Questo racconto fa parte di un gruppo di racconti scritti da alcune donne di Messina, raccolte in un laboratorio da una loro concittadina scrittrice che da Roma le ha seguite durante il primo lockdown. Dove sono fuggite con la fantasia? Nadia Terranova ha chiesto loro di raccontare a partire da due domande: cos’è l’identità? Che cos’è sentirsi straniere? Pubblicheremo in sequenza su LM i sette racconti che ne sono nati, felici di questo particolare incontro. Alla fine di ogni racconto potrete trovare le parole con cui Nadia stessa ci racconta il laboratorio e l’esperienza di scrittura. Buona lettura!
Natale 1945
di Daniela Arena
La bicicletta grigio-verde di papà è ferma da tre giorni. Immobile. Appoggiata al muro, sul pianerottolo di casa. Casa nostra è in Via Elenuccia, accanto all’Istituto Leone XIII. Zia Cherubina, la sorella di mio padre, è la Madre Superiora. Cherubina è il nome che ha preso con i voti, il suo vero nome è Marina. Non lo so, ma credo abbia trovato lei per noi questo piccolo appartamento. Mia madre non è di qua, qualcuno la chiama la straniera. La zia invece è messinese da generazioni e con il suo ruolo conosce un sacco di gente. Dev’essere stato quando siamo tornati da Pola, cinque anni fa. Mio padre è un finanziere di marina. Pola è stata la sua destinazione per cinque anni, io sono nato lì.
Anche oggi io e Vittorio a scuola ci andiamo a piedi, da soli. Il tragitto sembra lunghissimo e i libri pesano.
Quando ci accompagna papà si arrotola il pantalone della divisa dal lato della catena, risaliamo Via Quod quaeris in un attimo seduti sulla canna della bici, tra le sue braccia che tengono il manubrio. I libri li ferma con una molla sul sellino dietro. Papà non si affanna nemmeno in salita. Arrivati sul viale Regina Margherita è tutta pianura e siamo al San Luigi in un attimo. La settimana scorsa, prima di entrare in classe mi è uscito sangue dalla caviglia perché ho sbattuto con un pedale. Lui ha tirato fuori un fazzoletto bianco dal taschino della divisa, ce l’ho ancora in tasca.
Il San Luigi è una scuola Salesiana, forse è stata la zia a iscriverci. Io frequento la seconda media. Ci sono anche gli “interni”, quelli che dormono dentro il collegio e i ragazzi bisognosi, gli assistiti come voleva Don Bosco. Ma io e Vittorio siamo esterni e quando suona la campana papà viene a prenderci.
Entro in classe. Arriva Don Panascì. Tutti in piedi. Recitiamo un Padre Nostro.
– Aprite i quaderni.
Sono tutti uguali, copertina nera e bordi rossi.
– Come sempre, prima la data.
14 novembre 1945
– Scrivete – e inizia a dettare una poesia di Carducci.
– Arena non ti distrarre. Scrivete: apri virgolette “Ave Maria” chiudi virgolette.
Prima di continuare a dettare ci spiega che sono le ultime quattro quartine de “La chiesa di Polenta”, da Rime e ritmi. Dice che è un’ode strana perché il poeta è agnostico, ma che vuol dire? Poi aggiunge che il poeta non la recita, ma la ascolta. Continua a dettare scandendo le parole: “Ave Maria! Quando sull’aure corre/ L’umil saluto, i piccioli mortali/ scovrono il capo, curvano la fronte/Dante e Aroldo. / Una di flauti lenta melodia/passa invisibil fra la terra e il cielo:/spiriti forse che furon, che sono/e che saranno? / Un oblio lene de la faticosa/ vita, un pensoso sospirar quiete, /una soave volontà di pianto/l’anima invade. / Taccion le fiere gli uomini e le cose/roseo ‘l tramonto nell’azzurro sfuma, /mormoran gli alti vertici ondeggianti/Ave Maria.”
– Imparatela per domani.
Non mi preoccupo, ho buona memoria.
Al San Luigi c’è un cortile grandissimo. Durante la ricreazione ci giochiamo a calcio, ma senza bestemmiare. Don Pirrone ha una mano enorme ed è delegato agli schiaffoni. Dal cortile si vede il porto. A volte cerco di vedere se passa la motovedetta della finanza. Ma oggi no, papà è a casa e mia madre aspetta il dottore. Mentre ritorniamo in classe Don Pirrone mi guarda male, dice che ho i capelli troppo lunghi.
Per tornare a casa passiamo dal torrente Trapani, facciamo suonare un legnetto sulla ringhiera oggi che siamo a piedi. Vittorio piagnucola perché lo lascio indietro.
