In “Diario Ottuso”, unica opera in prosa della poeta che in autunno sarà tradotto in Francia, si può forse ricostruire il viaggio di un’esule in fuga che ricerca un’origine, una provenienza, una terra fisica e simbolica a cui ri-tornare. Rosselli fu costretta, dopo l’assassinio del padre Carlo, ammazzato dai fascisti insieme al fratello Nello, a spostarsi da Parigi, a Londra, a New York, a Firenze, a Roma
Di Francesca Traìna
Ha un senso oggi ripercorrere le pagine scritte da Amelia Rosselli; ha un senso strano e obliquo.
Mi chiedo perché senta il bisogno di parlarne, di scavare ancora dentro i suoi testi anche se so che, da sempre, cerco il legame sottile che pone in fitta genealogia scrittrici e poete scomparse tragicamente. Mi chiedo se malattia o scelta libera e autodeterminata sia il filo che le congiunge e le innalza, al di sopra del razionale, in una sfera poliedrica dove lo sfavillio delle luci non può restituire agli occhi il colore dominante, ma, ancora, lascia nel dubbio, nell’idea vaga che un insieme di cause, germinate dalla profondità della psiche, abbia favorito l’urto con l’altrove e che una qualche connessione vi possa essere tra poesia e “disagio mentale”.
Il testo che maggiormente aderisce alla mie ipotesi e al percorso che mi sono proposta è, a mio parere, Diario Ottuso.
Forse è possibile da alcuni frammenti di quest’opera, unico scritto in prosa di Amelia Rosselli, ricostruire l’intero viaggio di un’esule in fuga che, fedele a se stessa, ricerca un’origine, una provenienza, una terra fisica e simbolica da cui rinascere e a cui ri-tornare, l’originario alfabeto cui ricongiungersi e da cui ancora dipartire.
Forse è possibile nell’aperto della pagina giocare la scommessa tra chi scrive e chi legge, tra chi dice e chi ascolta nel tentativo reciproco di sentire per con-sentire.
«Se è vero, storicamente parlando, che il significato di una storia può emergere soltanto quando essa è giunta alla fine», scrive Arendt, allora è possibile, alla fine della vita, avere il senso della vita stessa. L’accostamento può sembrare azzardato, ma la rilettura di Diario Ottuso ha prodotto nuovo senso e ha mosso me, donna e lettrice, ad altro sentire.
È ipotizzabile che la “fine” di Rosselli segni l’iniziale avvicinamento ad una verità, ad un senso che lungi dall’essere assoluti, ci pongono nel diverso ascolto del testo perché diverso e rinnovato è il desiderio di ascoltarlo e ricomprenderlo a tempo finito, a vita finita, quando “la luce esatta” è tale perché ha chiuso l’arco dello smarrimento nel punto cercato dell’approdo.
La ri-lettura può valere per tutte le opere di Rosselli e per quelle di scrittrici e scrittori che abbiamo “imparato” all’interno delle categorie della critica neutra in uno schiacciante condizionamento. Uscire dalle scuole di lettura, seguire il proprio desiderio entrando in relazione con l’altra/o, con il testo, che è espressione di una soggettività, significa agire la libertà del partire da sé come sapienza e pratica dove nessuna direzione è data ma dove, mettersi continuamente in gioco, a confronto, in ricerca, vuol dire anche costruire un sapere femminile.
Nella “luce esatta” tutto è più chiaro tranne l’indicibile proprio della luce, quella che comunica altra luce e il cui mistero non è dato di spiegare:
«Lei fuggì, fuggì, si risparmiò e (errore) non si fece viva. Si lasciò cadere nel pozzo maligno; il fondo era una luce tutta eguale … Partì senza dire a nessuno perché partiva: partiva ed era obbediente agli altri nel partire, essi che preferivano che lei partisse: Partì, e fu come togliersi la giacca, tutta indaffarata nel partire, e pensare: perché sono partita? perché mi hanno fatto partire? Non so perché sono partita, si disse, e nemmeno voglio sapere perché essi hanno voluto ch’io partissi, si disse, e ora non ho nemmeno voglia di partire, pensò partendo (…) E così fu luce esatta: si convinse d’aver trovato la sua dimensione vitale: il non sapere, il non vedere, il non capire.»
