Le Letturate1. Lispector e la Macabéa

Antonella Ippolito, 06 gennaio 2025

La vicenda umana di una modesta dattilografa, l’importanza della scrittura e infine una lenta marcia di avvicinamento alla morte. Le riflessioni del gruppo di lettura delle socie SIL le Letturate su “L’ora della stella” (Feltrinelli 1977), l’ultimo romanzo di Clarice Lispector, che hanno letto e commentato insieme. Il prossimo libro sarà “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti” (Bompiani) di Olga Tokarczuck

Di Antonella Ippolito

Le Letturate, di cui Antonella Ippolito che ha redatto questo testo fa parte, sono un gruppo di lettura a cui partecipano Rita Calabrese, Rossella Caleca, Gianna Cannì, Stefania Cenciarelli, Floriana Coppola, Mariella De Santis, Anna Ditta, Leila Falà, Elvira Federici, Marzia La Barbera, Maria Pia Lessi, Rita Lopez, Loredana Magazzeni, Daniela Maurizi, Paola Meneganti, Gisella Modica, Daniela Sannipoli, Nadia Tarantini, Licia Ugo.

Il gruppo “Le Letturate”, ideato da Gisella Modica con Loredana Magazzeni e Rossella Caleca, è formato da socie SIL che si riuniscono on line una volta al mese, la domenica dalle 18 alle 20, per parlare del libro scelto da una lista che è stata proposta dalle socie, votata e compilata per ordine di preferenza. Il testo viene “restituito” di volta in volta da una delle Letturate, tenendo conto del contributo di ciascuna.

L’ora della stella della brasiliana Clarice Lispector (1977) è un libro che, per molti versi, sorprende. In primo luogo perché Macabéa, la giovane “nordestina” su cui si concentra la narrazione, è quanto di più diverso possa esistere rispetto a ciò che ci si aspetterebbe come protagonista di un romanzo: la semplice dattilografa incolore e ingenua dalla vita più che banale, esposta a ogni abuso sullo sfondo di uno scenario di miseria e degrado, è una figura del tutto anonima, di cui vengono sottolineate quasi con compiacimento tutte le caratteristiche ripugnanti, a impedire ogni possibile identificazione da parte di chi legge. In secondo luogo, perché all’apparente semplicità di un racconto costellato da pochissimi eventi corrisponde una struttura narrativa elaborata che presuppone il “filtro” di un narratore maschile, Rodrigo S.M., egli stesso personaggio tanto quanto Macabéa. Attraverso questo espediente, l’attenzione si sposta, come vedremo, sul gioco sotteso alla scrittura letteraria e sulla consapevolezza del fatto che chi scrive diviene, almeno per un momento, “altro da sé”, interpretando un ruolo. Non si tratta, però, di un artificio letterario fine a se stesso, giacché la scrittura rimane “nuda e cruda”, respingente e sgradevole, incurante di ogni regola di comunicazione e priva di qualsiasi piaggeria nei riguardi di chi legge; la voce, come è emerso dalla lettura comune, di chi scrive come fosse sola al mondo.

Chi è, dunque, Macabéa? È una donna nata “dall’incrocio di ‘niente’ con ‘niente’”, quasi incarnazione di un universale male di vivere: al centro del discorso della voce narrante, le disgrazie che ne accompagnano l’infanzia, l’esilità del corpo quasi privo di attributi femminili, l’indifferenza, se non addirittura l’ostilità, da cui è circondata, la mancanza di capacità precise, comunque mai coltivate e l’inconsapevole necessità di apertura al mondo esterno, possibile solo grazie all’ascolto della radio. In questo senso, possiamo cogliere una leggera ironia: Macabéa che “non si sa”, Macabéa così priva di qualsiasi esigenza abita però, a suo modo, la società contemporanea: sfoglia riviste di moda, le ritaglia, fa propri, se pure alla sua maniera infantile, i desideri che i rotocalchi ispirano, rappresentati quasi pars pro toto dal rossetto come quello di Marilyn Monroe che “addosso a lei sembra solo del sangue”. Il racconto sembra così suggerire che nessuno, nemmeno una persona apparentemente fuori dai giochi delle apparenze, riesce a sottrarsi del tutto alle spinte del consumismo.

