Ma cosa ci spinge a scrivere delle nostre madri? A coglierle spesso al confine, o appena oltre la morte – per raccontare la loro e la nostra storia? Un fenomeno diffuso nella narrativa mondiale dell’ultimo secolo, che tocca scrittrici pressoché esordienti e famosissime: da Doris Lessing premio Nobel a Joyce Carol Oates; da Elizabeth Strout ad Alice Sebold. Irene Nemirovsky. Virginia Woolf. E per venire a casa nostra, Francesca Sanvitale e Carla Cerati; Fabrizia Ramondino; Dacia Maraini, Roberta Mazzanti, Elisabetta Rasy, Daria Bignardi, Michela Marzano, Rosa Matteucci. Elena Ferrante. Viola Di Grado; Donatella Di Pietrantonio. Dolores Prato. (E sicuramente ne ho dimenticate un bel po’).
Prima, c’erano gli uomini che scrivevano del padre – una delle tappe del romanzo di formazione. Ma, con l’eccezione della “Lettera al padre” di Kafka, ben lontani da raggiungere l’intensità emotiva rimandata dal rapporto madre figlia, con un caleidoscopio di sfaccettature e sguardi. C’è chi tenta di ribaltare le crudeltà subìte, creando una sorta di restituzione di crudeltà (Donatella Di Pietrantonio, Viola Di Grado; Joyce Carol Oates, Alice Sebold); chi tutto accoglie (Roberta Mazzanti, Francesca Sanvitale); chi prende le fotografie per vederci meglio, come nell’incipit di “Mia madre” di Doris Lessing:
C’è una fotografia in cui si vede mia madre da giovane: è una ragazzetta robusta, florida, che esprime una sicurezza tutta vittoriana. Ha i capelli legati dietro con un fiocco nero e indossa l’uniforme della scuola, un’ampia camicetta bianca e una lunga gonna scura. Un’altra fotografia, scattata quarantacinque anni dopo, mostra una donna anziana, segaligna, severa, che guarda fieramente da un mondo di delusioni e di frustrazioni.
L’ultimo, in ordine di tempo, da noi, è “La nebbia quando sale” di Donatella Schisa, terzo nel 2019 (dopo “La donna capovolta” di Titti Marrone e il mio “Amore Inquieto”, scusate l’auto-citazione). Temperature e registri assai diversi, a segnare l’unicità del rapporto con la madre – e l’unicità dei percorsi di scrittura delle donne, che non fanno romanzi di formazione, bensì romanzi del divenire: strade non tracciate, differenti per ogni scrittrice. Le scrittrici ci dicono che sciogliere quel nodo che appare inestricabile fonda un’identità, di vita e di scrittura.
Schisa coglie la madre, e l’accompagna, in quella malattia sin troppo simile alla perdita, che è la scomparsa della memoria, delle connessioni, dei pensieri logici e dell’affettività. Un evento, vissuto oggi da tantissime figlie, connotato da un profondo smarrimento iniziale; e da creativi e personali percorsi per mantenere e rinnovare il rapporto con questa nuova madre, che non ricorda niente di te e di se stessa, che a volte non ti riconosce: con lo sgomento che passa dall’una all’altra, e si riflette dentro la figlia facendola sentire piccola, impotente. Eppure è proprio il momento in cui devi farti madre di tua madre.
Donatella Schisa sceglie di scrivere lettere alla madre – fidando nel miracolo, nella magia delle parole. E continuamente s’illude e continuamente ricade nella disperazione. Con le parole cerca di stimolare, a volte di ricostruire la memoria della madre: le sue abitudini e i suoi vizi, gli episodi e le giornate che le hanno viste insieme. Capitolo per capitolo, scorre la vita della madre – e la vita di Donatella. E tutto ciò che non è stato detto, che non è stato chiarito un tempo troverà una nuova forma.
Quasi in una autocoscienza a due, la sola voce della figlia parla per l’una e per l’altra: il primo incontro del padre e della madre, il primo fidanzato della figlia, la trasgressione e la bugia finalmente confessate. Le rinunce della madre – per amore, lasciando le sue radici; per etica, decidendo di insegnare dove c’era più bisogno – e i pomeriggi d’infanzia della figlia, protetta in una casa calda, su un bel tavolo e con un quaderno a quadretti, mentre all’improvviso irrompe la vita di fuori con le sue ingiustizie.
