Il 9 marzo scorso, inaspettatamente, è ritornato in tv, con due episodi inediti, il commissario più amato d’Italia. Ancora due intrecci post mortem del prolifico Camilleri, dopo i trentaquattro che dal 1999 incollano al piccolo schermo uno share da festival di Sanremo. E, per la felicità dei tanti estimatori, lo scorso lunedì 23 marzo, ci è stato somministrato un altro dei suoi innumerevoli racconti, La concessione del telefono, non privo dell’immancabile misogino topos, con alcune sequenze moleste se non disturbanti, di un virile protagonista e una assatanata donnetta pronta all’uso. E ancora, perché Montalbano non basta mai, dal prossimo lunedì 30 si ricomincia con le reiterate repliche.
La produzione narrativa di Camilleri, al di là degli innumerevoli Montalbano, è di sicuro pregio storico e letterario e, forse, in quanto a numero di opere, ha pochi eguali al mondo. Lasciamo il “vate d’Italia” a chi, tra presente e futuro, traghetta i valori del Canone, mentre ci interroghiamo qui sul planetario successo di Montalbano. Piace per la bellezza dei luoghi che accendono l’immaginazione del viaggiatore e della viaggiatrice incantati. Piace per un certo codice di valori, come il senso di lealtà e giustizia del commissario che lava il peso dell’umana cattiveria con una nuotata nel bellissimo golfo di Vigata (Puntasecca del ragusano), mostrando, senza pudori, un corpo di fattezza comune all’occhio generoso dello spettatore. Piace anche per l’invenzione singolare dell’intreccio. E ancora per la capacità di Camilleri di inventare personaggi credibili con i quali identificarsi. Un mondo senza tempo in cui si muove un maschile e un femminile moderno e arcaico, allo stesso tempo, dotato perciò del massimo delle identificazioni possibili. E tuttavia qualcosa infastidisce.
Da siciliana mi indispettisce: la sicilitudine stereotipa e l’uso un po’ “pasticcione” della lingua, che nessun siciliano userebbe o ha mai usato, compresa la parlata improbabile di Zingaretti. Ma si conceda l’invenzione letteraria. Mi infastidisce di più l’abuso di un dopolavoristico eloquio tra un Cadarella che mai riuscirà ad aprire una porta e un eccesso di “cabbasisi”. Un modo triviale per colorire la scena. Ma quello che mi indispettisce enormemente è la paternalistica misoginia patriarcal-popolare di cui è intrisa ogni puntata di Montalbano; accettata passivamente come parte del gioco narrativo o, ancor peggio, neanche notata.
Uno staff poliziesco tutto al maschile risolve casi difficili in cui le donne hanno ruoli di contorno e sulle quali si ammicca con stupita meraviglia su doti fisiche con commenti da osteria. Donne, in genere, discinte, semplici ma scostumate, facili, pronte all’uso, se non prostitute. Con la dovuta e ovvia eccezione di Livia, la fidanzata, nel filone moglie e madre, che saltuariamente si precipita per soddisfare le voglie e i bisogni affettivi del suo Salvo e, in ossequio ad una poco credibile modernità, liberata da regolare matrimonio. Livia non è “scostumata” in quanto legittima donna dell’eroe Montalbano, così come devono essere le mogli e le madri della progenie maschile e paternalistica di un patriarcato che da sempre, con più o meno evidenza, si impone.
Sarò eccessivamente rigorosa se penso che il segreto del successo di questa fortunata serie sia in gran parte dovuto all’identificazione dell’italiano medio di sesso maschile misogino e tavernaro, e di quello femminile, la cui mediocrità è generalmente ignara e incapace di una lettura consapevole, se non tradizionalmente accomodante sulle fantasie dei propri uomini perché, si sa, l’uomo è cacciatore. Ruolo che non poteva mancare in questa seri fortunata e che è perfettamente confezionato sul “femminaro” Augello. Insomma stereotipi fastidiosi, amati dal pubblico e apparentemente innocui ma che hanno, invece, il celato potere di condizionare e legittimare il senso comune, appiattirlo e veicolare tutto quanto di deteriore, sul femminile, risiede nei pensieri di chi guarda. Un pubblico assuefatto a corpi femminili sovradimensionati e felicemente in mostra di sé nei “malsani” talk show. La nostra insipiente contemporaneità è terreno favorevole per la “magnificazione” dei Montalbano di turno. Ma anche questo concorre alla discriminazione, alle offese verso le donne le cui conseguenze spesso si fanno esponenziali e gravissime. Eppure avevamo creduto che il cammino delle donne fosse tutto in salita. Tranne che constatare che questa salita è ancora tanto ripida.
Senza nulla togliere alla sapienza narrativa di Camilleri, soprattutto nei romanzi storici, non possiamo che indignarci della sua evidente e ricorrente ossessione per gli ingredienti di una sessualità pruriginosa. Pur avendo attraversato un secolo, con i suoi epocali cambiamenti, ci sembra che il bravo scrittore siciliano non si sia mai allontanato da una visione arcaica e misogina della sessualità e della donna. Incapace di dimenticare i sollazzi di una giovinezza patriarcal-sessista in fila agli ingressi delle case di belle damine. Lui stesso ne ha raccontato orgoglioso e malinconico in diverse interviste. Ma quello che in virile gioventù si è, ahimè, praticato e magari consentito da una società retriva, in età matura non possiamo che definirla libidine.
Mi si perdoni perciò se, da donna consapevole, rischiando di infastidire i numerosissimi estimatori e le molte estimatrici del grande Camilleri, a cui tutto è consentito, oltre che “vate d’Italia”, lo direi anche vecchietto libidinoso. La cultura ha anche un dovere pedagogico ed è la sola che ci rende liberi. Se essa aggiunge misoginia, oltre a quella che già serpeggia nel nostro sistema socio-culturale, si fa complice delle gravi conseguenze che sono quotidianamente sotto i nostri occhi.

Pina Mandolfo

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