Questo racconto fa parte di un gruppo di racconti scritti da alcune donne di Messina, raccolte in un laboratorio da una loro concittadina scrittrice che da Roma le ha seguite durante il primo lockdown. Dove sono fuggite con la fantasia? Nadia Terranova ha chiesto loro di raccontare a partire da due domande: cos’è l’identità? Che cos’è sentirsi straniere? Pubblicheremo in sequenza su LM i sette racconti che ne sono nati, felici di questo particolare incontro. Alla fine di ogni racconto potrete trovare le parole con cui Nadia stessa ci racconta il laboratorio e l’esperienza di scrittura. Buona lettura!
Un amore sospeso
Di Giuseppina Di Bella
Infine l’aveva trovata. La sua bandana preferita, quella rossa con la grande scritta Route 66 e le tappe dello storico percorso. Era il ricordo del suo viaggio più bello, lei e Juan, uno dei primi insieme, quando lui c’era ancora. Per due giorni l’aveva cercata e quando stava ormai per desistere era spuntata lì, in fondo all’ultimo cassetto del comò. “Sei disordinata” le ripeteva scherzando Juan. Paola a quelle parole si arrabbiava. Non era disordinata ribatteva, semplicemente dimenticava dove metteva le cose, quello che doveva fare. Ormai prendeva nota di tutto.
Juan era scomparso dalla sua vita già da tre anni. Una sera semplicemente non era rincasato. Non l’aveva chiamata, lei non sapeva che fine aveva fatto. Nessun profilo social, nessun contatto, irraggiungibile come il messaggio che una voce asettica le rimandava al cellulare. Aveva chiesto agli amici comuni, ma nessuno sapeva darle notizie. Di lui le era rimasto il sogno infranto di una vita diversa, il sapore della sua pelle dorata e Marco, sette anni, frutto inaspettato di un amore folle. Tutta la sua famiglia aveva avversato quella relazione. Juan “il messicano” era diverso da tutti loro, era l’estraneo che non si era mai inserito nella sua famiglia tradizionalmente piccolo borghese. Troppo estroso, imprevedibile, con i suoi capelli rasta, un passato da viandante, un uomo senza Patria e senza radici. Lei lo aveva adorato proprio per le stesse ragioni.
Ficcò la bandana nella sacca esterna della borsa a zainetto e andò in cucina. Mise a scaldare l’acqua per il tè. Era calma, come l’aria di quel giorno di primavera inoltrata, né troppo freddo, non ancora caldo. Dalla strada non le arrivavano rumori. Tutto sembrava sospeso.
“Mamma, voglio portarmi la Playstation con i giochi.”
Marco le apparì sulla porta della cucina. Era un bambino magro, abbastanza alto per la sua età, il suo corpo navigava dentro i jeans e una felpa gialla leggera. A piedi scalzi, la guardava con occhi mesti e curiosi allo stesso tempo, la sua voce faticava a nascondere il malcontento.
“Marco, ti ho già detto che non puoi portarti tutte le tue cose dalla zia. Non voglio che le crei disturbo, fai il bravo.”
“Ma mamma, che disturbo è la Playstation? Ci posso giocare con Giacomo e Giuliana, si divertiranno anche loro.”
“Marco, ti prego, non insistere. Giocherai con i giochi dei tuoi cuginetti.”
“Uffa, mamma. Per favore!”
“No! Ti ho detto no! Smetti di fare il bambino capriccioso. E vatti a mettere un paio di scarpe. Sparisci!”
Suo figlio corse via piangendo mentre il bollitore fischiava. Si rammaricò per quelle parole. Il tè al gelsomino le lasciò in bocca un gusto di erba rancida che il fumo della sigaretta dilatò.