L’esistenza di Macabéa si regge quasi su un filo funambolico da cui il lettore/la lettrice teme costantemente, fino all’epilogo, di vederla precipitare: fin dalle prime righe si capisce che non ha futuro, nonostante i tentativi della voce narrante di Rodrigo creino un effetto di fuorviante sospensione. Eppure, allo stesso tempo, è una figura incantevole e indimenticabile, profondamente spirituale, grazie alla sua radicata, quasi animalesca volontà di vivere: una forza che resiste all’esperienza del dolore e si accompagna ad una inconsapevolezza di sé e del mondo, tale da richiamare, a tratti, i soggetti inermi di Anna Maria Ortese e di Elsa Morante, l’Idiota di Dostoevskij oppure i “santi folli” della tradizione orientale, figure attraversate dalla grazia di non sapersi vive, di acconsentire alla vita come puro respiro.

Al suo “non aver coscienza di niente” si accompagna infatti grande libertà interiore: “non chiedeva niente, si riteneva persino felice. Non si trattava di un’idiota, ma aveva la felicità pura degli idioti” (p. 75). Il suo procedere sul cammino tracciato da un destino che, al termine della storia, si rivela beffardo corrisponde al semplice esistere come “se stessa”, “interpretando ligia la parte di un essere vivente” (p. 38). Il dolore di Macabéa è il dolore dei semplici, di chi non insegue gli onori, la ricchezza, la bellezza, l’apparire, ma che conosce la gioia di sé, quella che gli altri – l’amica, il finto innamorato – non possono infrangere.

Le caratteristiche di Macabéa emergono ancora più chiaramente – e più forte si fa la nostra pena nei suoi riguardi – con la comparsa sulla scena del personaggio di Olímpico, che sembra concepito dall’autrice e magistralmente situato nell’azione proprio per far risaltare la distanza siderale tra i due. Olímpico è il prototipo del macho inutile e senza prospettive, altrettanto ignorante e inconsapevole di Macabéa, e tuttavia sicuro di diventare presidente o Dio stesso, senza nemmeno coglierne la differenza: “un pazzo che sapeva benissimo quello che faceva”: per certi versi, potrebbe essere accostato al personaggio de La strada di Federico Fellini nella sua interazione con la candida Gelsomina. I loro dialoghi ricordano altri esempi letterari – si pensi al colloquio tra Medea e Giasone nella Medea di Euripide – in cui a una figura maschile apparentemente pratica e concreta nei pensieri e nelle azioni, in realtà però banale e superficiale, si contrappone una figura femminile caratterizzata da una sapienza destabilizzante, che si basa sulla connessione alla Vita e al proprio sentire.

Così, nella sua ingenuità continuamente derisa o smascherata da Olímpico “uomo di mondo”, Macabéa pronuncia delle frasi che acquistano, ad un livello più profondo, una forte ambivalenza: un esempio è l’osservazione “non credo di dover riuscire nella vita” (p. 53), che, se da una parte rinvia alla più volte sottolineata mancanza di ambizioni della ragazza, dall’altra si trasforma nell’espressione di una saggezza superiore che mette in ridicolo le smanie di ascesa sociale di Olímpico.

Anche di fronte al crollare dell’illusione legata al suo sogno d’amore, però, Macabéa non prova alcuna disperazione, perché “anche la tristezza è un lusso” (p. 67) bensì accetta con la consueta mitezza il corso degli eventi, ritrovando paradossalmente sogni e speranze proprio nella fallace predizione della cartomante Madame Carlota, che consentirà l’incontro con la morte, con l’“ora della stella”, sempre nel segno della casualità e della passività.

