Sono le prime due poesie della raccolta, strettamente concatenate tra loro, a dare il titolo al libro; la prima, dedicata alla città natia, Agram – ossia Zagabria, secondo lo storico nome che aveva al tempo dell’impero austro-ungarico – termina con il verso che dà il titolo alla seconda: <<alcune ragioni minime per cui mi sento europea>>. È un’affermazione impegnativa di questi tempi, un’affermazione politica, che subito instaura una connessione con l’impegno civile della poeta e viene risolta dal suo versificare in piccole e grandi motivazioni. Tanto per dirne alcune: i cortili che odorano di piscio di uomini e di cani “da noi” (gli abitanti dell’amata Agram) come “da loro” (gli abitanti di Vienna, Praga, Pest); la lettura di Kafka in cirillico e di Dilas in inglese; le musiche di Grieg e di Pergolesi suonate al pianoforte dalla madre e i roastbraten e gli struccoli di ciliege che, di tanto in tanto, sfornava; le tagliatelle con semi di papavero del venerdì, piatto odioso per ogni bambino mitteleuropeo; l’equilibrato nonno, lettore di Stephan Zweig, e l’insanabile ferita del sogno infranto di Imre Nagy; il ripudio di ogni fascismo e nazionalismo; il varcare i confini considerandoli soglie piuttosto che frontiere.
Su questa onda di poesia civile, che mai diventa retorica grazie allo stile prosastico e a una sottile autoironia, attraverso un arco di tempo che si dispiega dagli anni Novanta all’oggi, Richter percorre i mutamenti dei territori dell’ex Jugoslavia, che tanto ama ma di cui non condivide l’esasperata ricerca di identità, i cieli scuri delle guerre balcaniche e delle loro conseguenze in quei Paesi, l’ <<Europa fortezza>> di oggi dove ci si chiude <<con le porte di sicurezza blindata/ parola derivante dal remoto eco di radice sassone/ dove blindsta per cieco>>. Croata, nomade di spirito e di fatto per curiosità intellettuale e per progetti di lavoro, attraversa in versi le città, le culture, le persone con cui la sua mente e la sua esperienza vengono in contatto, culminando nell’accorato, pur se composto grido di “Due maggio duemiladue”, giorno in cui <<Il poeta è morto/ Il maestro se ne è andato>>, omaggio al poeta bosniaco Izet Sarajlić, che per Richer rappresenta il poeta-patria. Pur se la patria, sentita e considerata in quell’inscindibile legame che molto ha a che fare con il femminile e con il materno, si esplica, per la poeta, nella duplice nominazione di Patria-Matria. E ancora, tratteggia la Trieste in cui vive e opera ormai da quarant’anni in un esilio volontario e apparentemente tranquillo, che tuttavia non esime dalla problematica esperienza-ferita del dispatrio, a cui rimandano, nel personale e nel collettivo, fessure di senso ricorrenti ed è espressamente dedicata una delle composizioni della raccolta.
Il dispatrio, di cui Melita Richter ha vasta esperienza sia relativamente alla sua vita, sia in rapporto a quella di molte persone di varie etnie con cui si intreccia la sua attività di docente e di coordinatrice di tanti e significativi progetti multiculturali, è <<come stare perenne nell’atrio/ di un mondo assente/ essere e non essere tra la gente>>, o <<sentirsi vagabondo/ tra le parole del mondo/ cercare il filtro per il nodo di dolore/ quello che attanaglia/ e con un po’ di arte e un po’ di follia/ tramutare la nostalgia>>. Un nodo che, pur nell’assenza e nel rimpianto dell’altra sponda adriatica, sembra ricomporsi, per la poeta, nel sigillo-Mare che, come una vera e propria fede nuziale, unisce; o nella dialettica vitale del multilinguismo e della parola, che nell’assopimento della lingua materna e nella ricerca di una nuova espressività è dapprima cesura, ferita, scalfittura, e finalmente guarigione del corpo errante che, con l’acqua della vita, riesce a far convivere parole nuove e parole antiche, ripescando fresche, queste ultime, <<dall’acquario della memoria>>. Non è un caso che Melita Richter ricordi, nella lirica “La pesca delle parole”, l’amico scrittore Julio Monteiro Martins, che compare anche tra le voci della bella raccolta a sua cura“Libri migranti”(Cosmo Iannone, 2015) come emblema di chi espatria non dalla terra nativa ma dalla vita, con ricordi insostituibili ma senza libri o parole d’origine, nel desiderio di creare un idioma originale e piacevolmente misto che metta in contatto la vecchia e la nuova lingua.