E poi Donatella Schisa si fa insegnante a sua volta, stimola le sinapsi ingarbugliate della madre a ritrovare antichi percorsi: “Mamma, te lo ricordi l’alfabeto greco?” Nonostante il silenzio della madre: “Dai mamma. Io comincio e tu continui, sono certa che te lo ricordi” (…) “Alfa, beta, gamma…” “…delta, epsilon, zeta, eta, teta, iota, kappa, lambda, mi, ni, csi, omicron, pi, ro, sigma, tau, iupsilon, fi, chi, psi, omega.”Sì, la madre ha ricordato, sì le piaceva tanto. Sì, un circuito di memorie si è riattivato: il compagno di scuola bravo in greco che l’aiutava perché ne era innamorato, un professore e un farmacista che le facevano una corte discreta, di cui lei arrossiva…
Con pazienza, entusiasmi e deludenti arresti, la figlia sciorina alla madre tutti i tasselli di un puzzle: amiche, lutti, case, anziani da accudire, risate e dolori, argomenti un tempo tabù (come la bellezza), per non arrendersi a quell’angoscia delle sette di sera, quando il giorno cede alla notte e Donatella deve confessarsi che – oggi, e magari ieri, e da qualche giorno – non è riuscita ad andare a trovare la madre, annichilita da una consapevolezza: “E allora a che vale il gesto, se non riesce a squarciare nemmeno per un attimo l’ovatta bianca nella quale vivi?”
Fino alla consapevolezza più dolorosa di tutte: siamo noi a soffrire di quell’assenza, di quel buio che ha riempito la testa della nostra mamma che non ricorda più. Siamo noi ad aver bisogno di lei – mentre per lei, forse, questo è un periodo di serena e a volte persino gioiosa inconsapevolezza.
Ritorno allora a pensare alla meravigliosa catarsi della scrittura – mi s’affollano in testa brani e mooddelle innumerevoli scrittrici che hanno raccontato del loro rapporto con la madre. E torno a chiedermi: cosa ci spinge a scrivere delle nostre madri? Cosa ricaviamo da questi racconti.
È un percorso in tre, riconoscibili tappe. All’inizio la scrittura ci permette di sciogliere quel nodo stretto (nella gola, nel petto, nella pancia) che la perdita della madre – vicina, lontana, imminente; già avvenuta; solo immaginata: a volte persino desiderata – prefigura. Salgono ricordi, rimorsi, rimpianti. La pagina si riempie di sfoghi, pensieri, scene, dialoghi. Una scrittura terapeutica si potrebbe dire. Poi la ricerca della parola “giusta”, dell’essenziale che permetta di condividere con altre/altri il racconto, che faccia di una storia personale qualcosa che vale per tutte/i. E quando il libro è pronto ad andare nel mondo, insieme al turbinìo di tante emozioni (paura orgoglio smarrimento gioia), appare la trama.
Sì’. In qualsiasi romanzo di questo genere, per quanto possa non essere evidente a prima vista, si dipana una trama – la trama della relazione, che attraverso la scrittura evolve e percorre tutte le tappe che uno sceneggiatore accorto consiglierebbe: la relazione fra madre e figlia parte da un inizio doloroso e conflittuale per arrivare allo scioglimento, per mezzo di ricordi, memorie condivise, dialoghi e scene vive. Trama che, come ogni buona regola pretende, mette in scena un conflitto: l’eterno pendolo fra il desiderio/bisogno di essere simili e la necessità di essere diverse (specialmente per la figlia). E le ombre che danno movimento alla loro relazione. La scrittura sembra allora restituire tutte le ambiguità della simbiosi materna. E fondare nuove identità.
Resta il problema della distanza da prendere perché il percorso in tre tappe abbia luogo – perché il racconto della madre non resti uno sfogo buono solo per noi. Ed è una doppia distanza. La distanza che dà la scrittura – e la distanza prodotta dall’evento (malattia, morte, perdita di memoria della madre), che ha fatto depositare, come in un alambicco, tutte le scorie che il tempo aveva accumulato. Fino a quella materia trasparente dalla quale possiamo vedere attraverso, con la limpidezza dello sguardo non più soggiogato:
E accetto serena un’interdipendenza che non scioglierò mai, basata su differenze che mi sono sempre più evidenti e somiglianze che mi sorprendono sempre meno. Nella scrittura sono più facili da confessare: qualcosa fluisce più liberamente, perché svincolata da un imperativo che era (è ancora?) al tempo stesso viscerale e politico, quello di essere – o perlomeno diventare – dissimili dalla madre (Roberta Mazzanti, “Sotto la pelle dell’orsa”).
Donatella Schisa. “La nebbia quando sale. Lettere a mia madre e non solo”, L’Erudita, 2019
Roberta Mazzanti, “Sotto la pelle dell’orsa”, Iacobelli, 2015
Titti Marrone, “La donna capovolta”, Iacobelli, 2019
Nadia Tarantini, “Amore Inquieto”, Iacobelli, 2019
A cura di Anna Maria Crispino, “Oltrecanone”, Iacobelli, 2015
Ilmanifestolibri, 2003
A cura di Paola Bono e Laura Fortini, “Il romanzo del divenire”,
Iacobelli, 2007
Nadia Tarantini
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