La storia di Macabéa è quindi anche una storia sul limitare tra vita e morte, sulla finitezza della creatura, una creatura che è sia la figura narrata, sia l’autrice stessa. Non va dimenticato, infatti, che L’ora della stella è un’opera-testamento, l’ultima di Clarice Lispector, composta in un momento cruciale della sua vita, in cui si avvicinava alla morte. Considerate su questo sfondo, le considerazioni della voce narrante sul corpo “marcescente” di Macabéa, abitato però da un soffio di vita “quasi illimitato e ricco quanto quello di una donna gravida, ingravidata di se stessa, per partenogenesi” (p. 65) acquistano uno spessore particolare, che lascia immaginare l’esperienza di un’autrice che di fronte alla malattia cerca di sfuggire alla trappola insidiosa dell’autocompassione. Di fronte al corpo dolente, insignificante, e pure non privo di una singolare e ingenua gioia di vivere, il lettore si pone una serie di interrogativi, non solo sulla possibilità di una vita “in frantumi” di risorgere nell’attimo della morte vissuto come una sorprendente e luminosa “ora della stella”, ma anche sulla necessità e sull’inevitabilità di camminare sul filo del dolore. Lispector fa infatti dire al suo narratore: “Una storia che si scrive a questo mondo è una storia di patimenti?” (p. 89).

La storia narrata in L’ora della stella è però anche, forse soprattutto, una storia di scrittura. Rodrigo S. M. e Macabéa sono un doppio inscindibile, come sembra sottintendere la metafora utilizzata per descrivere l’urgenza della scrittura: “la dattilografa non vuole più scendere dalle mie spalle” (p. 21). La mediazione della voce maschile ha un carattere fortemente autoriflessivo e costruisce una mise en abyme del “corpo a corpo” con la parola, e, conseguentemente, anche con la vita: non a caso, le figure femminili di Macabéa e dell’amica Glória, nel testo, hanno a che fare proprio con l’atto dello scrivere, nella loro attività quotidiana di dattilografa e stenografa. La scelta del maschile implica evidentemente una presa di distanza discrezionale dall’istanza narrativa, un “uscire da sé” necessario a descrivere cosa pensa uno scrittore.

Tra le caratteristiche più evidenti della narrazione emerge, infatti, il frequentissimo riferimento alla scrittura e al ruolo dello scrittore, a partire dal ribadito proposito di scrivere “con sempre maggiore semplicità”: il materiale a disposizione, sottolinea Rodrigo S. M., “è modesto ed eccessivamente ingenuo […] il mio è un lavoro di carpenteria”. Senza questa semplicità, il narratore non sarebbe in grado di cogliere l’essenza della figura di Macabéa: il suo carattere stesso esige che il dettato non sia contaminato dal lusso di una parola “imbellettata o artisticamente vana” (p. 19), giacché “La storia è storia […] la parola è il frutto della parola. La parola deve assomigliare alla parola. Renderla è il mio primo dovere (ibid.)

Eppure, la scrittura non sarà affatto semplice, o almeno non così semplice come il personaggio-narratore vorrebbe: o per lo meno, il suo carattere scarno ed elementare si rivelerà, con lo svilupparsi della storia, un’apparenza, che nasconde la profondità del discorso. Attraverso il punto di vista di Rodrigo, l’atto di scrivere è costantemente posto in relazione a un senso d’inquietudine incessante che spinge a chiedere di continuo, senza accontentarsi delle risposte e senza neanche sapere come la storia andrà a finire: “scrivo nel momento stesso in cui sono letto” (p. 10); è un atto che richiede sensibilità, tale da cogliere i dettagli del reale (come le sensazioni di una scialba ragazza del Nordeste) che sfuggono ai più, comprese le inaspettate rivelazioni nascoste all’interno della più banale quotidianità. In questo senso, la scrittura è presente anche come dovere di raccontare: “Ho il dovere di raccontare di quella ragazza tra migliaia di sue simili. E ho il dovere, malgrado la modestia del mio talento, di rivelarle la vita” (p. 12);

