Il terzo film di Emma Dante ci mostra una visione del mondo che abbiamo smarrito. In un universo sgangherato tre prostitute crescono con amore e attenzione l’orfano Arturo dal corpo non conforme, non bello. Una lezione geniale su come potremmo essere
di Pina Mandolfo
Uscito, senza troppo clamore, dalla 18° Festa del Cinema di Roma, Misericordia, terzo capolavoro cinematografico di Emma Dante, dopo Via Castellana Bandiera e Le sorelle Macaluso, ha fatto una inspiegabile fatica ad entrare nelle sale. L’insipienza dei gestori e della distribuzione, responsabili e complici di un sistema mediatico che sta consacrando il pubblico sempre più ad una subcultura di massa, ha negato a un ampio numero di spettatori e spettatrici la visione di questo straordinario lavoro della regista siciliana. La sua narrazione forte e risoluta, il modo estremo che non cede a compromessi, hanno determinato un pensiero preconcetto sul film e una inspiegabile “censura”. Eppure, chi ha avuto la possibilità di imbattersi nel veloce passaggio di Misericordia nelle sale, colpiti/e dalla straordinaria forza narrativa e dall’incanto di qualcosa che raramente si vede al cinema, ne decantano il valore e la bellezza che ci mostra una visione del mondo che abbiamo smarrito.
Ci sono voluti tre lunghi anni di lavoro, come ha raccontato la regista, per mettere in scena un universo desolato di baracche sgangherate, disfatte, senza confini se non una catena di montagne da un lato e il mare dall’altro. Qui ha trovato riparo una singolare piccola comunità in una solitudine priva di legami con il mondo altro, il “nostro”, quello presunto civilizzato. Quel mondo a noi noto che vorremmo scorgere nel film, fosse anche in lontananza, per il bisogno di chi quell’incuria materiale, che la regista ci impone, vorrebbe non vedere. Ma poi d’improvviso ne siamo inspiegabilmente conquistati. Emma Dante non indugia mai sul mondo ritenuto civile che per lei non ha nulla da raccontare. Un mondo di solenni messe in scena povere di compassione, in cui tutto sembra possibile a condizione che sia patinato, nuovo, in cui si distoglie lo sguardo dalla malattia e dalla morte, una realtà avida di case luccicanti e volti deformati per la smania dell’eterna giovinezza. Un “guasto” della civiltà di cui la regista ci propone solo gli echi del rantolo finale causato dalla violenza maschile che lo domina.
Ed è proprio l’invasione di quella violenza l’incipit di Misericordia. Un uomo picchia a morte una donna che fugge da lui e che ha appena partorito. Immediatamente la natura inveisce per quella crudeltà, diventa primordiale, si fracassa e, tra inquietanti fragori, dei massi rotolano a valle come in un pianto. Nella quiete che ne segue vediamo il bambino che piange in un anfratto scrutato da un essere animale, una pecora, quasi a bandire l’umana specie. La trama si sposta velocemente in un presente in cui la regista, tra bambini che scorazzano, ci mostra, nel buio perplesso della sala, quel neonato ormai cresciuto nel corpo ma che porta nella mente, forse, i sintomi di una pena antica.
Il suo non è il romanzo della nostra nascita ma quello del figlio di una prostituta. L’armonia sgraziata del suo corpo è priva di “ordine”, così come l’ambiente in cui si troverà a vivere. Un mondo quasi originario se non primitivo, il solo che, tuttavia, pur nell’indicibile e nell’inenarrabile incuria materiale, conosce la gioia pura della misericordia, antidoto contro la violenza. Betta e Nuccia e poi Anna sono tre prostitute che in una parvenza di casa, tra lamiere e suppellettili rabberciate, si prendono cura di Arturo a cui hanno dato un nome quasi epico. Lo nutrono, lo lavano, lo contengono nei suoi attacchi epilettici e nel sonnambulismo. Le donne hanno costituito, con lui, una comunità d’elezione, una sorta di inedita famiglia dai contorni scomposti eppure “puri”. Una comunità che alla violenza ha opposto una complice sorellanza capace di fronteggiare le periodiche e violente incursioni maschili. E all’emarginazione e alla povertà, ha opposto una sorta di sentimento reciproco, una primitiva passione e un senso “alto” del vivere. Donne che fanno fronte alla domesticità ma non sono annientate dal carico di lavoro. Donne che non si adattano al modello femminile di docilità e accoglienza.
La poetica filmica di Emma Dante, con la sua straordinaria unicità pedagogica, risiede nella coraggiosa messa in scena di un universo alla deriva, di un degrado materiale e morale fatali. Forse la sua è una scelta atta a simbolizzare il nostro mondo ormai scomposto e irreparabile. Oppure potrebbe essere la volontà di parlarci di un altro modo di vita, che in genere non vediamo o non vogliamo vedere, altrettanto scomposto e deprivato, ma questa volta riparabile poiché ha sostituito l’avidità e l’egoismo con l’essenzialità e la misericordia, ha accettato la sgradevolezza dei corpi, la nudità traboccante, la malattia, la solitudine e la morte. Comunque sia, il “discorso” della geniale artista siciliana non consente tregua perché non concede assoluzione a una società segnata dal potere di un patriarcato la cui violenza ha annichilito l’umana avventura.
Dopo avere assistito ad un’opera di Emma Dante, sia essa filmica o teatrale, il nostro pensiero non può che vagare verso l’anima di chi tutto ha immaginato e poi messo in scena. E la nostra curiosità ci spinge a concludere che l’autrice, oltre alla grandezza della rappresentazione scenica, sia un personaggio o meglio una persona forse irascibile ma anche, chissà, pacata. E un’artista di un sentire umano straordinario. Le sue opere possono “trafiggerci” fino a desiderare silenziarle, ma poi ci attira a sé con la sua ineguagliabile invenzione narrativa ricca di quell’elemento pedagogico che dovrebbe essere sempre una delle virtù della trama creativa.
Per accennare, infine, alle sue qualità di regia e al suo rapporto con gli attori e le attrici, è cosa nota che la Dante è inflessibile. A loro chiede il massimo e loro il massimo danno. Così come le mirabili Simona Malato e Tiziana Cuticchio in Misericordia, per non dire dell’interpretazione e delle eccezionali movenze di Simone Zampelli.
Misericordia, 2023, 95′
Regia: Emma Dante
Interpreti: Simone Zampelli, Simona Malato, Tiziana Cuticchio, Milena Catalano
Fotografia: Clarissa Cappellani
Montaggio: Benni Atria
Musica: Gianluca Porcu
Produzione: Marica Stocchi
Distribuzione: Teodora Film
Pina Mandolfo
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