Le fertili e insospettate risorse che apre il plurilinguismo echeggiano anche nell’idioma e nello stile di Richter: volutamente prosastico, il discorso si dipana sia in versi brevi sia in versi lunghi e articolati, rifuggendo dalla retorica e da ogni enigmatico cripticismo. La scrittura vuole testimoniare, e con chiarezza, le ragioni di una scelta di pensare e di essere; e il suo punto di forza è nelle sottigliezze di una lingua che, proprio dal plurilinguismo, sa estrarre sia concetti che insolite e imprevedibili rime.
C’è anche una vena più intima in questo libro impegnato, immersa nei luoghi e negli affetti familiari di oggi e di ieri: stralci di un universo più confidenziale e privato che tuttavia non è avulso dall’impegno socio-culturale della scrittrice, ma ne spiega l’origine più interiormente e in profondità. Come, per fare un esempio, l’immagine metaforica delle belle tazzine in porcellana con l’orlo dorato, in cui appare tragico e inverosimile sorbire quel caffè che nei territori della Bosnia che brucia e si sta disintegrando le sue tre etnie chiamano in tre modi diversi – Kava, Kafa o Kahva -, giacché sono il simbolo di una cultura e di un equilibrio, di quella nobile etichetta mitteleuropea che consente alla poeta di conservare Ragione e Utopia: in un mix in cui si uniscono pensiero, speranza, fratellanza, sorellanza. È il sostrato culturale che alcuni studiosi dell’arte e della letteratura della Mitteleuropa hanno definito “grande borghese”, che nulla ha a che vedere con il facile populismo delle rivendicazioni piccolo borghesi dell’oggi, ma che è espressione di quel pensiero filosofico-politico che ha condotto alle fertili rivoluzioni culturali del primo Novecento e del Sessantotto, oggi vanificate, non solo ma anche, dall’assenza di un pensiero borghese di vasto respiro. Quel respiro largo e fertile a cui si sente che Melita Richter appartiene.
Nella stessa dialettica conflittuale tra passato e presente, l’universo intimo della poeta, legato alla solare autentica immanenza del paradiso terrestre dell’isola di Lussino, è immerso in quel Mediterraneo, un tempo culla di culture, di scambi e di civiltà che oggi, per irragionevole paura e ostilità, si richiude minaccioso su se stesso nel linguaggio non più dei traffici che mescolano, ma dei respingimenti che dividono.
Ma si salvano, alla fine, gocce di sale, momenti perfetti di essere, incancellabili affetti, quasi in una mistica ancestrale della natura che sembra stillare fiducia. Vorrà davvero, questo puro azzurro, continuare a richiudersi simile a un’orca che annienta e soffoca? Come la poeta esorta, <<Smiri svoje bijesne vode (placa le tue acque furibonde),/ tramutale in brezza/ altrimenti/ né oggi né mai/ potrò coprirti di lode e gioire di tramonti dorati>>. La fine di questa lirica, che è la fine del libro, non indulge a una facile speranza, ma traccia l’onta di una ingrata, ferocemente disumana “Cattedrale di vergogna cristallina”. Detto da un’Europa-N/ovunque. Dove “N/ovunque”, da una definizione della Compagnia delle poete di cui Richter fa parte, sta per un “Dovunque in nessun luogo”, e dunque per un’Europa priva delle tentazioni pericolose dell’identità.
Melita Richter, Alcune ragioni minime, Ferrara, Kolibris, 2018, pp. 84, € 12.00
Melita Richter, Libri migranti, Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2015, pp. 268, € 15.00
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