Questa prosa difficile, interiore, ci lascia nella suggestione del mistero che Amelia porta con sé e ci conduce all’interno di una labirintica fascinazione dove lo stupore è dato anche dalla deformazione di ciò che potrebbe essere forma e non lo è, di ciò che potrebbe essere codice e non lo è, di ciò che potrebbe essere e forse lo è, gioco in cui gli elementi del gioco appaiono rovesciati, sconosciuti, imprevedibili. Il gioco tuttavia ha rosselliane regole dove favola e tragedia convivono nell’humus dolorosamente ironico e nella lingua autoinventata che fanno da sponda ad un percorso di domande e dubbi rimasti tali, ma che non hanno precluso la ricerca di risposte mai trovate.
Diario Ottuso porta già in sé quanto Rosselli ci dirà da quell’anno in avanti. Ogni parola contiene il desiderio di assenza, di fuga, il corpo a corpo tra il to be or not to be, il complesso nodo amletico che la poeta ripropone a se stessa e nel quale coniuga anche il suo amore per Shakespeare.
Infine è partita, ha districato il nodo non in direzione del buio bensì in direzione di “una luce tutta eguale” che ancora è luogo di un “appuntito domandarsi dove si era” e perché, luogo rotondo, profondo, il cavo dell’ombelico della terra, il pozzo dove la luce, forse perché tutta eguale, è luce esatta.
Le opere di Amelia possono essere ri-lette all’interno del pensiero della differenza pur sapendo che la poeta non ha mai assunto, come taglio, la differenza sessuale, anzi affermava l’impossibilità a riconoscere sul piano linguistico la differenza sessuale che, semmai, avrebbe potuto rivelarsi attraverso i contenuti, i temi trattati dalle donne e non attraverso la lingua.
Paradossalmente, in contrapposizione a quanto detto dalla poeta, noi possiamo riconoscere i suoi scritti proprio attraverso la lingua e non grazie ai contenuti.
E il dibattito sulla lingua usata da Rosselli è stato sempre aperto: dal lapsus, all’errore creativo, al paradosso, allo slang, all’invenzione pura, al neologismo e altro. Ciò che se ne può ricavare è il tentativo di aver voluto definire l’indefinibile, codificare un’anima che non chiede di essere scrutata per essere catalogata o ridotta ad una formula ma, al contrario, presenta il mistero di una lingua che forse intende comunicare proprio l’incomunicabilità, lo scollamento della parola poetica dal contesto della facile comunicazione, il distanziamento dalla funzione commerciale della poesia che non può più comunicare con un mondo che la parola svuota di ogni significato simbolico per ridurla a mero segno indicativo.
Personalmente credo che Amelia, trovandosi nell’impossibilità di assumere il codice storico come lingua, abbia finito per alterarla, inventarla, richiamare altre lingue o inventarne di nuove per dire altro, dirlo diversamente, dirlo con una lingua che produce nuovo sapere e nuovo sentire, con parole non più asservite all’esigenza della comunicazione, ma libere della propria ineffabilità.
Da qui discende la vocazione al segno trasgressivo. Non c’è in lei alcuna pretesa di rendere conoscibile la cosa attraverso la parola e la parola attraverso l’uso di una lingua convenzionale.
Sappiamo quanto Rosselli sia stata costretta, per ragioni politiche e storiche che ne videro protagonista il padre Carlo, ammazzato dai fascisti insieme al fratello Nello, ad un continuo spostamento geografico. Da Parigi, a Londra, a New York, a Firenze, a Roma.
Non è da escludere che questa peregrinazione, durante la quale non smise di studiare musica, letteratura, filosofia, matematica, lingue…, abbia causato in lei un sommovimento psichico, una frammentazione dell’identità come ricerca dell’identità medesima nel tentativo vano di ricomporla nella sua unicità per poi riscomporla.
