La militanza incerta. Autocoscienza, ironia e critica nel fumetto contemporaneo

Elisabetta Mongardi, 12 febbraio 2021

C’è un legame tra le storie che leggiamo e quelle che viviamo. La storia delle donne nel fumetto è quella di un gruppo marginale dentro un’arte marginale: agli inizi del secolo scorso il fumetto è un linguaggio giovane, uno spazio di possibilità. Un pezzo di questo spazio – che, come spesso accade, viene occupato in fretta da autori maschi e bianchi – è il fumetto disegnato dalle donne nel periodo degli Underground Comix, che nasce negli anni ‘70 e pone le basi per quello che oggi chiamiamo graphic novel. Per le donne, ritagliarsi uno spazio in quel contesto è difficile, e quelle che ci riescono lo fanno con spirito di rivendicazione: se nessuno le osserva, possono fare come vogliono. È una rivoluzione piccola, che però si lascia dietro molte tracce: mentre gli entusiasmi dell’underground si spengono all’inizio degli anni ’80, le esperienze del fumetto femminile e femminista confluiscono nell’ondata di memoir da cui escono autrici storiche come Alison Bechdel, Phoebe Gloeckner, Julie Doucet… È la nascita del graphic novel: il fumetto comincia ad assomigliare a un libro, e i lettori di libri arrivano. Tra questi, molti sono donne. Raccontare le vite delle donne a fumetti, fino ad allora un atto di rottura, diventa un’operazione degna della letteratura senza figure. E mentre autrici e lettrici aumentano, la carica sovversiva delle loro storie diventa qualcos’altro.
Che cosa, però? Come cambia il fumetto delle donne quando il mercato diventa disponibile ad accoglierle? Come s’intrecciano militanza, ricerca estetica e marketing dopo gli anni pionieristici dell’underground?
Questa domanda è interessante perché il fumetto è un’arte di corpi che disegnano corpi e mette in gioco un livello che la letteratura non sempre tocca: una donna che disegna se stessa deve guardarsi, rielaborare ciò che vede e interrogarsi su come restituirlo a chi legge. Da questo punto di vista, poco è cambiato dagli anni ‘70 a oggi.
Due cose però sì: la prima è internet.
L’epoca del graphic novel coincide con la diffusione su scala globale di internet prima e dei social network poi, e si inscrive in una tendenza generale all’esibizione dell’io come forma di espressione: la maggior parte dei romanzi grafici di successo rientra nella sfera della non-fiction, dell’autobiografia, della testimonianza o della confessione. Fun Home di Alison Bechdel, Persepolis di Marjane Satrapi o One! Hundred! Demons! di Lynda Barry, per citarne solo alcuni, sono tutti memoir.
Il secondo cambiamento, che poi è in parte conseguenza del primo, è che comprendere le proprie esperienze in ottica femminista è diventato molto più comune. Se le donne sono culturalmente indotte a esercitare un autocontrollo costante su di sé, internet e l’entrata dei femminismi nel mainstream permettono un passo in più: autointerpretarsi. In un intreccio di consapevolezza e autosorveglianza sempre più efficiente e subdolo, la rete rende più accessibile la consapevolezza del proprio essere donna ma più difficile capire cosa farsene. Le eroine della letteratura classica non avevano, forse, una visione tanto lucida della loro condizione. Il modo in cui le Emma Bovary e Anna Karenina rifiutano le imposizioni sociali, il loro sottrarsi a una trama scritta da altri, è più lineare, più tragico e, in un certo senso, più ineluttabile. Le eroine del fumetto, venute dopo quelle della letteratura, hanno più opportunità e più strumenti, ma vivono gli stessi drammi. Fin  dall’adolescenza.

Rappresento il progresso

Molte adolescenti letterarie hanno un aspetto in comune: sono ragazze consumate dalle aspettative. Personaggi come Esther Greenwood de La campana di vetro di Sylvia Plath, Jane Eyre o Lila e Lenù del ciclo de L’amica geniale di Elena Ferrante, – per citare esempi da epoche e contesti diversi – continuamente costrette a misurarsi con i limiti di una società patriarcale, incarnano un concetto chiave espresso da Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso: il dramma di farsi donna nel mondo sta nella “separazione tra la consapevolezza di essere umana e la vocazione a essere femmina”. Molte adolescenti del fumetto hanno un destino simile.
In E la chiamano estate di Jillian e Mariko Tamaki (2014), considerato un caposaldo del romanzo di formazione a fumetti, le protagoniste Rose e Windy si affacciano alla pubertà in modo opposto: Windy, ancora bambina nell’aspetto e nei comportamenti, è immune allo sguardo altrui; Rose, osservando i ragazzi più grandi, comincia a capire cosa ci si aspetta da lei e a modellare il suo desiderio di conseguenza. Innamorata di Dunc, un ragazzo più grande, immagina l’intero arco della loro possibile relazione: “Chissà se io e Dunc ci sposeremo. All’inizio vivremmo in un appartamento. Con un lavoro normale. Poi. Poi troveremmo un lavoro migliore. E. E lui andrebbe a studiare medicina. Uhm. E io avrei tempo per avere un. Bambino. Perfetto”. Questa sequenza è una soglia: alla fantasia istintiva di Rose si sovrappone subito quella indotta di una vita di coppia “normale”. Nelle società neoliberali è difficile distinguere tra i propri desideri e quelli introiettati, e per una ragazza che si avvicina alla pubertà il desiderio può determinare il tipo di vita che l’aspetta. Il sogno romantico di Rose non si realizza, ma più osserva Dunc e i suoi amici, più si fa profonda la sua dissociazione.

