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Cara Sarah,
ricordo quando poco tempo fa, parlando di una mia ricerca su Amelia Pincherle (1870-1954), scrittrice di letteratura per ragazzi ma anche drammaturga di ispirazione ibseniana nell’Italia del primo Novecento, nonché madre di Carlo e Nello Rosselli, assassinati entrambi per il loro impegno antifascista, tu mi parlasti di uno spettacolo teatrale sulla nipote Amelia Rosselli, poetessa di straordinaria intensità. Abbiamo così scoperto che i nostri interessi di studio e le nostre passioni si intersecavano: la famiglia Rosselli e le sue diramazioni nel tempo, la poesia, il teatro, l’attenzione all’autobiografia e alle storie di vita. Amelia Rosselli, come la nonna di cui porta il nome, sembra raccontarci di una sensibilità familiare che attraversa le generazioni, centrata sulla ricerca del sé più autentico. Proprio come il teatro, esperienza sempre di formazione comunitaria e al contempo di dialogo con le parti più intime di sé. Grazie di aver dato concretezza a questi incroci di passioni e di esistenze attraverso l’intervista realizzata con Elena Bucci, autrice di questo spettacolo dal titolo ‘Se Resistere dipende dal cuore’.

Cara Francesca,

cercare la voce di Amelia Rosselli tra le parole di Elena Bucci è stato uno splendido
perdersi. Eravamo in una pancia gravida di ombre e voci del passato, la Sala Ottagona della
Domus Aurea, voluta da Nerone e poi dimenticata e interrata per molti secoli. Stando lì, con
10 gradi sulla pelle, e tutt’intorno le pareti scure e porose, mi è parso come di sostare in una
grotta, in un luogo pronto ad accogliere ogni profondità. Lì la voce di Elena e la voce di
Amelia mi hanno raggiunta rincorrendosi e confondendosi persino. Come fu per ‘Onde’, dove
Elena Bucci ha esplorato l’amicizia e la scrittura di Katherine Mansfield e Virginia Woolf
lasciandosi attraversare da loro e confrontando la propria arte con quella di queste
Maestre, l’attrice incontra Amelia, diventa Amelia, interroga Amelia. Si avvicina, si allontana, per un attimo, forse, la incarna. La voce della poeta irrompe, con tutta la sua forza- in effetti inconfondibile- ma le note di Bucci giocano con lei a nascondino, ricercano un’armonia, talvolta una dissonanza, creano in dialogo nuovi ritmi. In ‘Se Resistere dipende dal cuore’ Luigi Ceccarelli opera una rielaborazione elettronica delle due voci, dal vivo, rendendo ancora più avvolgente e spaesante questo processo. Ciononostante Amelia c’è, è viva. E’ necessario trovare nelle sue parole, nei lampi di entusiasmo o di amarezza, nell’emozione che passa anche attraverso il corpo dell’attrice, il profilo di una donna e una poeta che da un lato pare nascondersi e proprio da quel nascondiglio brillare e rivelarsi.

Francesca Borruso dialoga con Elena Bucci

Elena, perché hai scelto di mettere in scena la poesia di Amelia Rosselli? Potresti dire quale idea, bisogno o emozione ha guidato la tua scelta?