I luoghi veri e simbolici dello spostamento sono tanti e tante sono le lingue rappresentative dei luoghi dove si sposta il corpo della scrittrice ma anche la sua anima poetica.
Amelia Rosselli è esule in ricerca, in fuga da un passato che è poi la meta da raggiungere, la memoria da ricostruire, recuperare e infine riconciliare con il presente, con le voci interiori del conflitto, con una quotidianità la cui pesantezza spinge all’estremo opposto della rarefazione quando può diventare salvifico rifugiarsi nell’onirico o nell’oracolarità allucinata e surreale.
Le tre lingue conosciute: italiano/inglese/francese, che potrebbero essere tre certezze, tre capisaldi, sembrano invece spezzare la coesione anche linguistica di Rosselli sradicandola da ogni appartenenza. Tre lingue nelle quali rimane estranea e straniera tanto da rendere tormentato, a volte disperato, il rapporto con le parole e visibile, non soltanto intuito, lo “straniamento”.
La sua realtà conflittuale e in parte caotica la pone fuori da ogni definizione classificatoria e il solo modo possibile di usare la parola all’interno del conflitto è quello di non averne né volerne il controllo, il possesso, semmai ricercare nuovi mezzi espressivi e metterli alla prova rispetto al conflitto abolendo eventuali rispondenze e ogni possibile similarità.
La lingua della poeta è infatti visionaria proprio perché racconta le visioni e non potevano che essere così una lingua e una scrittura che vogliano dare “forma” alle visioni.
Fin dalla sua prima opera Variazioni Belliche, Garzanti 1964, emerge infatti l’esigenza di trasgredire i segni della scrittura convenzionale, il rifiuto di ogni linearità e logica che sfociano in una lingua originalmente rosselliana che non ha eguali e la cui radice può ricercarsi nell’italiano, nel francese o nell’inglese. Potrebbe sembrare un marasma, invece è un’esecuzione i cui elementi strutturali raggiungono sonorità intense, dissonanti, ma ricche di musicale prosodia.
Alla partitura rosselliana non fa certamente da semplice additivo la profonda conoscenza musicale che la scrittrice possedeva. Non è sbagliato allora dire che la sua poesia produce e trasmette quel suono che è proprio della comunione e della luce, non necessariamente della comunicazione e del senso, ma della relazione che ha in sé elementi di armonia da cui spontanei scaturiscono elementi di inquieta e dinamica disarmonia senza la quale non vi sarebbe libertà di giocare, volare e violare, lo spazio immenso dell’arte per incidervi le note del proprio respiro. La comunione si realizza con l’apporto di chi è in ascolto e raccoglie quel suono, quel dire, quell’aprirsi. La comunione è la risposta all’arte, alla poesia, che vivono di sé ma per l’altro/a.
Nella scelta di scarsa conoscibilità del testo c’è dunque la volontà di farne intuire il suono, la modulazione, c’è la volontà di non appartenenza, lo sradicamento da quanto sembra assumere assetto stabile per un destino votato alla ricerca di un ordine, di una linea d’orizzonte che s’allontana inesorabilmente ogni qual volta sembra raggiunta.
Così il viaggio di Rosselli, l’erranza, sono metafora d’eterna contesa, di un andare e spostarsi all’interno e fuori di sé, un’alternanza di bassi e alti, gli stessi delle grandi composizioni musicali, quelli con i quali scandiva la metrica dei suoi versi che leggeva o cantava con voce dai trasalimenti improvvisi, assolo dalla tenuta lunga, dalla sonorità inquietante, sotterranea. Un’alternanza di voci interne ed esterne e la sfida a chi avesse più voce per vincere, se le voci dalle quali si sentiva perseguitata o quelle che dal cuore e dalla mente risalivano in forma di parole fino alla bocca o di scrittura fino alla mano per addolcirne e arginarne il flusso o per salvarlo dallo spreco: «Salvare dallo spreco il fluire del pensiero è metterlo su carta»
Il rapporto con l’esterno, con la realtà, nel tempo, sembra sempre più assottigliato, ridotto in favore di un ulteriore ripiegamento verso l’interno di sé, verso un mondo che trovava risonanza nei fondali misteriosi dell’anima e faticava ad emergere e a dichiararsi.
