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Le persone cambiano anche se non vorremmo. Sylvia Aguilar Zéleny si è messa sulle tracce della sorella Patricia, convertita all’islam e scomparsa dalla sua famiglia d’origine. Perché accetta la prigionia impostale dal marito e le sue violenze? Leggete “Il libro di Aisha”
di Simona Raimondo

“Non è una biografia. Non è un romanzo. Non è un ritratto. Non è una cronaca. Non è un’inchiesta. Non è un regolamento di conti. Non è un tentativo di comprendere. Ma è tutte queste cose insieme. Paradossalmente, non è su mia sorella, è su di me”.
Così, a poche pagine dalla fine, Sylvia Aguilar Zéleny, autrice del Libro di Aisha (Ventanas Edizioni, 2024) cerca di fare il punto su testo che ha scritto. Ma se questo libro, breve e intenso, non può essere definito né come un vero e proprio romanzo, né come una biografia o una cronaca o un’inchiesta, allora a cos’è che si trovano di fronte i lettori? Probabilmente a una sliding door.
Già dopo i primi capitoli, ho cominciato a immaginare Patricia, la sorella dell’autrice della cui incomprensibile scomparsa prima, e conversione religiosa poi, il libro dovrebbe parlare, intrappolata tra due porte scorrevoli, un po’ come in Sliding Doors: Helen Quilley, la protagonista interpretata da Gwyneth Paltrow, vive una specie di sdoppiamento tra la versione di sé stessa che riesce a infilarsi dentro un vagone della metro per un soffio e quella che, al contrario, quel treno lo perde. La differenza è che, nel Libro di Aisha, Patricia anziché vedere una versione di sé perdere quel treno, rimane incastrata fra le porte scorrevoli senza più riuscire a tirarsene fuori.
Succede quando, dopo avere intrapreso un viaggio di studio a Londra da ventunenne piena di curiosità verso il mondo e desideri per il proprio futuro, Patricia scompare. Al suo posto, un paio di anni dopo, a fare visita alla famiglia lasciata in Messico – la madre, il padre, i due fratelli e una Sylvia di circa quattordici anni più piccola della sorella – sarà Aisha, giovane sposa di fede musulmana nascosta sotto l’hijab con al seguito un marito turco intollerante verso chiunque osservi una religione diversa dalla sua e poco felice all’idea di avere intrapreso quel viaggio per conoscere la famiglia della sua sposa. Una sposa che lui stesso ha ribattezzato con un nome scelto fra quelli approvati dai Libri Sacri prima della cerimonia, e insieme a quel nuovo nome le ha dato anche una nuova identità che pare avere cancellato del tutto Patricia.
Parlando di quell’incontro con la sorella, avvenuto dopo la sua conversione, l’autrice ricorda di avere avuto nove anni. Una bambina quindi che aveva fatto mille domande sul perché la sorella adesso portasse quel velo e dovesse sempre coprirsi la testa, perché non avesse più il nome che i genitori le avevano dato e perché non avesse voglia di parlare di tutte le cose che di certo doveva avere visto nei suoi anni a Londra. Agli occhi della piccola Sylvia e degli altri due fratelli, Patricia diventata Aisha era sembrata un’incongruenza, una nota stonata dentro una vita che, prima della partenza, era stata serena. O almeno questo era ciò che credeva la famiglia, che proprio non riusciva a farsi una ragione di quel mutamento così radicale, tanto insensato quanto folle. Aisha sembrava, di contro, essere a suo agio durante quella visita alla famiglia nelle sue nuove vesti, e pareva cieca e sorda ai comportamenti spregiativi del marito nei confronti dei suoi genitori e di uno stile di vita che, fino ai due anni precedenti a quel momento, era stato anche il suo.
Volendo individuare un prima e un dopo la sparizione di Patricia nella vita della piccola Sylvia, lo si potrebbe rintracciare in quell’iniziale incontro tra Aisha e la sua famiglia d’origine. Dopo quel giorno, infatti, il tempo sembra fermarsi. Le piccole cose della vita quotidiana continuano ad avvenire, Sylvia e i fratelli crescono, studiano, intraprendono carriere e relazioni, viaggiano, si allontanano da casa, diventano adulti sotto gli occhi dei genitori che pure continuano con le loro vite senza più avere notizie della loro primogenita. Eppure, c’è un luogo oscuro in cui i componenti della famiglia Zéleny conservano il ricordo di quella figlia, quella sorella inghiottita da un velo sotto il quale, l’ultima volta che l’hanno vista, è sembrato stesse comoda. Per Sylvia, più che per gli altri, quella versione della storia è una bugia, e lo è stata sin dal primo giorno. Per questo l’autrice, una volta divenuta adulta e interessatasi di scrittura e giornalismo, ha cominciato a raccogliere testimonianze di chi la sorella l’aveva conosciuta quando ancora era Patricia, con l’intenzione di portare finalmente alla luce tutte le questioni che, per tutto quel tempo, erano rimaste avvolte da un’oscurità forzata.