Freddy, protagonista di Laura Dean continua a lasciarmi (2019), uscita anche lei dalla penna di Mariko Tamaki, vive una scissione simile a quella di Rose, ma a differenza sua la riconosce. Freddie sta con Laura, una ragazza più grande e più popolare che, appunto, continua a lasciarla. Il problema è di nuovo una questione di desiderio e aspettative: Freddy sogna un amore esclusivo, Laura vuole frequentare altre ragazze. Il tira e molla continuo allontana Freddy dalle sue amicizie, la fa sentire alienata. Lontano dai tramonti malinconici di E la chiamano estate, la storia di Freddy e Laura accade in città, dove non c’è bisogno che la natura faccia da correlativo oggettivo: come una qualsiasi adolescente occidentale con un cervello e una connessione a internet, Freddy sa benissimo cosa le sta succedendo: “Ovviamente sono consapevole che ci sono attivisti LGBTQIA che hanno combattuto per secoli perché io potessi mandare tutto all’aria così. Sono consapevole che dovrei essere grata di poter essere lasciata e umiliata pubblicamente proprio come i miei amici etero. Rappresento il progresso”. Un progresso che non riesce davvero a incarnare, come dimostrano i tentativi, tutti falliti, di avere con Laura una relazione poliamorosa.

Nel memoir Trottole, Tillie Walden racconta il dilemma del suo alter-ego Tillie, giovane campionessa di pattinaggio su ghiaccio: Tillie ha un grande talento, ma odia pattinare. Incapace di ammetterlo, gareggia per dodici anni, durante i quali ha la sua prima relazione con una ragazza e scopre che la sua vera passione è il fumetto. “Penso che questi eventi abbiano influenzato il mio rapporto con il pattinaggio perché quando sei in pista devi mettere in scena una versione di te per il pubblico, e questo diventa difficile se l’immagine che hai di te cambia e si evolve continuamente”, scrive. Le pagine di Trottole sono piene di finestre: quelle del palazzetto dove Tillie si allena, quelle della macchina, gli schermi dei telefoni su cui guarda i tutorial per imparare a baciare con la lingua. La sua posizione (e la nostra, di riflesso) è sempre quella di chi osserva da fuori – come Rose in E la chiamano estate. Sparisce così l’elemento tragico: se il dolore è trasparente, ci si può guardare attraverso. Le eroine classiche, costrette in un mondo che non lascia spazio ai loro desideri, spesso finiscono per esserne schiacciate (basti pensare a quante scelgono il suicidio). Quelle contemporanee, invece, possono leggere la loro sofferenza. Ma difficilmente questa lettura porta una soluzione, anzi genera altra sofferenza.

Il senso del tragico manca anche in storie di formazione più conflittuali, come P. La mia adolescenza trans di Fumettibrutti (2019). P. è una ragazza trans cresciuta in una provincia del sud Italia che, senza appigli o riferimenti per capire ciò che vive, assorbe lo sguardo esterno, violento e giudicante, e lo incarna: ha relazioni degradanti, dorme per strada, comincia a tagliarsi. Nella seconda metà del libro, quando comincia un percorso di transizione, l’esibizione della sofferenza si ribalta: dove ci aspettiamo di leggere una storia di sopravvivenza, troviamo la normalità. P. non si racconta come vittima, ma rivendica l’ordinarietà della sua storia. Forse è un segnale che qualcosa è cambiato nell’immaginario adolescenziale: le ragazze interrotte non si interrompono più.

L’unica cosa che ci resta

Da adulte, molte protagoniste vivono in uno stato di iperconsapevolezza che rende la vita nel tardo capitalismo una sorta di schizofrenia costante. I temi che negli anni ‘70 erano imbracciati per dare una lettura politica della condizione sociale, domestica, pubblica delle donne, oggi sono diventati una questione di scelta individuale. Due esempi: i costumi sessuali e le scelte riproduttive.
La quarta di copertina di Non so chi sei di Cristina Portolano, la storia di una donna che, dopo la fine di una relazione, usa Tinder per fare sesso occasionale, annuncia che “la rivoluzione sessuale è arrivata”. Anche se all’uscita del libro, nel 2017, in Italia il tema è ancora inusuale, non si può dire che sia una storia di rottura: la libertà sessuale è un tema comune e Non so chi sei è lontanissimo dall’aggressività estetica e tematica dei fumetti underground. Più che un inno all’amore libero, sembra una fotografia del desiderio ai tempi di un’esistenza iperprecaria: “Non credo di far niente di male procurandomi solo un po’ di piacere” – dice la protagonista –. “È l’unica cosa che ci resta”.