Alle undici in punto, come da accordi, sua sorella Francesca arrivò a casa. Capelli lunghi castani, un corpo tenuto in forma grazie alla palestra e a costose cure estetiche, elegante nel suo semplice completo, maglia bianca e pantalone nero, Francesca era la figlia modello dei loro genitori: insegnante, un matrimonio felice con un professionista affermato, due figli, la casa di proprietà nella zona più ricca della città. Era rimasta sorpresa quando Paola le aveva chiesto di tenere Marco per qualche giorno perché doveva andare fuori città per un colloquio di lavoro, ma non si era tirata indietro. Un rifiuto avrebbe scalfito la sua figura di donna perfetta, disponibile e amabile. E poi, in fondo, voleva bene a quel bambino senza padre e con una madre a suo giudizio problematica. Gli avrebbe offerto la possibilità di un po’ di tempo trascorso nella tranquillità di una famiglia regolare.
“Allora, Marco, sei pronto? Giacomo e Giuliana ti stanno aspettando. Non vedono l’ora di mostrarti la cameretta che ti abbiamo preparato. Prendi le tue cose e andiamo. Vi ho pure cucinato una bella torta per la merenda” disse Francesca al bambino che si era affacciato sul corridoio al suono del campanello d’ingresso.
Marco sparì verso la sua camera. Le due sorelle stettero in piedi, l’imbarazzo potente tra di loro. Non erano mai state amiche. Fu Francesca a sgelare l’atmosfera.
“Paola, vai tranquilla, Marco starà bene da noi. Tu piuttosto, sai cosa devi fare, hai organizzato tutto? Come ti presenterai al colloquio? Ti raccomando, mostrati sicura e brillante. La personalità fa la differenza in certe occasioni e questa lo è sicuramente.”
Paola rassicurò la sorella con brevi parole. La sua mente e il suo cuore erano un fuoco ardente che covava sotto un’espressione sicura. La maschera traballò quando Marco apparve col borsone che usava per andare a calcetto. Questa volta ci aveva messo dentro quello che può appartenere a un bambino di sette anni, anche se non tutto quello che un bambino di sette anni vorrebbe portare con sé. Paola lo abbracciò stretto a sé e lo consegnò alla zia. Era la prima volta che si staccava da lui.
Seguì con lo sguardo la macchina di sua sorella finché non scomparve dietro la curva del cortile. Il silenzio fuori e dentro l’appartamento a quel punto si fece intollerabile, le procurò quasi un dolore fisico. Lo stesso dolore fisico che in certe giornate sentiva nella grande casa che non le apparteneva, che non sentiva sua.
Non le era mai piaciuta quella casa. Al piano rialzato di una palazzina anni ’60, aveva solo finestre, niente balconi. E lei desiderava i balconi, avrebbe dato tutto per un terrazzino, si sentiva in prigione dietro quelle finestre. Come il pus dell’infezione che ha bisogno dell’incisione sulla pelle per liberarsi, lei aveva bisogno di uno sfogo verso l’esterno, esterno che quella casa non le permetteva.
Ma ormai non era più il tempo di risentire quelle sensazioni. Quello che le venne in mente invece, all’improvviso, furono le parole di sua nonna paterna, la siciliana: “Non si pigghiunu si non si sumigghiunu”.
Quelle parole della nonna che allietava le sue giornate durante le vacanze estive nella campagna assolata con un sorriso buono e le pietanze dal sapore mai più ritrovato, come la parmigiana con le uova sode e la mortadella, le parole della nonna che la viziava, che la sorprendeva con i suoi proverbi in una lingua a lei straniera ma che sentiva nel sangue, la investirono in pieno.
Furono attimi di stordimento che le sembrarono infiniti, poi tornò alla sua realtà. La sua realtà da due settimane girava intorno ad una telefonata. Da Katia, una compagna di scuola con cui era rimasta in contatto, aveva appreso che Juan di recente era stato visto più volte nella zona dell’Alta Maremma e da quel momento i borghi medioevali delle colline toscane erano diventati il suo chiodo fisso, la sua meta. Paola era stata molto combattuta, ma alla fine si era data dieci giorni di tempo da dedicare all’uomo che l’aveva lasciata e a lei che lo teneva ancora nel cuore. Voleva e doveva sapere se per Juan fosse stato possibile dimenticare tutto, archiviare emozioni, momenti e promesse. Se lo avesse incontrato, la bandana rossa che avrebbe tenuto annodata al collo sarebbe stata una cartina di tornasole.