Dietro ogni ricerca sulla religione islamica, dietro ogni intervista fatta a chi ha conosciuto Patricia nei suoi anni londinesi e poi, addirittura, nelle lettere scambiate con la sorella di Sayyib – il marito di Aisha –, Sylvia pareva non riuscire mai a rintracciare una spiegazione per quello che, giunta molti anni dopo allo stremo e all’idea che forse sarebbe stato meglio mettere fine a quella folle ricerca, senso pareva semplicemente non averne.
Alcuni anni dopo, Aisha era riuscita a mettersi in contatto con la famiglia, ma solo perché il marito glielo aveva permesso: avevano perso un figlio, e lei aveva bisogno che la madre l’aiutasse a superare il lutto. La madre, dunque, era partita con l’intenzione di riportarla a casa, di mettere fine a quell’assurdità, ma la figlia era rimasta dov’era, fra le mura che da subito si erano rivelate una prigione fatta di fanatismo, abuso, violenza, sofferenza. Perché sopportare volontariamente tutto questo? Perché sceglierlo? Perché decidere di privarsi in maniera consapevole della libertà, di una identità, dei diritti più basilari come donna e individuo nel mondo? Erano le domande che l’autrice si faceva senza sosta mentre raccoglieva materiale per Il libro di Aisha, quelle che le toglievano il sonno e le energie e che, alla fine, l’avevano assorbita così tanto da portarla a pensare che, in fondo, non era più per salvare la sorella che aveva deciso di cominciare quel viaggio di scoperta, ma per sé stessa.
“Cesare Pavese sosteneva che l’unico modo di sfuggire dall’abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi. Discendere nell’abisso. Misurarlo. Sondarlo. So che sembrerà esagerato, ma scrivere di te è l’abisso. Misuro, sondo, discendo. Non posso sfuggire. Nessuno può chiedermi di sfuggirgli. Se anche volessi, non potrei. Ora la mia vita è questo”.
Per sua stessa ammissione, durante il lavoro d’indagine e scrittura, l’autrice finisce per immedesimarsi nella sorella, per immergere la propria vita in quella di Patricia e sostituirsi a lei nel tentativo di leggerle la mente e trovare tutte le risposte alle domande che da anni la tormentano.
Quello che non è un romanzo, né una biografia né una inchiesta, diventa comunque il centro della sua vita, l’abisso di cui parlava Pavese e dentro cui Zéleny cerca di rintracciare la sorella senza successo. Non c’è, infatti, un vero epilogo nel Libro di Aisha, ma una resa. Sylvia, divenuta ormai donna, madre e figlia che di una madre che ha perduto la propria, decide, dopo avere passato oltre metà della sua vita a seguire le tracce della sorella, di lasciar perdere. Non lo fa perché non le importa capire, ma soltanto perché, a un certo punto, arriva alla conclusione che a volte alcune cose non possono essere capite. Sfuggono al nostro controllo pure se non vorremmo, così come le persone a cui vogliamo bene cambiano, pure se non vorremmo.
Come descrivere, in definitiva, Il libro di Aisha senza usare una delle etichette che è la stessa autrice a rifiutare? Questo libro è uno “strappo”, un movimento compiuto d’istinto che squarcia la carne trascinandosi dietro brandelli dolorosi di perdita, frustrazione e rabbia, ma, anche, una cicatrice d’accettazione e amore incondizionato. Nel mezzo, tra la carne viva e l’aria, stanno impigliate riflessioni potenti sul fanatismo religioso, la violenza sulle donne e il valore inestimabile di una vita libera che ha la nostra forma.

Sylvia Aguilar Zéleny, “Il libro di Aisha”, traduzione di Serena Bianchi, Ventanas Edizioni, 2024

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Simona Raimondo

Simona Raimondo è nata a Catania nel 1988. Ha cominciato a scrivere per magazine online della sua città a vent’anni, occupandosi di cultura pop e società. Nel 2015 si è trasferita a Torino per studiare Reporting alla Scuola Holden, dove si è poi diplomata in Storytelling&Narrazione del reale nel 2017. Dopo avere conseguito il master in storytelling è tornata a Catania, dove ha lavorato come content editor e social media manager per diverse agenzie di comunicazione. Nel frattempo ha continuato a coltivare la sua più grande passione: scrivere. Ha infatti pubblicato alcuni racconti con riviste letterarie quali Formicaleone, Salmace Rivista e RISME Rivista. Nel 2022 ha esordito con il suo primo romanzo, Storia di Bianca (L’Erudita) e nel 2023 un suo racconto è stato scelto per essere inserito all’interno dell’antologia Oltre il buio (Giacovelli Editore).

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