PERSONAGGE: Sui margini

Giovanna Gravina, 3 aprile 2021

Questo racconto fa parte di un gruppo di racconti scritti da alcune donne di Messina, raccolte in un laboratorio da una loro concittadina scrittrice che da Roma le ha seguite durante il primo lockdown. Dove sono fuggite con la fantasia? Nadia Terranova ha chiesto loro di raccontare a partire da due domande: cos’è l’identità? Che cos’è sentirsi straniere? Pubblicheremo in sequenza su LM i sette racconti che ne sono nati, felici di questo particolare incontro. Alla fine di ogni racconto potrete trovare le parole con cui Nadia stessa ci racconta il laboratorio e l’esperienza di scrittura. Buona lettura!

Sui margini

Di Giovanna Gravina

 

Parole sommesse, fatte di tristezza e speranza assieme, si mischiavano a un profumo speziato e riempivano l’aria attorno, altrimenti immobile. Sembrava che tutti trattenessero il respiro ed io mi sentivo ancora più piccola, senza peso e senso in quel contesto.

Al contrario della figura in croce che aveva portato conforto, partecipavo a quella situazione, per me nuova e in qualche modo surreale, fungendo semplicemente da spettatrice. Stavo a guardare, nulla di più, nulla di meno.

Alcuni uomini si avvicinarono. Indossavano abiti ed espressioni simili e sembravano, osservandone il passo, pesare più delle figure in pietra. Uno di loro, che dalla mia prospettiva potevo vedere nel dettaglio, aveva una piccola cicatrice sul volto. Pensavo che, spezzando la linea del labbro superiore, quella ferita ne avrebbe comunque limitato il sorriso e l’avrebbe in un certo senso falsato. Un tipo triste – o apparentemente tale – in una situazione triste. Perfetto. Anche lui aveva lì un ruolo preciso, era “giusto” in quel contesto.

Mi sentivo ancora più sola.

Gli uomini presero la scatola e, con essa, anche me e quello che era sulla croce tornò a fissare un punto indefinito del tetto, come a tessere con esso un intenso, muto dialogo.

Attraversammo, dondolando, il grande portone che ci separava da un piazzale. La luce esterna mi avvolse, colpendomi in modo tanto repentino e violento da procurarmi la netta sensazione di poter perdere conoscenza. Il movimento ebbe fine e con esso l’ondata di sole. Poggiata su un piano, sotto una spessa lamiera, mi riebbi.

Vicinissimi vidi l’uomo e la bimba.

Dietro, a fissare un po’ loro due, un po’ noi a vario titolo ospiti della scatola, c’erano tutti gli altri, sparsi intorno come pietre messe a caso su una corona. Tutti avevano lo sguardo perso di chi non sa bene cosa dire o cosa fare; eppure era chiaro che obbedivano a un rituale preciso e ciascuno, nel non far nulla, svolgeva in realtà la propria parte in maniera meticolosa. Un vecchio, sottobraccio a una ragazza magra, con la carnagione tanto scura che faticavo a rintracciare sul suo volto il limite degli occhi e dei capelli, si era fatto avanti per primo. Rompendo l’indugio, l’imbarazzo generale, aveva posato una mano sulla spalla dell’uomo, risvegliandolo per un attimo dal torpore pensieroso in cui risiedeva. Questi, voltandosi, aveva accennato col capo e mosso un angolo della bocca per un breve sorriso grato, tornando poi velocemente a concentrarsi su di me, sulla figura in croce, sulla scatola lucida.

La bambina, lasciando la mano che per tutto il tempo aveva tenuto stretta, mi si avvicinò. Mi sentii sollevata in maniera gentile, e mi ripiegai mollemente su me stessa, assecondando la presa. Ne avvertivo il tremore, ma sentivo anche che con lei ero al sicuro, che quel tocco era piccolo ma saldo. Indietreggiando, tornammo entrambe verso l’uomo, che la guardò teneramente, commosso dalla carezza che mi riservava sul palmo in cui mi aveva poggiato.

