L’ultimo lavoro poetico di Mariangela Gualtieri, “Quando non morivo”, induce subito ad una riflessione e ad una interrogazione. Ma il titolo, molto inquietante, sembra, in realtà, un’affermazione che prelude, ancor prima di leggere le poesie della raccolta, ad un tempo in cui la poeta avrebbe potuto morire ed invece è riuscita a resistere.
Un tempo di dolore, di travaglio interiore la cui acuzie avrebbe potuto ammutolirla, annullarla ma che, al contrario, le ha permesso di elevare un canto altissimo, scuotente la sensibilità dei lettori e delle lettrici.
È una voce, quella di Mariangela Gualtieri, tra le più interessanti della nostra contemporaneità, che sostanzia la parola poetica su un vissuto di dolore riattraversato in senso salvifico per sé e per quanti/e hanno la capacità di farsi avvicinare da quella parola, di sentirne le vibrazioni.
E la mia anima ha risposto a quella parola e a quella voce, l’ha sentita risuonare dentro come possibilità di aprirsi ad un respiro più ampio e partecipe del richiamo interiore che esige risposte di verità. D’altra parte la poesia è in attesa che il mondo la raccolga e la lasci andare verso un incontro. Solo allora i versi, composti da alfabeti differenti, riescono ad accompagnare lo sguardo verso l’alto per intercettare l’essenza di quell’arte che più di altre è vicina al cielo.
Leggendo i primi versi del libro si avverte fin da subito una profonda dimensione introspettiva, un’eco che ci ricorda continuamente il noi, il siamo. Come se il “sono”, prima persona singolare del verbo essere, non esistesse nel dizionario poetico e psicologico di Gualtieri: Siamo qui. Siamo dentro un mattino assolato. Siamo.
Quel siamo cadenzato, ripetuto, costante, ci mette insieme, diventa comunità, mondo, natura, animali, donne, uomini, bambini e bambine.
Siamo nel medesimo giro di ruota, pervasi/e da un sentimento panico che dà conto della grande fragilità umana, del siamo confusi, ma insieme, in una sorta di smarrimento vissuto, tuttavia, gli uni accanto agli altri, le une accanto alle altre, e che trasmette forza, consapevolezza di non essere soli/e in mezzo agli orchi che, nostro malgrado, esistono nella specie umana e coesistono con il male.
Così i versi si susseguono dando un senso di smarrimento e, al contempo, di incantamento estatico.
Questa è la poesia di Gualtieri: una sorta di congiunzione fra terra e cielo, uno sguardo che scruta e prova a richiamare l’umanità per ricondurla verso un’ancestrale purezza, verso quel sentimento abbandonato della pietas, perché lungo il percorso del libro è sempre avvertita e vigile la tensione all’alto, alla prossima e auspicabile “redenzione” del mondo.
La poeta crede in questo e riesce a trasmetterlo ai lettori e alle lettrici insieme alla speranza, che percorre tutta la silloge e all’amore: la parola Amore mi gira intorno. Vuole sempre venire in ogni riga.
Leggendo ci si rende conto che all’interno dei versi c’è un misticismo non adombrato, a tratti palpabile; una profonda spiritualità che mette a contatto con una trascendenza non specificamente nominata, ma a volte ricondotta a Dio, Maria, figure verso le quali la poeta prova un’insoddisfazione quasi “rancorosa” per la loro assenza dal mondo, per il loro silenzio davanti alle tragedie che attraversano l’umanità.
Ma il misticismo di Gualtieri si riversa anche nell’ammirazione per la natura, gli animali che devono avere gli stessi diritti degli umani, per i cuccioli che siano anche bambini e bambine. Misticismo è luce, è il silenzio che spesso ci circonda, il senso di fratellanza e sorellanza per tutte le creature della terra.
Una sezione del libro, dedicata all’amore per la vita in tutte le sue forme, non cela le cadute e le rinascite, gli alti e i bassi della quotidianità, la gioia e la depressione che accomunano tutte le esistenze, gli smarrimenti senza i quali sarebbe impossibile ritrovare se stessi/e.
Le sezioni del libro sono sei e ciascuna ha un titolo che di per sé compendia il senso del dettato poetico: Ecce cor meum, Animali di silenzio, Riassunto della creazione, Divinità domestiche, Specie con orchi e animali estatici, Requiem. Tutte le sezioni hanno non soltanto valore poetico, ma meditativo, filosofico e spingono al raccoglimento e alla riflessione.
Una nota a parte, a mio parere, meritano le sezioni Divinità domestiche e Requiem che chiude l’opera. Della prima la poesia – Bambina mia – colpisce più di altre perché rivelatrice di un pessimismo verso il quale la poeta esercita grande resistenza. Il mondo lasciato in eredità ai figli e alle figlie è malato, violento e l’uomo vi mette in campo la sua forza distruttrice perché è facile farlo. Tuttavia, rivolgendosi alla “bambina” le infonde fiducia, insiste sulla Bellezza del creato, la fa emergere dalle brutture: C’è splendore in ogni cosa. Io l’ho visto. Io ora lo vedo di più. C’è splendore. Non avere paura. Siamo tutto, siamo insieme… Il tuo destino è l’amore. Sempre. Nient’altro. Nient’altro nient’altro.
Così il sentimento panico avvertito fin dall’inizio dell’opera conduce alla chiosa finale, al Requiem. Come l’autunno che del morire crea un tripudio di colori, la poeta raggiunge il suo scopo ultimo: la bellezza anche nella morte fra pulsioni contrastanti, evidenza e mistero, incanto, disincanto e stupore.
Il Requiem nel portare avanti il discorso su chi non c’è più, su chi se ne è andato, ci aiuta a scoprire il legame tra poesia e teatro insito nell’identità artistica di Gualtieri che, oltre ad essere poeta attenta alla parola che lavora sulla materia dell’umano esistere, sulle sue meraviglie e sulle sue miserie, è anche drammaturga e fondatrice, nel 1983 a Cesena, insieme al regista Cesare Ronconi, del Teatro Valdoca. Un luogo dove si privilegia la sperimentazione linguistica all’interno di una visione compassionevole del mondo.
La lettura di “Quando non morivo” e delle precedenti opere di Gualtieri mi conferma che non si può attingere ai segreti che i/le poeti/e rendono silenziosi, alla dimensione di mistero tesa come la fune dell’acrobata fra un punto e l’altro dell’esistenza.
Si può tremare per paura, per assenza di verità, per durezza, per fragilità, per la consistenza di un mondo che respinge o inghiotte, ma quando la parola poetica ascende dalla profondità dell’anima, allora anche la morte ha la capacità di allearsi agli stupori senza appesantirne il respiro; anche la morte non è più silenzio, ma vita che vive nelle opere e nelle parole chiamate a sostare sulle pagine dei libri.
Mariangela Gualtieri, “Quando non morivo”, Einaudi, 2019
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥
Francesca Traina
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