Incontro o scontro?

Simona Raimondo, 2 maggio 2024

Ricerca, scoperta e accettazione: il viaggio della giovane archeologa Daria in Iran dove incontra Payam, ma anche se stessa. Quanto è duro mescolare culture, leggi e sensibilità differenti? Intervista a Elisabetta Giromini, autrice di “Centomila tulipani”

di Simona Raimondo

Protagonista di “Centomila tulipani” di Elisabetta Giromini, è Daria, una giovane archeologa che va in missione tra le rovine dell’antica Persepoli. Lì incontra Payam con cui stabilisce un rapporto molto intenso. Ma gli scontri, in vista delle elezioni in Iran, si inaspriscono e lei è costretta a tornare in Italia, perdendo ogni traccia di lui. Il rientro è duro, il tempo scorre tra relazioni fugaci e smarrimento. Payam ha lasciato un vuoto che sembra incolmabile. Quando dopo sei anni Daria torna in Iran lui è lì che la aspetta, come se niente fosse cambiato. Abbiamo intervistato l’autrice del romanzo.

In “Centomila tulipani” emerge subito il contrasto tra amore e cultura che nasce dallo sposare un mondo di tradizioni, regole e ideali non solo diversi, ma spesso in contrasto coi nostri. Un contrasto che riesci a rendere in maniera credibile fin nei minimi dettagli. Com’è stato, per te, scrivere di una protagonista lacerata da questa contrapposizione?

Quando incontri qualcun altro, seppure questo qualcuno vive nel nostro stesso contesto, puoi prendere due strade: rimanere sulla tua o metterti in discussione. Più ci si allontana da casa, più queste due possibilità diventano determinanti. La scelta dell’una o dell’altra può cambiare le sorti delle esperienze che vivi, puoi andare incontro alla chiusura, quindi probabilmente all’isolamento, oppure all’apertura, quindi allo sconosciuto, ma anche alla scoperta e alla compagnia. Quello che vive la protagonista del romanzo è un conflitto che viviamo tutti, ma è esacerbato dall’incontro con una cultura lontana e con le persone che a quella cultura fanno riferimento. L’incontro è spesso uno scontro, le differenze sono lampanti, e quando si trovano delle similitudini ci si sente immediatamente vicini. Scrivere di Daria è stato per me naturale. La sua vita è quella di chi è sempre pronto a partire. Non so se sono riuscita a rendere sulla pagina questo modo di stare al mondo, ma è stato in qualche modo, per me, un tornare a casa.

Leggendo la tua biografia ho visto come, per studio, passione e lavoro, tu abbia viaggiato e conosciuto terre e culture diverse. Qui scrivi dell’Iran.

L’Iran è arrivato in un momento particolare della vita, mi ero da poco trasferita a Milano, facevo due lavori, uno come libera professionista e l’altro da dipendente. Avevo cominciato a stringere le prime amicizie, ma ero profondamente sola. La solitudine non mi spaventa, sono figlia unica, me ne sono andata di casa poco più che ventenne, ho cominciato a viaggiare da sola ancora prima. Per me la vera difficoltà è quella di andare verso gli altri. Non che non sia socievole, però faccio fatica a mostrarmi davvero e a lasciarmi andare. L’incontro con l’Iran è stato di questo tipo: un Paese musulmano integralista, dove la vita sociale si svolge per lo più in privato, nelle case. Dove bisogna coprirsi per andare in giro, soprattutto se si è donne. In qualche modo in quel contesto io mi sono sentita bene, al sicuro. Ma più passavano i giorni, più conoscevo persone, che mi ospitavano a casa loro, più quella condizione di socialità “privata” cominciava a pesarmi. Perché non era scelta, ma imposta da un regime. Allora, come per osmosi, ho forse capito qualcosa di più di me. Nel mio ostentare indipendenza, nella mia solitudine itinerante di donna in un Paese come l’Iran, io stavo bene perché era una scelta, più o meno consapevole. Per gli altri, invece, era obbligatorio chiudersi in casa per essere sé stessi. Credo che sia questa la scintilla che ha fatto scattare la scrittura.

Soffermandoci su un altro dei temi centrali nel tuo romanzo, vorrei chiederti quanto, durante la scrittura, fossi consapevole della componente politica e come mai hai scelto di inserire al suo interno fatti come le rivolte dell’Onda Verde dopo le elezioni del 2009. 

