Costanza Ghezzi ci racconta storie di quotidiana violenza ma lo fa con un romanzo, anche se è operatrice in un centro di Orbetello. Emerge così un tabu: la dipendenza sessuale, ultimo appiglio nelle dinamiche perverse e collaudate, «una matassa di filo di ferro, ruvida e scomoda»
Di Donatella Borghesi
Rapide pagine intense, nervose, a volte urticanti. Sorprendenti, perché sono pagine prive di ogni traccia retorica o vittimistica che spesso circonda la comunicazione sulla violenza contro le donne. Nel suo romanzo breve Il segno di Nora (o racconto lungo, come preferisce definirlo l’autrice), Costanza Ghezzi ha voluto raccontare il non detto della violenza, decostruirne gli stereotipi. Ed è riuscita a farlo anche perché dietro questo esordio narrativo c’è la sua esperienza diretta sul campo, come operatrice del Centro antiviolenza Olympia de Gouges di Orbetello. Per restituire le tante voci raccolte nell’ascolto delle donne che si sono rivolte al Centro, al posto della cronaca ha scelto il romanzo, mescolando più storie, rivivendole con la sua sensibilità personale e l’invenzione letteraria.
Una scrittura che si fa doppia, di racconto e riflessione interiore, con un ritmo fatto di balzi temporali a ritroso o in avanti, per ricostruire il percorso di una donna prigioniera del sogno d’amore, che ha cercato di tenere in vita oltre ogni ragionevole dubbio. Anche quando non bastava più un pugno o uno schiaffo, quando le è arrivata diritta in fronte la prima testata, il primo calcio nello sterno. «Ma non è successo niente, i lividi si fanno viola verdi gialli, poi spariscono. Nora indossa occhiali da sole. Dopo una settimana tutto è scomparso». Una storia apparentemente come tante, abilmente raccontata attraverso il filtro dell’elaborazione del lutto.
Nora sa di essere dipendente, è il suo “segno”, lo sappiamo fin dalle prime pagine, conosce bene «l’impennata di adrenalina che scatenava il pensiero di Carlo». Ma chi sono Nora e Carlo? Si sono sposati giovanissimi, e hanno fatto subito famiglia, tre figli. Il sogno d’amore appunto, una vita “normale” in una città di provincia. «Qualche mese prima era solo una ragazza che raccontava di non volere figli. Si immaginava libera di fare sesso di studiare di lavorare di viaggiare. Tutto cancellato da un incontro di occhi a sedere per terra, nella cucina di un’amica. Una polo rossa su bermuda a quadri. Una serie di capriole e di inganni».
Le capriole e gli inganni diventano col tempo le assenze di lui, i progetti narcisistici mai realizzati, i primi tradimenti, i primi insulti, dove sei, sei una puttana egoista, non mi aiuti; le rinunce di lei, che vive di riflesso, «si sente sempre fuori da se stessa», sempre perdente, l’autostima sotto il livello dell’accettabilità. E quando la violenza arriva rapida, imprevista e imprevedibile, Nora «si osserva dall’esterno, estranea al gesto e al terrore. Non può essere lei. Non fa in tempo a rendersi conto. È tutta colpa sua, solo colpa sua». Non prova paura, almeno quella paura utile per mettersi in salvo. «Pensò che per le donne uccise dagli uomini doveva essere la stessa cosa; non ci si protegge abbastanza nella confusione creata dalla dualità amore-violenza, è l’amore a confondere le carte, e si fa fatica a distinguere il pericolo».
Cominciano a manifestarsi i danni della tensione quotidiana, disturbi dell’alimentazione e del sonno, deve mettere in azione una strategia di sopravvivenza, mettiti in salvo, le dice un amico sincero. Nora e Carlo si lasciano, si riprendono. Si lasciano di nuovo e di nuovo si riprendono. I bambini lasciati dalla nonna, goffe fughe d’amore, ma i loro tempi interiori non si incontrano più. «Era solo un test: sesso con Carlo, sesso clandestino e pornografico per non staccarsi da lui. Sondare la capacità di tenerlo legato a sé, e arrivare a capire che cosa sarebbe stata disposta a fare per mettere alla prova la propria infelicità». È come il gioco del gatto col topo, e il topo non riesce ad allontanarsi. E ad essere “normale” è ormai diventata soltanto la violenza.
«Ritornava a casa stremata, alle prime ore del mattino, appagata dal trofeo del sesso consumato appiccicato addosso; un senso di vittoria che già dopo poche ore la lasciava frustrata e con la voglia di averne ancora, di averne di più». Costanza Ghezzi, con la storia di Nora, ci rivela come la potenza del legame sessuale con l’uomo maltrattante sia un tabù fortissimo: le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza fanno molta fatica a farlo emergere nel racconto di sé e della loro relazione. Nora ci racconta in modo esemplare la dipendenza sessuale, ultimo appiglio nelle dinamiche perverse e collaudate, «una matassa di filo di ferro, ruvida e scomoda».
Si definisce co-protagonista del dramma, è il topo che ammicca al gatto. «Il sesso era stata l’esca che lei aveva usato, l’unica arma possibile per entrare nella possibilità della sua attenzione. Un gioco violento, fatto di attese e di silenzi impenetrabili, seguiti da una gragnuola di sms a ogni ora del giorno e della notte, che doveva giocare se voleva stare con lui. E lei lo voleva. Lo voleva?».
Liberarsi è difficile. Uccidere l’uomo amato diventato orco sembra impossibile. Ma poi lo scarto può arrivare all’improvviso, «tra un urlo e l’altro, tra una scopata, una cena e giorni di silenzio. Mezze frasi, assenza di parole». Fino al giorno inaspettato, «quello in cui inizia il conto alla rovescia che porterà alla deflagrazione: brandelli di gatto in giro per l’etere».
Costanza Ghezzi, Il segno di Nora, BibiBook, 2020, 164 pag, 12 euro
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥
Donatella Borghesi
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