– Arrivo prima io – gli grido correndo su per le scale. Piagnucola in crescendo e mi urla che sono il solito “pazzo”, mia madre me lo dice sempre. Ho fame da morire.
La bici è sempre là. Non c’è profumo di cibo, la porta è socchiusa. La spingo piano, entro. C’è silenzio. Qualcuno bisbiglia. In camera da letto c’è una piccola folla, una vicina prova a tirar via me e Vittorio che è appena arrivato correndo. Io scappo di nuovo dentro. Papà è a letto, ha le scarpe e la divisa grigio-verde. È immobile. La mamma accanto al letto ha i capelli scompigliati e guarda fisso fuori dalla finestra.
Il 15 novembre prendo un taxi per la prima volta. Seguiamo il carro percorrendo le strade del centro fino al Gran camposanto.
Il primo dicembre mia madre mi porta dal barbiere, in piazza San Vincenzo di fronte al fioraio. Compriamo calzini, canottiere e mutande in merceria.
Tornando verso casa la zia ci aspetta al cancello del suo istituto.
– Da domani sarai interno al San Luigi, ho già parlato col direttore.
Un interno mi indica il mio letto in camerata. C’è puzza di chiuso.
Entro con le mani in tasca, in una c’è ancora il fazzoletto che mi ha dato papà. Lo stringo.
Alle ventuno don Pirrone ci fa pregare in piedi e spegne la luce.
Mi spoglio. Mi infilo dentro al letto, le coperte marroni pungono, le lenzuola sono ruvide e freddissime. Piango in silenzio, con il bordo del lenzuolo tra i denti.
Perché io, mamma?
Incontrarsi a distanza tramite la scrittura
di Nadia Terranova
“Il mio soggiorno si trasformò per tutte noi nel regno della libertà più assoluta. Un vero paese delle meraviglie. Sedute intorno al tavolino, coperto di mazzi di fiori, entravamo e uscivamo dai nostri romanzi. Guardandomi indietro, mi stupisco ancora di quanto abbiamo imparato, e senza nemmeno accorgercene. Nabokov lo aveva descritto, quello che ci sarebbe successo: avremmo scoperto come il banale ciottolo della vita quotidiana, se guardato attraverso l’occhio magico della letteratura, possa trasformarsi in pietra preziosa”.
[“Leggere Lolita a Teheran”, Azar Nafisi, Adelphi, traduzione di Roberto Serrai]
Quando, nella primavera scorsa e in piena clausura nazionale per pandemia, Nancy Antonazzo mi contattò per chiedermi se avevo voglia di tenere un laboratorio di scrittura con un piccolo gruppo di donne messinesi, mi dissi egoisticamente che quegli incontri sarebbero serviti soprattutto a me: a sentirmi vicina al mio Stretto, al mio mare. Mi dissi che il rumore che la notte veniva a visitarmi nella mia casa romana non era il frigorifero, e no, non erano allucinazioni uditive, ma il mare che mi stava esortando a trovare il modo giusto per riavvicinarmi alla mia città. Il modo giusto, per me, è sempre la scrittura. Infatti, in clausura, stavo lavorando a un progetto su Messina. Ma adesso mi veniva incontro la scrittura delle altre, con un portato prezioso: avevo voglia di guardare dentro le vite, le case e le stanze delle donne della mia città, scoprire come passavano le giornate, cosa pensavano, cosa avevano voglia di scrivere nelle settimane in cui scoprivamo i confini delle distanze. Quanto alla formazione del gruppo, mi fidavo di Nancy, della sua competenza e del suo entusiasmo, e del gruppo “Terremoti di carta”, una bellissima realtà letteraria di aggregazione e scambio, che da anni lei ha creato e con serietà gestisce. Avevo già lavorato con i “Terremoti”, in passato e in presenza. Adesso, certo, le cose erano molto diverse.
Decidemmo che il laboratorio si sarebbe tenuto ogni sabato, per un mese. Che ci saremmo ritagliate un’ora strana: da mezzogiorno all’una. Un’ora che permetteva alle più giovani di svegliarsi con calma e a quelle con troppa famiglia sulle spalle di occuparsi del pranzo, un’ora che lasciava l’illusione di un sabato sera libero anche se non dovevamo andare da nessuna parte e non inficiava il lavoro settimanale anche se lavoravamo tutte da remoto.