Questo non è un romanzo politico, ma concordo che la dimensione politica abbia una sua importanza. Ho scelto quel preciso momento storico perché, parlando con le persone, leggendo, documentandomi, mi sembrava che fosse stato l’ultimo vero momento di speranza dopo la Rivoluzione del ‘79. Ho conosciuto tanti iraniani e iraniane della mia età e quasi nessuno è mai uscito dal Paese, praticare l’inglese è per loro un’occasione importante, anche per conoscere le altre culture, quindi erano felici di passare del tempo con me. Parlare con loro mi ha reso partecipe di alcuni aspetti delle loro vite che agivano su di me come una strada in salita, che sai che non porta da nessuna parte. L’inflazione e la doppia moneta. La disoccupazione giovanile altissima. Il vedere come unico modo per liberarsi del regime quello di un attacco da fuori, una guerra: quando ero in Iran c’era la presidenza Obama negli USA e Rohuani in Iran, piuttosto riformista, ma l’Ayatollah era sempre Khamenei. Il tentativo di migrare con visti per studio, più semplici da ottenere, per poi stabilirsi in un Paese occidentale. E senza citare la condizione delle donne. Questo era il mio osservatorio, parziale, composto soprattutto da persone che potevano esprimersi in inglese. Ma per dire: il mio primo giorno a Teheran un missile è caduto al confine con l’Iraq, e tutto era normale. Perché tutti quei giovani – la popolazione è di 80 milioni e l’età media 30 anni –non agirvano per cambiare le cose? Perché le ribellioni lì finiscono nel sangue. Come nel 2009. E nel 2022… Io però  ho terminato la scrittura di questo romanzo nel 2021.

Ci sono pagine dolorose in merito alla libertà negata alle donne iraniane per il solo fatto di essere tali. Ma hai scritto anche della libertà che Maura, la madre di Daria, non si può concedere rispetto a un lavoro che odia perché è l’unica cosa che sa fare. Cos’è per te la libertà? Ti sei sentita libera di essere te stessa scrivendo questo libro?

La libertà è un filo sottile che percorre la linea del mio corpo e della mia possibilità di esprimermi. Scrivendo questo libro, mi sono sentita libera nello scegliere la forma, dare vita ai personaggi e alla loro storia, parlare di politica, archeologia, famiglia. La scrittura, molto più che la vita in generale, mi permette di sentirmi libera. Molto spesso mi sono sentita oppressa, fuori posto, soprattutto in situazioni in cui ero la parte debole. All’inizio mi ribellavo, non sono mai stata una che incassa in silenzio. Spesso la mia ribellione passava dall’andare via, in un’altra stanza o lontano. Questo andare via era una fuga. Mi chiedo: fuggire è libertà? Cambiare continuamente è libertà? Oppure restare, vivere giorno dopo giorno nel proprio contesto, sacrificando anche i propri sogni e le proprie inclinazioni se necessario, è libertà? In fondo valicare tutti i limiti equivale a non averne più. Allora forse la libertà sta proprio nella possibilità di scegliere questo o quello, e di commettere errori. Ci sono luoghi nel mondo dove la libertà può essere esercitata solo nello spirito, al chiuso di una stanza. E il filo sottile di cui parlavo all’inizio non c’è, c’è carne viva.

Parlando di libertà, non posso che pensare al carattere ribelle e deciso di Daria, giovane protagonista del romanzo che studia archeologia. Nei rapporti umani, siano essi fugaci storie di sesso o legami importanti come quelli con gli amici e con la madre, Daria vuole essere libera di scegliere, e questa sua volontà mal si combina con le regole sociali islamiche che vogliono le donne remissive e sottomesse. Quanto è stato difficile per questa personaggia adeguarsi alla vita in quel Paese, quanto lo è stato per te?

C’è sicuramente tanto di me in Daria, ma non siamo la stessa persona, questo romanzo non è né autofiction né un’autobiografia. Per lei è difficile inizialmente adeguarsi alle regole sebbene sia nel contesto protetto della missione archeologica.  È molto naïve e per amore segue Payam a Teheran, rimanendo incastrata in una dimensione politica e sociale molto più grande di lei. Quando sono andata in Iran, era un periodo tranquillo. Mettere il velo era di certo strano per me, ma sapevo che sarebbe durato poco. Ero molto cauta e tranquilla, e infatti è andato tutto bene. Quello che non mi aspettavo era il confronto con la sofferenza dei giovani, direi quasi una depressione generazionale. Non avevano speranze per il futuro se non emigrare, e a emigrare riesce solo una piccola parte, mentre io di speranze e di progetti ero piena.

Nel passaggio alla seconda parte del libro, c’è un cambiamento della narrazione, dalla terza persona si passa alla prima: Daria affida a un registratore le sue riflessioni e ci rendiamo conto dello scarto tra la giovane protagonista fiduciosa negli ideali di libertà e nel prossimo e la donna smaliziata che parla adesso.