Poetesse, poeti e poesia sono un mistero che mi affascina e del quale nessuno studio, almeno per me, riesce a scalfire il mistero. Quindi continuo ad aggirarmi accanto a loro come un’ape intorno al fiore. La poesia è un talismano che mi cura nel dolore, allarga lo sguardo, mi restituisce l’ascolto di me stessa e degli altri, mi aiuta a ritrovare la forza quando vengo annichilita dai meccanismi del mercato e dalla violenza senza futuro che distrugge vite e pianeta. Esprime quello che avrei voluto dire senza saperlo fare, sembra mite ma può fare più paura di una rivoluzione, perché attua sempre una continua rivoluzione di ogni ordine, individuale e collettivo: ti prende per mano e ti guida a cambiare il punto di vista, e ti fa girare ancora, e ancora una volta, e ancora, finché perdi l’equilibrio e cadi per terra, ma senza farti male. Più di una volta ho indagato poetica e biografia di poeti che hanno vissuto in regimi totalitari. Come ha potuto Osip Mandel’stam dal passo elastico spaventare Stalin con una poesia di auguri? In quale luogo dell’anima Alekos Panagoulis ha trovato i versi che scritti con il sangue gli hanno permesso di sopravvivere al carcere e alle torture? Amelia Rosselli non vive in apparenza una dittatura, ma la sua poesia si avventa contro le omologazioni e gli stereotipi, urla la sua resistenza verso una cultura e una politica che ancora costringono le donne a ripetere in modo sotterraneo i comportamenti che ne hanno decretato la sottomissione, nonostante si ripetano gli slogan che inneggiano alla libertà, alla liberazione, all’uguaglianza. Armata della sua cultura e della sua ostinazione parte in guerra ogni giorno e ogni minuto e nonostante le ferite avanza fino a quando, per troppa solitudine, non ce la fa più.
Mi pone tante domande che non hanno risposte, si occupa al posto mio di questioni che mi riguardano e al posto mio si uccide. Come posso non occuparmene se mi viene offerta questa occasione?
Luigi Ceccarelli aveva lavorato con lei in una Roma di tanti anni fa ormai perduta, fatta di vicoli abbandonati, bar dove c’erano acqua, vino, caffè e basta, teatri di ricerca nascosti dietro una saracinesca arrugginita, dove si progettavano rivoluzioni. Lei leggeva i suoi versi dal vivo in uno spettacolo della coreografa Lucia Latour, artista che stava ribaltando modi e mondi della danza e con la quale aveva lavorato la mia amica Monica, con la quale sognavamo l’arte da ragazze mangiando il gelato sotto i pini di Cervia. Quando però cominciò a non contenere più la sua lingua frammentata, il suo dolore, il disorientamento, smise di esporsi, di viaggiare, di recitare. Allora Luigi Ceccarelli la registrò, con quella erre arrotata, la voce inconfondibile, le pause, le accelerazioni, quelle strane stonature sghembe che hanno sempre i poeti quando leggono i loro versi ad alta voce. Mi chiese se volevo occuparmi di lei in un lavoro per il quale la sua voce e la mia, elaborate in studio e dal vivo dalla sua sapienza di compositore elettronico, sarebbero diventate la musica stessa. Ho accettato senza pensarci un attimo.
Ho interrogato lui e chi l’aveva conosciuta, per assorbire attraverso di loro la sensazione dei suoi sguardi taglienti, le improvvise ritrosie, le inimicizie, le grida di aiuto, le serenità imprevedibili. La immaginavo nella sua casa solitaria che guardava i tetti di Roma mentre la giovinezza e gli amori fuggivano via. Provo rispetto, paura e grande interesse verso le malattie della mente, quelle che non si vedono, quelle che rendono i suicidi così indifesi e allo stesso tempo astuti. Sono caduta nella sua voce, ripetendomi che non volevo assolutamente imitarla, ma solo trovare un modo di rifare la sua erre e la sua cadenza che fosse un omaggio e un tentativo di comprenderla. Luigi ha registrato ed elaborato la mia e la sua voce di nascosto e quando me le ha fatte sentire all’improvviso vicine io ero lei, lei ero io. Non so se capisco più cose ora, dopo che ho letto molto di lei, ho selezionato poesie, interviste, scritti, documenti e ne ho fatto una drammaturgia, o se tutto quello che è necessario sapere si nasconde nell’atto di trovare nella mia voce e nel mio corpo il luogo dove situare la sua poesia. Di certo non vedo l’ora di rifare il viaggio insieme a Luigi e ad un pubblico, perché ogni volta che attraverso i materiali che la riguardano trasformandoli in voce e musica capisco qualcosa di più non di lei, non della poesia forse, ma della vita e della morte sì e ne traggo forza per attraversarle entrambe.