Un segnale dei tempi che viviamo: più di una donna che rivendica il diritto al piacere, oggi sembra scandaloso un desiderio tutto sommato conforme alla norma come quello di metter su famiglia. È uno dei nodi di Il futuro non promette bene di Eleanor Davis (2019), ambientato in una versione degli Stati Uniti appena più distopica di quella attuale, in cui Mark Zuckerberg è diventato presidente e il disastro ecologico è dietro l’angolo. La protagonista, Hannah, vive in un furgone col fidanzato Johnny, un post hippie disoccupato; sta provando a rimanere incinta, nonostante il futuro appaia terrificante, e si divide tra il lavoro di badante e l’attivismo in un gruppo ambientalista. Ma in un paese che ha scelto il fondatore di Facebook come presidente, incarnare identità multiple è impossibile: Hannah può essere madre o militante, e ogni identità cancella le altre. mai di fumetto perché non ce ne intendiamo quindi questo è un contributo assai prezioso.

Qualcosa di cui ridere

Se dal sistema non si può  uscire, lo si può almeno smascherare. C’è un’ondata di fumetti comici che negli ultimi anni ha trasformato la consapevolezza di una società diseguale in qualcosa di cui ridere. Molte autrici di questo filone vengono da internet, e non a caso: la tendenza a trasformare la catastrofe in una vignetta è comune al linguaggio della rete. Aminder Dhaliwal ci ha costruito un intero universo: il suo Woman World racconta di un gruppo di donne impegnate a ricostruire la civiltà dopo che un virus ha fatto estinguere tutti gli uomini. Mentre le protagoniste cercano una soluzione al problema della continuazione della specie, Dhaliwal le ritrae impegnate in piccole disavventure quotidiane. L’effetto comico viene dall’inconsapevolezza: molte non ricordano il mondo di prima, e trovano normale sperimentare congedi di maternità lunghi due anni, una sessualità più fluida e il diritto a non lavorare nei giorni del ciclo. Il mondo di Dhaliwal, nella sua leggerezza, ricorda alle lettrici che le condizioni materiali della loro esistenza non sono inevitabili.

La francese Anne Simon fa un’operazione simile in La Geste d’Aglaé. Aglae è una ninfa dell’acqua che passa il tempo a nuotare insieme alle compagne. La sua caduta comincia quando si innamora di un uomo, che la mette incinta e la abbandona. Cacciata dalla sua comunità, Aglaé dichiara: “Odio tutti gli uomini”. Dopo, finisce in un circo; viene rapita e venduta a un re, che poi uccide per sottrargli il trono; diventata imperatrice, si innamora di un uomo-roccia, rimane di nuovo incinta e, assorbita dalla maternità, perde il regno. La parabola di Aglaé mostra che le aspettative per una donna sono così sproporzionate rispetto alla sua vita materiale che è impossibile non vederla fallire.

Ridendo del femminismo, autrici come Simon svelano il paradosso di sentirsi una donna consapevole in un sistema che rimastica quella consapevolezza e la trasforma in oppressione. Anche se i modi in cui si può essere donna nel mondo occidentale sono cambiati molto nell’ultimo secolo, in queste storie le questioni di fondo restano quelle “classiche”: l’amore, le relazioni, i condizionamenti sociali. Ciò che cambia è il modo di raccontarle: le eroine contemporanee non aderiscono agli stereotipi, ma nemmeno li sovvertono. Piuttosto, reagiscono a loro in modi diversi. Li smontano con l’ironia, manipolano il rapporto tra finzione e identità, esplorano gli effetti della narrazione su come una donna vede se stessa. C’è un legame tra le storie che leggiamo e quelle che viviamo, e mentre le condizioni del vivere si complicano, leggere storie di protagoniste ambivalenti e complesse vuol dire seguire il filo di un cambiamento possibile nel modo in cui scegliamo di raccontarci.

 

*Questo articolo è un estratto del volume Prendere posizione. Il corpo sulla pagina, pubblicato dall’associazione Hamelin in occasione di BilBOlbul Festival internazionale di fumetto 2020. Il volume è nato insieme a una mostra collettiva, dallo stesso titolo, dedicata alla rappresentazione dei corpi nel fumetto femminile contemporaneo: la mostra non si è potuta fare, e si terrà a Bologna la prossima primavera.

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Elisabetta Mongardi

Fa parte di Hamelin Associazione Culturale, per cui si occupa di comunicazione e organizza il festival BilBOlbul. È traduttrice per diversi editori di fumetto italiani, e ha curato mostre di fumetto e illustrazione.
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