La mia intenzione era quella di accompagnare chi legge in un ingresso “soffice” nella storia. Daria è giovane, è alla sua prima partenza, tutto è nuovo. Poi cominciano le difficoltà, fino agli spari sulla folla e Daria viene rimpatriata. È una privilegiata, ha un passaporto europeo, un’ambasciata a cui tornare, un volo che la riporterà a casa. Ma dopo quello che ha vissuto, niente è più lo stesso. Sprofonda dentro di sé, nei suoi pensieri, alza barricate nei confronti degli altri. L’idea del registratore mi è venuta di notte, come mi succede spesso. Volevo trovare un modo di dare voce allo smarrimento e alla solitudine, e una prima persona rapida e spezzata, colloquiale, mi è sembrata il modo giusto di rendere quello che volevo comunicare. Daria in quel registratore parla a sé stessa, o a Dio. Nella terza parte si alternano la terza e la prima persona, e più si ricompongono i pezzi, più la terza persona prende il sopravvento sulla prima.

Tra i tanti spunti interessanti che si ritrovano in “Centomila tulipani” c’è quello dell’altrove, del viaggio come liberazione dalle costrizioni, ma anche come ricerca e affermazione di sé. Per la protagonista è un tema fondamentale, sono curiosa di sapere quanto ci sia di te nella propensione all’altrove che ritroviamo in Daria. 

«Altrove. Non c’è un posto particolare dove vorrei essere o vorrei tornare e questo non sapere dell’anima mi rende incerta e confusa, come se non sapessi più riconoscere un colore o andare sui miei piedi. (…) Se io non appartengo a nessun luogo, a chi appartengo?». Per dirla con Carlos Castaned, come Daria, sto cercando una strada che sia mia, una strada che abbia un cuore. Di strade ne prendo tante, continuamente. A otto anni avevo già lo zaino pronto per scappare di casa (i miei genitori non sono brutte persone). Ho bisogno di andare lontano per guardarmi da vicino. È come se nella routine, nel quotidiano, non riuscissi a capire come sto, chi sono. Ci sono dei salici di montagna che si propagano sulla superficie delle rocce, espandendosi. È così che io leggo la mia storia, e la storia dei miei personaggi: nello spazio, più che nel tempo. E credo che la mia strada, quella del cuore, sia la scrittura.

Il tuo libro ha molti elementi del romanzo di formazione. Daria compie un viaggio che la vede pian piano diventare una donna diversa dalla ragazza delle prime pagine. Una donna che, pur avendo rincorso una relazione d’amore vero, come lei stessa lo definisce, per tutta la vita, quando ha da scegliere tra la propria libertà e quell’amore, sceglie la prima. Vuoi dirci che occorre imparare a scegliersi anche se questo, spesso, comporta rinunciare a cose importanti come l’amore?

Certamente sì. Credo che non si possa essere leali con nessuno, se prima non lo si è con sé stesse e che non si possa davvero amare nessun altro, se non proviamo ad amarci. Non importa quanto amore gli altri ci offrano, il vuoto non si colma se non c’è tenerezza e compassione verso di noi. Il nostro corpo, con tutto quello che c’è dentro, è la nostra casa. E di una casa bisogna prendersi cura. Clarissa Pinkola Estés scrive nel suo Donne che corrono coi lupi, «essere sé stesse significa essere esiliate da molti altri, e compiacere le richieste altrui fa sì che ci si senta esiliate da sé stesse. È una tensione tormentosa e difficile da sopportare, ma la scelta è chiara». Non c’è il neutro in italiano, ma questo messaggio vuole esserlo, includendo ogni genere, anche se parla al femminile.

Elisabetta Giromini, “Centomila tulipani”, Morellini Editore 2024

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Simona Raimondo

Simona Raimondo è nata a Catania nel 1988. Ha cominciato a scrivere per magazine online della sua città a vent’anni, occupandosi di cultura pop e società. Nel 2015 si è trasferita a Torino per studiare Reporting alla Scuola Holden, dove si è poi diplomata in Storytelling&Narrazione del reale nel 2017. Dopo avere conseguito il master in storytelling è tornata a Catania, dove ha lavorato come content editor e social media manager per diverse agenzie di comunicazione. Nel frattempo ha continuato a coltivare la sua più grande passione: scrivere. Ha infatti pubblicato alcuni racconti con riviste letterarie quali Formicaleone, Salmace Rivista e RISME Rivista. Nel 2022 ha esordito con il suo primo romanzo, Storia di Bianca (L’Erudita) e nel 2023 un suo racconto è stato scelto per essere inserito all’interno dell’antologia Oltre il buio (Giacovelli Editore).

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