Ci sono dei temi emergenti nella poesia di Amelia Rosselli che ritieni possano essere attuali, universali?
Amelia si occupa, come altri poeti, di vita, morte, amore, odio, tenerezza, rabbia, desiderio disperato di ritrovare l’infanzia, del rapporto tra il mondo e lei stessa, tra tecnica e arte, tra la poesia e la vita. Le parole diventano suono, musica, rito che muove la realtà per lei e per chi la legge, ancora con più forza se lo si fa ad alta voce, come fanno i poeti quando cercano le parole. Con la sua capacità di resistere alle lusinghe della fama, della ricchezza e degli agi, con la sua ricerca di una lingua originale che sfugga a ogni regola che non sia la sua musica interiore, che strappi il linguaggio dalle convenzioni della comunicazione e del pensiero, mi pare quasi più attuale e universale ora di quando visse.

Come procedi nella tua modalità di lavoro? Per me, ad esempio, è prezioso intrecciare il testo da interpretare con la vita privata del suo autore/autrice. Per te? Penso che questo aspetto possa essere decisivo soprattutto per Amelia Rosselli, che ha avuto una vita segnata dalla perdita del padre e dello zio uccisi dai miliziani fascisti nel 1937.

Ho insistito con Luigi Ceccarelli per fare entrare la sua biografia nella drammaturgia perché studiarla è stata per me una via maestra per volerle bene. Mi ha dato l’illusione di capire meglio come interpretare la sua opera. Non voglio difendere nessuna teoria che metta in stretta relazione causa ed effetto e i traumi con l’arte, ma forse in essi mette radice l’ispirazione. Il modo con il quale parla della sua vita e della poesia, come descrive l’annuncio che la madre dà a lei bambina della morte del padre e dello zio fa sì che io la veda, la intuisca. Lei stessa ha trasformato in racconto questi e altri ‘fatti’ e questioni della sua vita consegnandoli al pubblico in diverse occasioni. Nella mia drammaturgia c’è un filo continuo che lega poesia, vita, pensiero. A tratti si intravede anche una cronologia, spezzata e ricomposta dall’andare e venire delle conflagrazioni dovute al suo male. Lo chiamo così perché la rendeva infelice. Non so capire se fosse anche all’origine della sua creazione. Non lo vorrei, ma questo riguarda il mistero della sua interiorità, sul quale non oserei mai esprimermi.

Amelia Rosselli era appassionata di etnomusicologia, vera e propria studiosa in tal senso. Ogni linguaggio ha una sua musicalità, certamente; ma nella decodifica del suo testo poetico, hai avvertito la presenza di questo aspetto, ossia una attenzione particolare alla musicalità del linguaggio?

In ogni poesia sento una musica, ma nella sua opera la musica è sovrana e viaggia allacciata all’immaginazione. La prendono per mano e la trascinano chissà dove e lei lascia fare, sorvegliando la direzione con il suo intelletto lucido e spietato. Sono convinta che le parole risuonino dentro comunque, ma credo, come ho già accennato, che la lettura ad alta voce, al quale in questo tempo si è meno abituati ed esercitati, restituisca emozioni impreviste e faccia accadere qualcosa che trasforma tempo e spazio della quotidianità, come avviene in teatro. E’ facile riconoscere allitterazioni, ritmi, assonanze, ma la musica della sua poesia è molto più di questo. Risponde a voci senza corpo che sente nella sua testa e nel mondo intorno, in un dialogo ininterrotto che diventa più potente del rapporto con la vita stessa e con gli altri. Il suo monologo interiore tradotto in testo poetico sembra non trovare mai fine, mai riposo, perché come un fiume scorre sempre accanto alla vita, è per lei la vita stessa.

Prima di Rosselli hai portato in scena Woolf e Mansfield. Come avvicini ogni “nuova” autrice e cosa significa incarnarla?

