pensato prima di noi oggi, e che tale memoria discorsiva possa servire a dialogare per realmente affrancarci dalla presa antropocentrica (e mortifera) che attanaglia le nostre società. Se si continuerà a ignorare il materialismo dei corpi, a negare la parola donna, la parola madre, o addirittura se si proseguirà nel rinnegare la generatività dei corpi delle donne a favore di maternità fluide, interscambiabili, da svuotare e riempire in base a categorie culturali ad hoc, ecco per me tutto questo non potrà, a mio modesto parere, essere ottenuto.
PASSAPAROLA:









Serena Todesco

Ultimi post di Serena Todesco (vedi tutti)
- MADRI, NON MADRI 8 – Serve una nuova discussione sulle donne? - 7 Gennaio 2025
- La terra si spacca - 1 Aprile 2022