Il discorso di Rodrigo, quindi, pone in sottofondo la domanda principale, che è quella del perché si scrive, malgrado la fatica di un lavoro arduo come e forse più di quello del carpentiere, che “molesta l’esistenza” (p. 8) ma, al contempo, contiene in sé la scoperta di una “costante novità” che riscatta dalla stanchezza del vivere: “Scrivo perché non ho niente da fare al mondo: sono una persona eccedente, e non c’è posto per me sulla terra degli uomini. Scrivo perché sono un disperato e sono stanco, non sopporto più la consuetudine di essere e, se non fosse per quella costante novità che è lo scrivere, morirei simbolicamente tutti i giorni” (p. 20). Al di là della scarna vicenda di Macabéa, è il narrare stesso a farsi protagonista: l’atto creativo e il lavoro intellettuale, come Macabéa così spesso sottovalutati, si impongono sulla scena come via per divenire altro da sé. Ciò avviene proprio attraverso la comunicazione con il lettore: come sembra sottolineare la “dedica dell’autore” dove l’identità di Rodrigo S.M. come “alias di Clarice Lispector” si svela senza ambiguità: “In questo istante esplodo nell’io. Quell’io che siete “voi” poiché non tollero di essere solamente io, ho bisogno degli altri per stare in piedi” (p. 8) è questa, in ultima analisi, la vera ragion d’essere per colui/colei che scrive.

 

Info. Ecco i dieci libri scelti da le Letturate.

In dicembre si conclude la lettura del romanzo n. 2 di Olga Tokarczuck “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti” e Letterate magazine ne darà conto.

1 Clarice Lispector L’ora della stella, Feltrinelli 1977

 

2 Olga Tokarczuck Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, Bompiani 2020

 

3 Marlen Haushofer, La parete, e/o 2013

 

4 bell hooks, Da che parte stiamo: la classe conta, Tamu 2000

 

5 Kang Han La vegetariana, Adelphi 2022

 

6 Neige Sinno Triste tigre, Neri Pozza 2024

 

7 Chimamanda Ngozi Adichie, Metà di un sole giallo, Einaudi 2024

 

8 Elfriede Jelinek, Le amanti, La Nave di Teseo 2020

 

9 Fiammetta Palpati, La casa delle orfane bianche, Laurana 2024

 

10 Inés Cagnati, Génie la matta, Adelphi 2022

 

11 Giulia Mafai Agenda Rossa, Vanda 2022

 

12 Robin Morgan Il Demone Amante, Vanda 2022

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Antonella Ippolito

Antonella Ippolito è nata nel 1974 e vive a Potsdam (Germania) dal 2006. Ha compiuto studi di Filologia Classica in Italia, di Letterature romanze in Germania e conseguito la libera docenza in Filologia Romanza all'Università di Potsdam, dove lavora attualmente come ricercatrice e docente di letteratura francese. Si occupa di autori e autrici italiane e francesi di diversi periodi storici, con particolare attenzione a Dante e alla ricezione della Commedia nelle arti figurative, alla prosa del Novecento e della contemporaneità. Tra le sue pubblicazioni si segnala la monografia "La stella Assenzio“ von Livia de Stefani: Ökokritik als Endzeitmythos (Berlino: Frank & Timme, 2015) dedicata alla scrittrice Livia De Stefani. Oltre all'attività accademica, lavora come traduttrice dall'inglese, dal francese e dal tedesco e si dedica alla pittura e alla scrittura. Una sua silloge di poesie intitolata "Incompiuto infinito" è stata pubblicata nel volume collettaneo "Ottavo repertorio di poesia italiana contemporanea" (Osimo: Arcipelago Itaca, 2024).

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