Dal ratto delle Sabine alla violenza subita da Europa, l’intera nostra cultura è permeata dall’idea che la sopraffazione fisica dei maschi sulle femmine è un dato non di natura ma anche di cultura. Ma il femminismo ha rimesso la verità al centro e in tutto il pianeta le donne lottano contro il potere maschile
di Pina Mandolfo
Ci sono delle narrazioni che ci vengono da lontano, esattamente dai banchi di scuola. Una di queste è la leggenda del Ratto delle Sabine. Indimenticabile per avere colpito la nostra immaginazione nel transito dalle fiabe dell’adolescenza all’epopea e al mito propri di un canone educativo strettamente patriarcale.
Quando, è fu felice il caso, una compagna del mio corso universitario mi disse che il Ratto delle Sabine fu uno stupro di gruppo, il movimento femminista entrò nella mia vita. In me, che fino a quel momento avevo vissuto inconsapevole e mi ero nutrita di una cultura menzognera e oppressiva, di colpo tutto si affollò nella mente. Per mettere ordine lungo il cammino della mia consapevolezza, come tante altre donne, ho avuto maestre, madri simboliche e compagne di strada. Mentre oggi, in questo tempo in cui il bilancio della mia vita si fa pressante, credo di essere divenuta anch’io maestra per altre.
Tra tanto discorrere sulla relazione tra i sessi, un posto di “privilegio” occupa la violenza sulle donne che riconosciamo come sacrificio imposto alle vittime di una malevola relazione con il maschio. Costui ha trasformato un dato di natura, la forza fisica, in un dato di cultura e nel suo inquietante panorama patriarcale ha assegnato alla sopraffazione fisica un efferato posto di privilegio inneggiando alla presunta potenza maschile e alla poetica dell’eroe. E mistificando sulla pratica che in nessun altro modo si può chiamare se non stupro lo ha trasformato in gran vanto a partire dalla millenaria cultura classica trasmessa dal nostro sistema educativo.
Ce lo ricorda la nota sociologa Graziella Priulla che così scrive “… ci si domanda come mai il fondatore di Roma fosse figlio di uno stupro, il nostro continente prende il nome di una donna stuprata, l’Iliade prende le mosse da una contesa di potere tra due maschi per una donna da stuprare, il termine latino stuprum significasse ‘vergogna’ intendendo quella della donna”. Lo sappiamo bene, lo stupro è vergogna della donna. Così viene vissuto e scritto in modo indelebile sui nostri corpi. Tuttavia la pratica è talmente diffusa da non suscitare orrore sia nella semplificatoria narrazione quotidiana dei media che nel senso comune. Quasi fosse un tributo inevitabile dell’essere donna e un evento che sta nell’ordine delle cose.
In tutto ciò, la “vulgata” maschile, ne offusca ogni propria responsabilità omettendo qualsiasi pudore o azioni di autocontrollo di una sessualità predatoria, volgare e tributaria di istinti e proteggendo questa barbarie con l’intollerabile affermazione secondo cui non tutti gli uomini sono stupratori. Un modo per sminuire il fatto che gli stupratori sono maschi e attribuendo allo stupro sempre il “principio” del consenso o dell’incidente sul quale la donna si imbatte a causa del suo abbigliamento e sul suo contegno provocatorio.
Abbiamo instancabilmente confutato la turpitudine di questi pretesti che oltraggiano l’unicità del soggetto femminile da sempre mortificato da istinti degni di una società primordiale volgare, violenta e guerrafondaia. E mai come oggi vale lo slogan del glorioso femminismo: “La lotta non è finita”. E allora, se volessimo immaginare, per un momento, di rivoluzionare lo statuto dell’umana natura maschile dal più misero degli esseri al più luminoso, forse il porvi rimedi richiede un lungo lavoro di erosione del potere maschile. Difficile ma forse possibile solo con una grande complicità femminile che oggi talvolta viene a mancare.
Una grande massa che lavori per avere parte attiva nei governi e nelle istituzioni con una rappresentanza divisa equamente. Per vedere scorrere le immagini di tante donne, in posizione non ancillare ma autorevole alla guida delle istituzioni, delle multinazionali, della finanza, dei partiti. Lavorare in modo che i nostri figli e le nostre figlie portino anche il cognome della madre, le vie delle nostre città portino i nomi di tante donne taciute dalla storia, dalla letteratura, dalla scienza e dalle arti. Dovremo fare in modo che le donne vengano nominate nei discorsi privati, istituzionali, e didattici. Un’imprevista autorevolezza impedirà che le donne vengano discriminate, violentate, offese, uccise. Allora ci sentiremo fiere di aver creato una vera democrazia. Condivideremo in ugual misura una nuova libertà con le nostre madri, sorelle, zie, amiche e mogli e con loro ci prenderemo cura del mondo. Solo allora avremo la coscienza che possiamo starci dentro come soggetti liberi.
Questo articolo è parte della campagna #Unite a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Pina Mandolfo
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