Pulì la tazza del tè e la ripose sopra al lavello, diede l’acqua alla pianta d’edera che si allungava sotto a una mensola, andò in camera da letto. Prese il trolley che aveva già preparato, prese lo zainetto. Passò un filo di rossetto chiaro sulle labbra e indossò il trench blu classico, vecchio di una decina d’anni. All’ingresso si osservò di sfuggita allo specchio: non si riconobbe. Poi chiuse la porta di casa e lasciò le chiavi con un biglietto per la sorella nella cassetta delle lettere della vicina di casa. La stazione degli autobus era a più di un chilometro, ma Paola non aveva fretta. E fuori era una splendida, serena giornata.
Incontrarsi a distanza tramite la scrittura
di Nadia Terranova
“Il mio soggiorno si trasformò per tutte noi nel regno della libertà più assoluta. Un vero paese delle meraviglie. Sedute intorno al tavolino, coperto di mazzi di fiori, entravamo e uscivamo dai nostri romanzi. Guardandomi indietro, mi stupisco ancora di quanto abbiamo imparato, e senza nemmeno accorgercene. Nabokov lo aveva descritto, quello che ci sarebbe successo: avremmo scoperto come il banale ciottolo della vita quotidiana, se guardato attraverso l’occhio magico della letteratura, possa trasformarsi in pietra preziosa”.
[“Leggere Lolita a Teheran”, Azar Nafisi, Adelphi, traduzione di Roberto Serrai]
Quando, nella primavera scorsa e in piena clausura nazionale per pandemia, Nancy Antonazzo mi contattò per chiedermi se avevo voglia di tenere un laboratorio di scrittura con un piccolo gruppo di donne messinesi, mi dissi egoisticamente che quegli incontri sarebbero serviti soprattutto a me: a sentirmi vicina al mio Stretto, al mio mare. Mi dissi che il rumore che la notte veniva a visitarmi nella mia casa romana non era il frigorifero, e no, non erano allucinazioni uditive, ma il mare che mi stava esortando a trovare il modo giusto per riavvicinarmi alla mia città. Il modo giusto, per me, è sempre la scrittura. Infatti, in clausura, stavo lavorando a un progetto su Messina. Ma adesso mi veniva incontro la scrittura delle altre, con un portato prezioso: avevo voglia di guardare dentro le vite, le case e le stanze delle donne della mia città, scoprire come passavano le giornate, cosa pensavano, cosa avevano voglia di scrivere nelle settimane in cui scoprivamo i confini delle distanze. Quanto alla formazione del gruppo, mi fidavo di Nancy, della sua competenza e del suo entusiasmo, e del gruppo “Terremoti di carta”, una bellissima realtà letteraria di aggregazione e scambio, che da anni lei ha creato e con serietà gestisce. Avevo già lavorato con i “Terremoti”, in passato e in presenza. Adesso, certo, le cose erano molto diverse.
Decidemmo che il laboratorio si sarebbe tenuto ogni sabato, per un mese. Che ci saremmo ritagliate un’ora strana: da mezzogiorno all’una. Un’ora che permetteva alle più giovani di svegliarsi con calma e a quelle con troppa famiglia sulle spalle di occuparsi del pranzo, un’ora che lasciava l’illusione di un sabato sera libero anche se non dovevamo andare da nessuna parte e non inficiava il lavoro settimanale anche se lavoravamo tutte da remoto.
