Le senza luogo

Francesca Traìna, 29 maggio 2021

A causa della pandemia gli spostamenti geografici sono stati impediti o limitati.
Al di là dei disagi psichici che si vive all’interno di sé, penso a quanti/e hanno adottato come ispirazione di vita il nomadismo, l’erranza, la dislocazione del corpo/anima vissuti come respiro, come fame che solo se esaudita riempie di senso l’esistenza e il proprio essere nel mondo e mi domando in che modo riescano a colmare il vuoto che dimora dentro di loro.
Cosa sappiamo di queste persone, tribù, popoli, la cui pratica di vita, a volte di sopravvivenza, è venuta meno? Non ho risposte. Posso soltanto tentare di indagare le ragioni che determinano le scelte di vivere nell’altrove facendomi soccorrere dalla letteratura; cercare di capire se al fondo di quelle ragioni possa esservi un viaggio alternativo per quanti/e, nello spostamento, hanno trovato l’essenza del vivere.

La scrittura e tutta la letteratura in generale sono spazi di transizione. Basta pensare a James e al modello edonistico/estetico del viaggiatore in fuga da città in città; a Joyce con la figura dell’esiliato che si sposta dalla provincia alla città ma che, attraverso la scrittura, fa ritorno costantemente a casa e alla provincia da cui è partito; a Chatwin che scandagliando la propria personale inquietudine aveva cominciato a lavorare ad un “libro nomade” accompagnato, tuttavia, da una “morbosa preoccupazione per le radici”.
Ma questi sono esempi “maschili” che mi spingono a ricercarne altri provenienti dal mondo letterario femminile anch’esso ricco di figure di riferimento sul tema.
A questo punto non può non inserirsi il pensiero della nomade Rosi Braidotti tutto giocato in chiave politico/femminista/postmoderna come risposta alla crisi della modernità, ma soprattutto come opposizione alle identità fisse, alla retorica nazionalista e razzista.
Riferendosi all’Europa, inclusiva di schemi rigidi e omogenei, Braidotti preferisce immaginarla come spazio del soggetto nomade che non abita più il centro, come soggetto della modernità, ma che viaggia nella periferia di uno spazio non più vissuto come omogeneo, come quello degli Stati/nazione, ma come “periferia”, “margine”, “differenza”, “pluralità”, in senso multiculturale contro le coazioni identitarie.
Collocandosi nel presente il soggetto nomade si assume la responsabilità del suo stare al mondo tracciando percorsi di senso e costruendo narrazioni, non dati aprioristicamente, ma intessuti di vissuto psichico, materiale e simbolico.
E già nell’antica Grecia, la donna in viaggio veniva identificata con il termine Meteca, composto di meta, che indica “mutamento”, e oikos, “casa”, in altri termini identificava le “fuori casa”.
La Meteca è, dunque, un soggetto in trasformazione, è la “senza luogo”, per questo assimilabile agli/alle esiliati/e, espatriati/e, rifugiati/e, viandanti.

Quello degli/delle esiliati o rifugiati/e politici è tuttavia un nomadismo forzato, indotto dalle condizioni politiche del paese natio. È il caso di scrittrici e scrittori che a causa di guerre o di dissenso verso il regime autoritario del proprio paese sono costretti/e a fuggire e riparare in altri continenti. Per esempio, gran parte degli e delle artisti/e siriani/e si sono rifugiati/e all’estero perché oppositori del regime di Assad. Incarcerati/e e minacciati/e di morte, costretti a fuggire, si sono rifugiati altrove, soprattutto in Francia, in Inghilterra o in America.
Una poeta siriana, Maram al Masri, da me intervistata lo scorso anno (in occasione del progetto sulla Siria organizzato dalla Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale UDIPA in collaborazione con l’università di Catania), ha raccontato la sua terribile esperienza in patria dalla quale è fuggita con il marito e il figlioletto, non soltanto perché oppositrice del regime, ma perché “marchiata”, dalla società patriarcale siriana, come donna di “facili costumi”.
Allora, scandagliando all’interno della psiche, diventa possibile pensare che l’inquietudine interiore aggredisca o semplicemente si ponga dentro il corpo/anima quando non si è in quiete con il proprio luogo e con il mondo. È possibile che ci si metta in ascolto quando si è sperimentata su di sé la sofferenza del non essere ascoltate/i e che si parli un’altra lingua quando la lingua, la cultura, la madre-terra dove accade di nascere non ti raccontano pienamente, ma tendono a confinarti piuttosto che lasciarsi attraversare.
Allora è possibile che dopo aver errato per tante irrequietezze si scopra il “viaggio” come dimensione psichica dilatata che permette l’oltre perché differisce la meta che, nel corso del viaggio, si fa sempre più oltre quella raggiunta. Così è verosimile credere che l’inquietudine interiore sfociata nell’altrove del “viaggio” risulti appagata e acquietata, se non che il tempo e lo spazio del viaggio, infinitamente elastici, restituiscono sotto altra forma, un’inquietudine all’erranza, stavolta per viverne lo spazio illimitato, il tempo del sempre ora.
E l’ultimo viaggio sarà sempre quello che verrà, il successivo che non sarà mai l’ultimo.
C’è in questo spostamento il distanziamento da sé dell’idea di morte, il suo continuo differimento.
In tutto quello che comporta movimento spaziale e psichico il “tempo” diventa centrale in noi e centrale al movimento medesimo. Quanto si è abitato diventa il passato, un luogo della memoria, ma l’abbandonarsi al nuovo non dà totale disgiungimento dal sé e il presente in cui si vive diventa soglia verso il futuro da scoprire, luogo di possibilità.

