Ci sono dei libri che ti inchiodano per la storia avvincente, altri, e sono pochi, per il ritmo della scrittura, le descrizioni magistrali, l’atmosfera che riescono a creare.
Cosa vedi di Vanessa Ambrosecchio, scrittrice palermitana che ha già pubblicato con Einaudi, Minimum Fax e Mondadori appartiene a questa seconda categoria. Scritto con uno stile raffinato, essenziale, sa condurti, senza resistenze, in un mondo surreale, che tocca le sfere dell’inconscio: eppure si tratta di un giallo, accostato con maestria alla descrizione di gesti e abitudini del quotidiano. Un mondo rarefatto dove “i gesti sanno di danza orientale, i passi fatti in assenza di gravità … e il buio fa beccheggiare le cose come se non fossero esattamente dove le ho lasciate, come immerse in un acquario”.
Dialoghi costruiti come monologhi, dove l’altro è solo un pretesto e le frasi pronunciate stanno sempre per qualcos’altro.
Una metafora? Forse sì, se consideriamo che il protagonista si chiama Hagar, nome biblico della straniera che diede un figlio a Isacco. O forse no, visto che è anche il nome di una fotografa surrealista inglese. E la fotografia – così come il sentimento dell’essere estranei in casa propria – c’entrano molto in questa storia.
Chi porta quel nome è infatti un fotografo il cui negozio ha l’insegna in francese Le photographe. Perché “in questa città bisogna starci da stranieri” dice Hagar. “Estraneo, forse, non straniero”, lo corregge Hyppolite, detto Hyp, il poeta fioraio che ha il negozio di fronte, e porta l’insegna I fiori del male. Vivono entrambi dentro la Galleria delle Vittorie, malgrado i sigilli posti 10 anni fa, un tempo vanto Liberty della città, e oggi ridotta a un ammasso di vetri rotti e ferri arrugginiti.
La storia è ambientata in una Palermo del futuro dove è in atto una guerra: “Palazzi implosi, squarciati come quinte sul gheriglio fossile del centro storico … un muto succedersi di palazzi e baratri, di trionfi e di rovine … le gallerie come bolle di vetro, gli edifici senz’occhi”.
E’ il grande cantiere che avanza, il racket fa terra bruciata, distruggendo la città vecchia per fare spazio alla Città Nuova, della Giustizia, costruita come vent’anni fa “coi cadaveri nei pilastri, ossa e capelli nella sabbia degli intonaci”. “Monoblocchi di vetrocemento privi di aperture … sembra fatta per dimenticare. La città della rinascita la chiamano, e invece è un animale impagliato”.
I tuoi occhi sono liberi a ciò che essi vedono/Visti da quel che guardano, ça va? domanda Hyp, che usa la poesia per stanare Hagar dal nascondiglio che si è abilmente costruito per non affrontare la realtà. Perché nel romanzo, più che le bocche, a parlare sono “gli occhi pieni di parole”.
Cosa vede Hagar che dopo le stragi di vent’anni prima aveva fatto un reportage di denuncia che aveva girato il mondo e aiutato le indagini, ma adesso che ha smesso di fotografare e stampa solo foto di altri non vede più?
Vede una mattina, nel buio della camera oscura, due occhi affiorare dall’acqua acetata che “bucano la carta e lo puntano … come se specchiassero qualcosa di mio, ma remoto”.
Hagar ha l’impressione che quegli occhi appartengano a una donna morta. “Uccisa per mano di un uomo? Morta per malattia? Maniaco o no quell’uomo mi voleva compagno di un vojerismo postumo, mi voleva complice nel dolore”.
L’uomo è un cliente, Aureliano. Si presenta ogni venerdì, un quarto prima della chiusura, a lasciare e ritirare i provini 6×6 delle foto di una ignota modella. Uno sconosciuto, eppure Hagar ha la sensazione di sviluppare per lui da vent’anni. Il coinvolgimento nella storia di Aureliano e della sua modella diventa tale che Hagar finisce per “vederla con gli stessi occhi con cui l’ha vista lui”, e deve imporsi di mettere distanza. “Come si guarda un film: senza rimetterci di persona”.
Finché un giorno la modella si materializza in negozio per chiedere l’elenco telefonico. Hagar la riconosce “per l’irregolare sporgenza nel contorno dell’orecchio destro e dalle dita vivide impazienti sui fogli leggeri dell’elenco”. Si chiama Dana e “non si sa se è vera o finta, o le due cose insieme, forse non lo sa nemmeno lei”. Ma ora ha anche un odore.
La figura di Dana che riaffiora dall’acqua acetata e “sembra lasciar passare il fiato sapido che mandano i pori della pelle”, diventata un’ossessione, col tempo si sovrappone a quella di un’altra donna del passato di Hagar, Liv, il cui ritratto è appeso in corridoio.
Insieme a Liv riaffiora il passato che Hagar ha seppellito. Quello delle stragi, “la pearl harbour della città”, quando si era tutti faccia a terra e “nessuno si sentiva più a casa propria”. Era in corso una guerra e lui, insieme ad altri, ne erano usciti sconfitti e con la voglia di dimenticare. In questo vennero aiutati dagli stessi conquistatori quando capirono che potevano riprendersi la città con la legalità invece che con le bombe e si trasformarono in “falsi liberatori per tenerci abbrancati al nostro laido passato”. A scuotere Hagar, per impedirgli di continuare a “giocare a nascondino con se stesso” sarà Hyp, che mette a rischio la propria vita per indagare sul passato oscuro di Aureliano.
Cosa lega Hagar, Aureliano, Liv e Dana? “Un patto col diavolo dal sorriso caimano?” Un segreto? O come dice Hyp declamando i versi di “Porto Sepolto” di Ungaretti “il segreto è che non c’è alcun segreto”.
Se volete scoprire di che segreto si tratta e se Hagar riuscirà mai a portarlo completamente in superfice, leggete il libro.
Vanessa Ambrosecchio Cosa Vedi il Palindromo Palermo 2018 pagine 204 12 euro
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Gisella Modica

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