Sono da allora passati molti anni. Non sono più tornata su una scatola. La mia casa, da quel giorno è sempre stata un grande barattolo di vetro con dentro un liquido rosato e inebriante. La bimba, rientrando, mi ci immerse con cura e mi riempì di presenza e di attenzioni, rendendomi a tutti gli effetti parte della famiglia. Ancora oggi, tra i mille impegni che ha assunto col divenire donna, si sofferma spesso a guardarmi ed è proprio in quella carezza di sguardi che ha trovato senso la mia esistenza.

Una voce senza volto, smesso ogni pianto, riprende una nenia: “Vivo da sempre sui margini d’un fiore…”.

 


 

 

Incontrarsi a distanza tramite la scrittura

di Nadia Terranova

 

“Il mio soggiorno si trasformò per tutte noi nel regno della libertà più assoluta. Un vero paese delle meraviglie. Sedute intorno al tavolino, coperto di mazzi di fiori, entravamo e uscivamo dai nostri romanzi. Guardandomi indietro, mi stupisco ancora di quanto abbiamo imparato, e senza nemmeno accorgercene. Nabokov lo aveva descritto, quello che ci sarebbe successo: avremmo scoperto come il banale ciottolo della vita quotidiana, se guardato attraverso l’occhio magico della letteratura, possa trasformarsi in pietra preziosa”.

[“Leggere Lolita a Teheran”, Azar Nafisi, Adelphi, traduzione di Roberto Serrai]

 

Quando, nella primavera scorsa e in piena clausura nazionale per pandemia, Nancy Antonazzo mi contattò per chiedermi se avevo voglia di tenere un laboratorio di scrittura con un piccolo gruppo di donne messinesi, mi dissi egoisticamente che quegli incontri sarebbero serviti soprattutto a me: a sentirmi vicina al mio Stretto, al mio mare. Mi dissi che il rumore che la notte veniva a visitarmi nella mia casa romana non era il frigorifero, e no, non erano allucinazioni uditive, ma il mare che mi stava esortando a trovare il modo giusto per riavvicinarmi alla mia città. Il modo giusto, per me, è sempre la scrittura. Infatti, in clausura, stavo lavorando a un progetto su Messina. Ma adesso mi veniva incontro la scrittura delle altre, con un portato prezioso: avevo voglia di guardare dentro le vite, le case e le stanze delle donne della mia città, scoprire come passavano le giornate, cosa pensavano, cosa avevano voglia di scrivere nelle settimane in cui scoprivamo i confini delle distanze. Quanto alla formazione del gruppo, mi fidavo di Nancy, della sua competenza e del suo entusiasmo, e del gruppo “Terremoti di carta”, una bellissima realtà letteraria di aggregazione e scambio, che da anni lei ha creato e con serietà gestisce. Avevo già lavorato con i “Terremoti”, in passato e in presenza. Adesso, certo, le cose erano molto diverse.

Decidemmo che il laboratorio si sarebbe tenuto ogni sabato, per un mese. Che ci saremmo ritagliate un’ora strana: da mezzogiorno all’una. Un’ora che permetteva alle più giovani di svegliarsi con calma e a quelle con troppa famiglia sulle spalle di occuparsi del pranzo, un’ora che lasciava l’illusione di un sabato sera libero anche se non dovevamo andare da nessuna parte e non inficiava il lavoro settimanale anche se lavoravamo tutte da remoto.

Chiesi a Nancy di condividere con le iscritte un racconto di Rina Durante che mi commuove sempre, ogni volta che lo leggo. Rina Durante è una delle tante grandi scrittrici sottovalutate del Novecento, era nata a Melendugno, in provincia di Lecce, nel cuore della Grecìa salentina, e poco prima che l’Italia chiudesse ero stata, con un mio libro per ragazzi, a tenere un incontro proprio lì, in una scuola elementare che porta il suo nome. Durante non praticava il griko, la lingua discendente dal greco, parlata a lungo da una comunità di quelle parti, poi ricusata e oggi studiata grazie a un prezioso lavoro di recupero e salvaguardia (sempre durante quel viaggio avevo conosciuto i soci dell’associazione Kalimera e il professor Salvatore Tommasi). Quel racconto bellissimo racconta del rapporto tra Melendugno e Calimera, dove invece il griko era diffuso. Si intitola “Le nostre parti” e fu pubblicato in origine sulla Gazzetta del Mezzogiorno; inizia con un racconto di Rina bambina, la nonna la redarguisce, le suggerisce di guardarsi dai calimeresi, che son gente “con due lingue”, e lei s’immagina che le due lingue siano concrete, non figurate, come quelle di un mostro medievale. Il racconto finisce poi davanti al mare, con il ricongiungimento di un griko con la terra madre, la Grecia, e un coro di saluto sulla spiaggia salentina, che d’improvviso appare del tutto simile a un’isola che guarda il Peloponneso, come se il mare che separa una costa dall’altra non fosse altro che un’illusione o una strada, e come se le due parole fossero sinonimi.