Ed è come se l’andare e il ritornare fossero generati dal medesimo desiderio e da un’esigenza che egualmente nutre ed alimenta quel desiderio, un mutuo soccorso che sostiene entrambe le tensioni. L’andare ha in sé l’esigenza di un cammino in avanti ma anche di un cammino all’incontrario, di un “nòstos”, un ritorno. Allora si può ipotizzarne l’incontro, la convergenza in un punto di sospensione ideale e/o poetico in cui l’attesa diventa centrale alla lettura dell’instabilità emotiva connessa all’instabilità residenziale.
Mentre si percorre e si legge la “nostalgia”, il luogo primario, le radici, si finisce per intercettare, rintracciare e leggere, inscritta nel presente e protesa verso il futuro, la “biografia” del proprio desiderio.
È un’operazione che diventa unica nella duplice tensione/pulsione verso il nomadismo, la stanzialità, o verso entrambe congiuntamente.
Questo andamento un po’ errante, un po’ stanziale, il confine tra l’uno e l’altro, lo immagino come una pausa musicale necessaria all’armonia dell’intera partitura che però egualmente necessita di ritmi danzati come accade all’umanità che, pur nelle soste necessarie, forzate o scelte, si porrà sempre quella domanda che fu già di Rimbaud quando costretto a fermarsi scrisse: Che ci faccio qui? e che fu anche di Chatwin durante una degenza in ospedale.

Oggi non è in discussione la ragione dell’andare, quanto l’impossibilità di andare, la sua limitazione. La pandemia ha interrotto il viaggio, ma non il desiderio/tensione verso di esso.
Così l’interrogativo iniziale può avere soltanto una risposta poetica, nel senso che la letteratura e l’arte sono di per sé spazi di libertà e movimento, il tramite del nostro incessante viaggio.
La pandemia può arrestare il movimento fisico, ma non potrà mai arrestare quello simbolico, mentale, ideale, che scaturisce dal nostro pensiero e dalla nostra creatività.
Tutto questo rende più preziosa e tenace la visione, l’immaginazione, l’idea che si possa ritornare al primigenio nomadismo ma, intanto che i giorni si susseguono, il cammino immaginato è quello che ci potrebbe condurre verso l’insegnamento di Emily Dickinson la quale, dal chiuso della sua stanza, dal perimetro del suo giardino, ha saputo regalarsi e regalarci la dimensione del viaggio nello spazio libero e immenso della poesia.

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Francesca Traina

È laureata in lettere e vive a Palermo dove dal 1990 al 2015 ha diretto uno dei più antichi Istituti Scolastici. Studiosa di letteratura e poesia italiana e straniera con particolare riferimento alle figure femminili. In poesia ha pubblicato: “Luce obliqua” (Il Vertice, Palermo 1989) “1991” (Il Vertice, Palermo 1991), “Il Poeta muore” (Vanni Scheiwiller, Milano 1998), “Dentro gli anni (Salvatore Sciascia Editore), Caltanissetta/Roma 1999 “Neve di Marzo”, CD con musiche originali dell’armonicista Giuseppe Milici, Istituto Gramsci Siciliano Palermo 2005, nella ricorrenza delle stragi di Capaci e via D’Amelio. “Linee di ritorno”, racconti e poesie (Manni Editore, Lecce 2006), “Trame del mondo Diecirighe”, Cronaca poetica e iconografica dalla rivista “Mezzocielo” con fotografie di Letizia Battaglia e Shobha (Navarra Editore, Sicilia, 2011). Vincitrice, nel 1997, del Premio Internazionale di Poesia Eugenio Montale. Per il volume “Dentro gli anni” e per altre opere poetiche ha ricevuto premi e riconoscimenti tra cui: menzione speciale al Premio Nazionale di Poesia “Diego Valeri”, Medaglia d’argento dal Comune di Palermo (Sindaco Orlando), premio al Concorso internazionale di Poesia Città di Marineo e altri. Ha fatto parte della redazione della rivista: “Issimo, I Segni della Poesia”, dal 1990 al 2009 (anno di chiusura della rivista). Attualmente fa parte della redazione della rivista “Mezzocielo”, bimestrale di politica cultura e ambiente pensato e realizzato da donne. È socia della Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale UDIPALERMO.
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