Abito in un residence il cui nome è Ponte bianco.
Nei primi anni del Novecento era un grappolo di casupole sull’argine destro del Bacchiglione. Ci abitava chi traeva dal fiume cumuli di sabbia e nell’acqua ci lavava i panni. I sabionari con il bajon setacciavano il fondo, le femene de fameia ghe iutava, per trainare la sabbia con le funi, oltre a fare le lavandaie per l’ospedale. A sera, uomini e donne calpestavano le sterrate, bianche di polvere, dopo avere scansato i rovi selvaggi tra le canne e i pesi sulle spalle. Attorno: poca terra coltivata, pochi vigneti e salgari nodosi per legare i viticci.
Il perimetro di ieri, nei passi del ritorno, era campagna, oggi è a quindici minuti, dal centro di Padova, in bici, su asfalto. È via Isonzo, la strada che sovrasta l’argine verde sfalciato dai giardinieri del comune. Una scelta di nome bizzarra che avrà fatto borbottare il Bacchiglione.
Alla fine degli anni Novanta, quel grappolo fu trasformato in un residence con l’aggiunta di nuovi fabbricati. Non so se le mie stanze abbiano mattoni di un tempo risanati o siano di più novella argilla.
Quel che è verde di quel passato è un pioppo alto e vigoroso, che stringo nelle braccia senza prenderlo tutto. Bisogna essere in due, e adulti, con lunghi arti per circondare il tronco, toccandosi i polpastrelli e cercando di raggiungere la massima estensione orizzontale. In tre, se ci sono i piccoli. In quest’aprile duemila venti, prigioniera del morbo, senza nessuno accanto, non ho nessuna possibilità di girotondo.
Il pioppo centenario, con le miriadi di foglie da raccogliere a fine autunno e più di un uffa! Ma quando finiscono, l’ho salvato dal morso della sega. Allora il giardino era ancora un ammasso di zolle e cumuli di calcina. Se accarezzo il tronco, risalendo dalla base verso l’alto, sento le losanghe di corteccia rugose e all’altezza del mio petto, un taglio orizzontale. Proprio là, gli sottrassi i denti, dopo un Fermo! Che fa?, al muratore che aveva iniziato a segarlo.
D’estate esce dal tronco del pioppo uno scoiattolo che con un salto ballerino raggiunge il filo elettrico e corre veloce fino in fondo, sugli alberi del canale a sinistra della mia casa. D’inverno i rami lunghi, più di trenta metri, privi di foglie, sono la ruota di un gigantesco pavone in amore, che ha perso le penne. Tutto grigio. Ora oscillano al vento, con le gemme appena esplose e ciuffetti di foglie, rosso-verde neonato. Il dondolio dei rami alti è in contrasto con il vento furioso che in lontananza sembra prendere la rincorsa per schiaffeggiare qualcuno.
Sono in camera distesa a letto, con le tende scostate.
In questo tempo di prigionia, necessario e insofferente, le finestre della mia casa sono il ritaglio del mondo di fuori fatto di cose visibili, non tutte tangibili, come prima. Piante, alberi, persone, cani, gatti, uccelli, pioggia e luna, stelle, lampi, vento, sole. E le persone ora sono pericolose come i lampi, lontane come le stelle, il sole e la luna e intangibili come il vento. Lui può toccarmi e mi scompiglia i capelli, adesso che m’affaccio alla finestra. Io non l’afferro.
(continua 1)
#coronaviruspadova1

Elianda Cazzorla

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