Nel primo incontro, chiesi del racconto. Era piaciuto a tutte. Ma il gusto è inafferrabile e soggettivo: piuttosto, sentii che aveva parlato a tutte, che era arrivato in fondo, che aveva sconquassato gli animi. Questo mi interessava. Questo, di solito, è ciò che mi interessa nella vita e nella scrittura (e non sempre so il confine). Chiesi di interrogarsi su due polarizzazioni: che cos’è l’identità e che cos’è sentirsi straniere. Non davo risposte, io stessa non ne avevo e non ne ho, davo domande e mi interessava genuinamente la risposta: io ero una migrante messinese in terra capitolina, reclusa e confinata da un evento mondiale che non avevo previsto, e loro, invidiatissime perché sullo Stretto, chi erano? Non lo sapevo, anche se ne conoscevo alcune, perché avevano partecipato ad altri miei incontri e perché Messina è una città di provincia, dove ci si conosce un po’ tutti. Ma chi erano quelle donne, e perché volessero rubare un’ora alla settimana alle loro vite, alle loro clausure, era un mistero che andava indagato oltre l’apparenza.

Ci siamo viste ogni settimana, come pattuito. E loro non lo sapevano, ma io spiavo gli angoli, i vestiti, le voci che venivano dalle altre stanze, le ritrosie. A volte mi sembrava di annusare l’odore di cucinato o di un crogiolante nulla festivo. Chi siete? Vi sentite straniere in terra nostra? Come abitate la vita che avete scelto e vi è stata data? Queste erano le domande che non formulavo, ma, credo, esprimevo.

Il gruppo era straordinario. L’attenzione non calava mai. I racconti crescevano, cresceva il coraggio, spuntava come erbaccia la voglia di mettersi in gioco, una voglia inestirpabile. Il gruppo si formava e l’energia passava attraverso lo schermo, attraverso le distanze: io ero lontana e loro vicine, eppure, anche se avessero voluto, non si sarebbero potute vedere. Stavo riuscendo a trasmettere calore anche in quella buffa modalità? Ogni tanto sbagliavo e giravo lo schermo verso la mia stanza anziché su di me. E loro vedevano vestiti accatastati su una sedia, libri in disordine, rossetti, la mia solitudine, le mie ore affollate. Mi sentivo nuda: un’ora a settimana, nuda. E i loro racconti, così feroci nell’esercizio di empatia o di svelamento, mi denudavano ancora di più.

Eccoli, quei racconti: non potevo che raccontarne la genesi. Non capita spesso di pensare che gli esiti di un laboratorio debbano essere pubblicati, ma qui c’è qualcosa di più. C’è una strada che donne diverse per età e interessi hanno trovato per sentirsi vicine e per dirsi qualcosa, per bucare le pareti di casa in un momento in cui non si poteva. L’insieme di questi racconti ha il fragore di una piazza di consorelle, e ognuno di loro ha dignità in sé, nella sua differenza. Quanto a me, sono stata semplice testimone di queste scritture, al massimo levatrice maieutica, ed è una di quelle poche autentiche posizioni che sono orgogliosa di aver ricoperto.

 

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Giovanna Gravina

Laureata in Lettere, docente presso una Scuola Secondaria di I grado della sua città e mamma fortunata. Ama la natura (che fotografa ogni giorno come se fosse il primo o l'ultimo della sua vita) e l'arte in ogni sua forma. Scrive, seguendo l'ispirazione, brevi racconti e poesie sperando che diano agli altri la stessa emozione che danno a lei.

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