Chiesi a Nancy di condividere con le iscritte un racconto di Rina Durante che mi commuove sempre, ogni volta che lo leggo. Rina Durante è una delle tante grandi scrittrici sottovalutate del Novecento, era nata a Melendugno, in provincia di Lecce, nel cuore della Grecìa salentina, e poco prima che l’Italia chiudesse ero stata, con un mio libro per ragazzi, a tenere un incontro proprio lì, in una scuola elementare che porta il suo nome. Durante non praticava il griko, la lingua discendente dal greco, parlata a lungo da una comunità di quelle parti, poi ricusata e oggi studiata grazie a un prezioso lavoro di recupero e salvaguardia (sempre durante quel viaggio avevo conosciuto i soci dell’associazione Kalimera e il professor Salvatore Tommasi). Quel racconto bellissimo racconta del rapporto tra Melendugno e Calimera, dove invece il griko era diffuso. Si intitola “Le nostre parti” e fu pubblicato in origine sulla Gazzetta del Mezzogiorno; inizia con un racconto di Rina bambina, la nonna la redarguisce, le suggerisce di guardarsi dai calimeresi, che son gente “con due lingue”, e lei s’immagina che le due lingue siano concrete, non figurate, come quelle di un mostro medievale. Il racconto finisce poi davanti al mare, con il ricongiungimento di un griko con la terra madre, la Grecia, e un coro di saluto sulla spiaggia salentina, che d’improvviso appare del tutto simile a un’isola che guarda il Peloponneso, come se il mare che separa una costa dall’altra non fosse altro che un’illusione o una strada, e come se le due parole fossero sinonimi.
Nel primo incontro, chiesi del racconto. Era piaciuto a tutte. Ma il gusto è inafferrabile e soggettivo: piuttosto, sentii che aveva parlato a tutte, che era arrivato in fondo, che aveva sconquassato gli animi. Questo mi interessava. Questo, di solito, è ciò che mi interessa nella vita e nella scrittura (e non sempre so il confine). Chiesi di interrogarsi su due polarizzazioni: che cos’è l’identità e che cos’è sentirsi straniere. Non davo risposte, io stessa non ne avevo e non ne ho, davo domande e mi interessava genuinamente la risposta: io ero una migrante messinese in terra capitolina, reclusa e confinata da un evento mondiale che non avevo previsto, e loro, invidiatissime perché sullo Stretto, chi erano? Non lo sapevo, anche se ne conoscevo alcune, perché avevano partecipato ad altri miei incontri e perché Messina è una città di provincia, dove ci si conosce un po’ tutti. Ma chi erano quelle donne, e perché volessero rubare un’ora alla settimana alle loro vite, alle loro clausure, era un mistero che andava indagato oltre l’apparenza.
Ci siamo viste ogni settimana, come pattuito. E loro non lo sapevano, ma io spiavo gli angoli, i vestiti, le voci che venivano dalle altre stanze, le ritrosie. A volte mi sembrava di annusare l’odore di cucinato o di un crogiolante nulla festivo. Chi siete? Vi sentite straniere in terra nostra? Come abitate la vita che avete scelto e vi è stata data? Queste erano le domande che non formulavo, ma, credo, esprimevo.
Il gruppo era straordinario. L’attenzione non calava mai. I racconti crescevano, cresceva il coraggio, spuntava come erbaccia la voglia di mettersi in gioco, una voglia inestirpabile. Il gruppo si formava e l’energia passava attraverso lo schermo, attraverso le distanze: io ero lontana e loro vicine, eppure, anche se avessero voluto, non si sarebbero potute vedere. Stavo riuscendo a trasmettere calore anche in quella buffa modalità? Ogni tanto sbagliavo e giravo lo schermo verso la mia stanza anziché su di me. E loro vedevano vestiti accatastati su una sedia, libri in disordine, rossetti, la mia solitudine, le mie ore affollate. Mi sentivo nuda: un’ora a settimana, nuda. E i loro racconti, così feroci nell’esercizio di empatia o di svelamento, mi denudavano ancora di più.
Eccoli, quei racconti: non potevo che raccontarne la genesi. Non capita spesso di pensare che gli esiti di un laboratorio debbano essere pubblicati, ma qui c’è qualcosa di più. C’è una strada che donne diverse per età e interessi hanno trovato per sentirsi vicine e per dirsi qualcosa, per bucare le pareti di casa in un momento in cui non si poteva. L’insieme di questi racconti ha il fragore di una piazza di consorelle, e ognuno di loro ha dignità in sé, nella sua differenza. Quanto a me, sono stata semplice testimone di queste scritture, al massimo levatrice maieutica, ed è una di quelle poche autentiche posizioni che sono orgogliosa di aver ricoperto.
PASSAPAROLA:








Daniela Arena

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