È a questo punto che in Rosselli sembra venir meno il collegamento con il reale, con il presente, e di questa frattura la scrittrice dovette essere in qualche modo consapevole se tentava, in modi linguisticamente efficaci, di tracciare una via di scrittura come mediazione, possibile ma improbabile, tra sé e il reale riuscendo in ogni caso ad attivare un ascolto, un’attenzione.
La poeta pratica compiutamente il conflitto, la crisi, liberando energie linguistiche lungo un processo innovativo dove la continua trasgressione è individuata e agita come strumento di forte rappresentazione della crisi medesima, del male interiore ed esteriore, che le consente inoltre il confronto diretto con il caos.
È appena il caso di accennare che la crisi di Rosselli porta in sé la crisi più generale della “rappresentazione” generata dalla piattezza collettiva, dall’eccesso di produzione non sostenuto dalla qualità, dall’abbagliante elettronica, dalla seduzione mass-mediale con la violenta imposizione di “verità virtuali”.
Negli eccessi del razionalismo la poesia tende sempre più ad affermarne l’isolamento.
La solitudine di Rosselli è il malessere di un’anima che mal si adatta ad una collocazione nel reale; è isolamento in parte scelto, in parte indotto da una società che propone l’urto, il consumo frenetico del presente nel quale pure si consuma il senso del futuro e la memoria del passato con il rischio di disperdere la storia dei “segni” e con essa la storia del mondo.
In tutte le opere di Rosselli, da Variazioni Belliche a Sleep, è dominante la ricerca di riferimenti saldi come alternativa alla fragilità di un “io” che non può manifestarsi fino in fondo in una realtà con la quale nessuna conciliazione pare possibile. Anche per questo la ricerca si sposta fino ai metafisici inglesi, John Donne per primo.
La poetica metafisica le permette di affrontare i temi più tormentati della sua poesia: la religiosità e il rapporto con Dio. Ma l’eco di Donne diventa anch’essa strumento di straniamento che ancora una volta cerca conferma nella manipolazione della lingua, nel gioco teso a turbare la parola, ad affermarla e al contempo contraddirla.
E anche l’amore converge e confligge nelle poesie prestandosi al gioco autoironico.
Sleep è soprattutto un libro di guerra con l’amore che si nega, con Dio che si nega e in questa negazione, dove anche la memoria sembra perdersi, l’ironia e un certo divertimento intellettuale intervengono come risorse umorali a controllarne la drammaticità. È ancora la sua capacità di essere straniera in una terra conosciuta, una terra avvistata da diversi angoli di osservazione, da punti aspri, altezze e profondità che non è dato ad altri/e di eguagliare.
Ma lungo il viaggio c’è una costante emersione, sulle altre, della lingua italiana dove si realizza in parte quel radicamento cercato ma non risolto, il radicamento in questo caso con il padre e con la lingua del padre. Rosselli ha infatti tentato di ricostruire la figura paterna mancante attraverso la psicoanalisi ed anche leggendo e studiando gli scritti del padre.
Forse è riuscita a recuperarne la figura politica, morale, affettiva, ma non sappiamo quanto questo l’abbia aiutata. Non dimentichiamo però che la nonna era italiana, che era anche una scrittrice, che Amelia aveva con lei un rapporto profondo e che in casa, malgrado la madre fosse inglese, si parlasse italiano.
Questi elementi ci rendono più chiare la ragioni che hanno spinto la poeta ad eleggere l’Italia come terra d’instabile dimora e a privilegiarne la lingua.
Possiamo concludere con la considerazione che Amelia Rosselli, tra tutte le fedeltà e verità possibili, abbia scelto la fedeltà a se stessa e la propria verità di donna sempre fuggita, pur avendola cercata, da una collocazione nella vita e nel mondo e di poeta sempre fuggita, pur avendola cercata, dalla pesantezza della forma.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Francesca Traina
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