Chiesi a Nancy di condividere con le iscritte un racconto di Rina Durante che mi commuove sempre, ogni volta che lo leggo. Rina Durante è una delle tante grandi scrittrici sottovalutate del Novecento, era nata a Melendugno, in provincia di Lecce, nel cuore della Grecìa salentina, e poco prima che l’Italia chiudesse ero stata, con un mio libro per ragazzi, a tenere un incontro proprio lì, in una scuola elementare che porta il suo nome. Durante non praticava il griko, la lingua discendente dal greco, parlata a lungo da una comunità di quelle parti, poi ricusata e oggi studiata grazie a un prezioso lavoro di recupero e salvaguardia (sempre durante quel viaggio avevo conosciuto i soci dell’associazione Kalimera e il professor Salvatore Tommasi). Quel racconto bellissimo racconta del rapporto tra Melendugno e Calimera, dove invece il griko era diffuso. Si intitola “Le nostre parti” e fu pubblicato in origine sulla Gazzetta del Mezzogiorno; inizia con un racconto di Rina bambina, la nonna la redarguisce, le suggerisce di guardarsi dai calimeresi, che son gente “con due lingue”, e lei s’immagina che le due lingue siano concrete, non figurate, come quelle di un mostro medievale. Il racconto finisce poi davanti al mare, con il ricongiungimento di un griko con la terra madre, la Grecia, e un coro di saluto sulla spiaggia salentina, che d’improvviso appare del tutto simile a un’isola che guarda il Peloponneso, come se il mare che separa una costa dall’altra non fosse altro che un’illusione o una strada, e come se le due parole fossero sinonimi.
Nel primo incontro, chiesi del racconto. Era piaciuto a tutte. Ma il gusto è inafferrabile e soggettivo: piuttosto, sentii che aveva parlato a tutte, che era arrivato in fondo, che aveva sconquassato gli animi. Questo mi interessava. Questo, di solito, è ciò che mi interessa nella vita e nella scrittura (e non sempre so il confine). Chiesi di interrogarsi su due polarizzazioni: che cos’è l’identità e che cos’è sentirsi straniere. Non davo risposte, io stessa non ne avevo e non ne ho, davo domande e mi interessava genuinamente la risposta: io ero una migrante messinese in terra capitolina, reclusa e confinata da un evento mondiale che non avevo previsto, e loro, invidiatissime perché sullo Stretto, chi erano? Non lo sapevo, anche se ne conoscevo alcune, perché avevano partecipato ad altri miei incontri e perché Messina è una città di provincia, dove ci si conosce un po’ tutti. Ma chi erano quelle donne, e perché volessero rubare un’ora alla settimana alle loro vite, alle loro clausure, era un mistero che andava indagato oltre l’apparenza.
Ci siamo viste ogni settimana, come pattuito. E loro non lo sapevano, ma io spiavo gli angoli, i vestiti, le voci che venivano dalle altre stanze, le ritrosie. A volte mi sembrava di annusare l’odore di cucinato o di un crogiolante nulla festivo. Chi siete? Vi sentite straniere in terra nostra? Come abitate la vita che avete scelto e vi è stata data? Queste erano le domande che non formulavo, ma, credo, esprimevo.
Il gruppo era straordinario. L’attenzione non calava mai. I racconti crescevano, cresceva il coraggio, spuntava come erbaccia la voglia di mettersi in gioco, una voglia inestirpabile. Il gruppo si formava e l’energia passava attraverso lo schermo, attraverso le distanze: io ero lontana e loro vicine, eppure, anche se avessero voluto, non si sarebbero potute vedere. Stavo riuscendo a trasmettere calore anche in quella buffa modalità? Ogni tanto sbagliavo e giravo lo schermo verso la mia stanza anziché su di me. E loro vedevano vestiti accatastati su una sedia, libri in disordine, rossetti, la mia solitudine, le mie ore affollate. Mi sentivo nuda: un’ora a settimana, nuda. E i loro racconti, così feroci nell’esercizio di empatia o di svelamento, mi denudavano ancora di più.
Eccoli, quei racconti: non potevo che raccontarne la genesi. Non capita spesso di pensare che gli esiti di un laboratorio debbano essere pubblicati, ma qui c’è qualcosa di più. C’è una strada che donne diverse per età e interessi hanno trovato per sentirsi vicine e per dirsi qualcosa, per bucare le pareti di casa in un momento in cui non si poteva. L’insieme di questi racconti ha il fragore di una piazza di consorelle, e ognuno di loro ha dignità in sé, nella sua differenza. Quanto a me, sono stata semplice testimone di queste scritture, al massimo levatrice maieutica, ed è una di quelle poche autentiche posizioni che sono orgogliosa di aver ricoperto.
PASSAPAROLA:









Giuseppina Di Bella

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- PERSONAGGE: Un amore sospeso - 15 Maggio 2021