Ci sono autrici, come Woolf e Mansfield, delle quali sono caduta innamorata. Continuo a rileggerle perché le comprendo ogni volta in modo diverso, ma sempre illuminante. Mi tolgono la paura di vivere, anche se entrambe non hanno certo vissuto una vita facile, anzi, proprio per questo. Nello spettacolo ‘Onde’ mi ha commosso vedere come si sono intrecciate le loro esistenze tanto diverse, come le abbia allacciate la febbre della scrittura che le ha portate a operare continue rivoluzioni dentro se stesse, nelle loro vite, nel mondo intorno a loro. Mi affascina il loro sentirsi rivali e complici, facendosi però compagnia in un ambiente nel quale pochi potevano comprendere la grave partita che stavano giocando con sé stesse e la loro arte. Era un duello. Mi ha colpito come Woolf si senta orfana dell’unica lettrice della quale le importi il parere. E intanto la loro opera come onde continua a lambire il mondo. Ho letto e riletto le loro opere, le biografie, le lettere.
Ho selezionato alcune parti che mi colpivano per differenze e affinità, ho cominciato a mettere in relazione e ho trovato un disegno da seguire, ma per nulla definitivo. Ho immaginato uno spazio, cosa per me essenziale anche per costruire il testo, dove entrambe si muovono tra velature semi trasparenti che suggeriscono paesi, esterni, interni, alberghi, case, giardini, un cimitero, si cercano, comunicano tra loro quasi fossero in una sorta di limbo nel quale possono mettere in scena la loro vita e finalmente celebrarsi l’un l’altra. Pur sentendomi indegna di questo paragone, le sento sorelle per come hanno rinunciato alla vita per restituirla a chi non l’aveva più con la loro scrittura per come hanno dato voce a chi non l’aveva e non l’avrebbe mai avuta. Non sento mai di incarnarle, ma di tenerle vicine e prestare a loro il mio corpo e la mia voce, perdendomi e ritrovandomi seguendo la loro lezione. Lo studio della vita e delle opere è alla base di ogni lavoro che intraprendo per vivere e raccontare le autrici, ma le strade sono sempre diverse perché cerco di adattare la mia ricerca alle differenze che intravedo tra loro. Le accomuna la volontà e la capacità di affermare la loro personalità e di esprimere la loro poetica al di là dei condizionamenti della società, della politica, del costume.
Ho narrato anche altre artiste, magari solo in un’occasione, e questa intervista le sta risvegliando intorno a me. Sarebbe troppo lungo raccontarle a una a una, ma tutte le ringrazio per quello che mi hanno dato, prima di tutto il coraggio. Voglio citare però anche le donne non famose che racconto in quella serie di spettacoli che vanno da ‘Autobiografie di ignoti’ al recentissimo ‘Canto alle vite infinite’, nei quali do voce a chi non l’ha mai avuta, ai fantasmi che mi assediano e chiedono di essere ricordati. Sono le poetesse che non hanno avuto tempo di scrivere, ma che hanno fatto della loro vita poesia, con grazia, forza e generosità. Anche loro sono indimenticabili maestre che hanno tracciato la via che permette a me, ora, di scrivere, recitare, creare.

Ogni messa in scena è una traduzione, una restituzione del pensiero autoriale che si intreccia inevitabilmente con quello del lettore o del suo interprete. Quali riflessioni ed emozioni hai inteso valorizzare nelle tue interpretazioni?

Credo di mettere in scena vita e opere di queste artiste proprio, per comprenderle, per trovare amiche e maestre, per incontrarle attraverso il teatro, visto che di persona non posso farlo più. Cerco di capire e approfondire il senso dell’arte in relazione alla vita mia e degli altri e ne indago le funzioni. Quali sono? Cambiano davvero nel tempo? Ci rende migliori l’arte? Studio, mi preparo e poi aspetto con terrore e trepidazione che tutte le mie costruzioni, le mie intenzioni, le mie prove, vengano mandate all’aria dall’incontro con il pubblico, la cui energia e reazione spesso mi sorprende. Quella è la prova che sto creando un lavoro vivo, nel quale la vita scorre, sposta, devia e fa rotolare via anche il mio desiderio di controllo delle emozioni e di quello che intendo trasmettere. La libertà che offrono la tecnica e l’esperienza è proprio quella di riuscire a lasciare andare la barca dove vuole, dando soltanto un piccolo colpo al timone se si rischia di perdere la rotta, ma senza paura di andare dove non si era immaginato. Là mi aspettano la poesia, le opere e le risate delle artiste, e delle donne, che ho creduto di studiare, comprendere e restituire.

*Francesca Borruso è docente di storia della scuola e di storia dell’infanzia presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. 

 

foto di Luca Concas dal sito https://bellebandiere.blogspot.com/

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