Nel 2001, proprio l’11 settembre, uno spettacolo dello scrittore cileno, morto per il virus, era rappresentato in Italia: si ricordava l’anniversario del golpe contro Allende e in quello stesso giorno New York veniva attaccata. Una spettatrice di allora racconta.
Di Bruna Laudi
Ogni generazione è condannata a vivere tragedie: guerre, catastrofi naturali, epidemie … La mia, in Italia, è stata una generazione fortunata, perché non ha vissuto guerre, le ha solo sentite raccontare. I miei genitori invece vissero da bambini o neonati la prima guerra mondiale, da adulti la campagna razziale prima e le persecuzioni dopo, la seconda guerra mondiale, i bombardamenti, le fughe notturne, la negazione e successivamente il cambio della loro identità, il terrore per le loro bimbe.
E noi? Abbiamo vissuto il boom economico, il progredire di tecnologie sempre più avanzate, dalle prime lavatrici e i primi frigoriferi ai potenti smartphone, che ci permettono di dialogare con i nipotini lontani, vivere passo dopo passo i loro progressi (chissà se la nostra piccolina pensa di avere due nonni in scatola?). Però anche noi siamo stati sfiorati da alcune tragedie epocali: il terrorismo degli anni ’70, l’omicidio di Moro, le crisi economiche, la sensazione di decadenza del paese e l’11 settembre 2001, con la paura di una terza guerra mondiale alle porte …
Vi chiederete cosa c’entra tutto questo con l’emergenza Corona virus. Mi spiego. Purtroppo è morto per il terribile morbo Luis Sepulveda, che in questi anni ci ha accompagnato con le sue pagine e con la sua figura limpida di resistente. Per quanto mi riguarda il ricordo più vivido che ho di lui come narratore è legato proprio all’11 settembre del 2001. Avevamo prenotato, con una coppia di amici, lo spettacolo “Le rose di Atacama”, realizzato da Assemblea Teatro nella miniera Paola di Prali, per la sera dell’11 settembre 2001. Nel pomeriggio avevamo visto le immagini di New York sotto attacco, le Torri gemelle in fumo, i morti.
Entrammo in teatro, con l’angoscia di non sapere cosa avremmo trovato all’uscita dalla miniera: la guerra nucleare? La fine del mondo? Assistemmo allo spettacolo con un senso di oppressione, acuito dalla situazione claustrofoba in cui eravamo: ricordavamo Allende, la tragedia del Cile, nel giorno esatto dell’anniversario del golpe di Pinochet, mentre dall’altra parte dell’oceano la morte era arrivata dal cielo su New York, la città simbolo della modernità.
Oggi la morte di Sepulveda ha un significato simbolico: sappiamo tutti come sia difficile comprendere i numeri dei decessi quando non sono accostati a volti noti. Solo chi in questi giorni piange parenti o amici sa veramente cosa significano parole come contagio, terapia intensiva, respirazione assistita e la morte comunicata ma non vista, quasi come se fosse un concetto astratto. Un artista, una figura simbolo ci riporta tutti a comprendere meglio cosa ci sta succedendo e allora capiamo meglio il significato di pandemia, che accomuna poveri e ricchi, amici e nemici e che dovrebbe vederci tutti uniti per perseguire lo stesso obiettivo. Peccato che tutto questo non siamo in grado di coglierlo.
Siamo chiusi nelle nostre case, i più fortunati con comodità e spazi in cui isolarsi ancora di più, ma con la mente possiamo immaginare di volare molto in alto, come piccoli droni capaci di vedere l’immenso panorama di umanità in affanno che cerca di trovare soluzioni a problemi nuovi, totalmente destabilizzanti: siamo dentro a un evento epocale che verrà raccontato negli anni futuri da nuovi narratori: riusciranno a raccontare come siamo veramente oggi? Siamo ancora una volta personaggi in cerca di autore.
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Bruna Laudi
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