Denti di latte di Silvia Calderoni, edito da Fandango, è l’esordio narrativo dell’attrice, autrice e performer, parte attiva tra le altre della compagnia Motus, protagonista e coautrice di MDLSX, andato in scena nei principali teatri e festival internazionali.
di Laura Marzi e Sarah Perruccio
Cara Laura,
ricordo che la prima volta che abbiamo parlato di teatro lo facemmo circa MDLSX. Lo avevi visto da poco e ne eri rimasta entusiasta. Era la primissima riunione del nostro direttivo SIL appena eletto (2018-2019) e avremmo voluto dare più spazio all’arte agìta nel corpo. L’idea, chiaramente, mi esaltava. Per questo ora che ho letto Denti di latte di Silvia Calderoni, primo romanzo della magnifica performer di MDLSX (come di molti altri iconici lavori dei Motus e non solo), ho desiderato parlarne con te. Cosa ne pensi di questo romanzo? Non trovi straordinario poter in qualche modo accedere alla parte creativa più solitaria e riflessiva di un’artista di cui di solito vediamo sì l’intimità, ma esibita solo dopo un minuzioso e attento lavoro di scavo fatto collettivamente, e prioritariamente attraverso il corpo, la voce, una parola più poetica che prosaica? Un po’, insomma, come vedere, attraverso lo specchio, l’altra faccia della creatrice e delle sue creazioni.
Cara Sarah,
Come sai, ho molto amato il lavoro di Silvia e la sua interpretazione, ricordo anche di averla intervistata anni fa proprio durante il tour di MDLSX. Denti di latte è un testo in prima persona in cui la presenza degli altri e delle altre interviene quasi solo attraverso dei richiami, molto brevi, come per esempio: «Silviaaaa!». A rivolgersi alla protagonista la maggior parte delle volte sono «lei» e «lui», cioè la coppia genitoriale, che inevitabilmente costituisce un polo cardine in questo testo che racconta un’infanzia: la scuola, la piscina, le gare di corsa, la festa dell’Unità, ma lo fa a partire da uno sguardo che non segue mai lo svolgimento dei fatti, bensì il desiderio di condividere impressioni ed esperienze affettive.
A connotare il testo è lo sguardo interno, da dentro il corpo, attraverso cui Silvia Calderoni scrive. Il racconto del procedere delle stagioni, poi, avviene attraverso una focalizzazione decisamente interessante sullo spazio, quello occupato dal corpo di Silvia, nella vasca, sotto il lavandino, seduta accanto al padre mentre la mattina molto presto i due vanno al mare e lei lascia il braccio fuori dal finestrino. La priorità di questa prospettiva fa sì che nel testo acquisiscano un ruolo da protagonista anche i mobili, la loro descrizione, il posizionamento e i cambiamenti che intervengono nella collocazione in casa. L’importanza cruciale della coordinata spaziale che risuona ovviamente con il percorso di artista di teatro di Calderoni è condensata nell’espressione dell’infinito amore che «Silvia» ha per «lui»: «a volte lo guardo e lo vedo pensare e il suo pensare prende tutto lo spazio».
Sarah Perruccio dialoga con Silvia Calderoni
1- Tu sei una performer, un’attrice e un’autrice per la scena. Perché scrivere un romanzo ora?
Tutto è nato durante il periodo del Covid. Tendenzialmente è un tempo che abbiamo rimosso, soprattutto nelle narrazioni. È un tempo in cui abbiamo ragionato collettivamente, anche se a distanza, sul modo diverso di relazionarsi al tempo, alle pratiche, ai nostri lavori, alla vita. Come sai arrivo da un’esperienza, principalmente quella del teatro, dove è richiesta una convocazione di corpi. Ci veniva proposto di spostarci su piattaforme online, un po’ come era stato per la scuola. Per me non era possibile. Eravamo particolarmente connesse con una parte di noi più profonda, io non riuscivo a stare con questo tipo di lavoro on-line. E allora ho deciso. Anzi, in realtà avevo un grilletto parlante in testa perché Fandango un anno prima mi aveva chiesto di scrivere un libro e io avevo detto “No, assolutamente no, non è la mia pratica”. Ho preferito continuare con la mia pratica che è la scrittura del corpo, della scena, dello spazio, cambiando semplicemente il dispositivo. E quindi mi sono in qualche modo lanciata in quest’avventura.
Non ho pensato “adesso sono una scrittrice”, scrivo certo, ma io sono un’autrice della scena quindi affronto la struttura del romanzo come affronterei il mio lavoro. Tutto è nato dalla riflessione su cosa sia la scrittura (una scrittura multipla, quella del teatro, non lineare ma multivoce) e come tutta questa moltitudine potesse essere riassunta in una forma di scrittura altra cambiando semplicemente il dispositivo. Infatti nel “libretto”, io lo chiamo “il libretto giallo”, c’è tantissimo corpo, io l’ho affrontato anche prendendo le strade più semplici. C’è una struttura in prima persona perché la scena io la scrivo principalmente in prima persona anche quando c’è la regia di qualcun altro.
Sono partita dal corpo che è lo strumento che più sapevo gestire, e poi c’è qualcosa di molto cinematografico. C’è un’attrice protagonista, due non-protagonisti “lei” e “lui” e poi ci sono delle comparse. Ho lavorato con quello che sapevo, mantenendo una zona di comfort, proprio perché il comfort però veniva disinnescato da un dispositivo che è completamente un altro.
Come mi ricordavi, nel tuo procedimento creativo, da attrice, c’è molto lavoro collettivo. Scrivere è stata per te un’esperienza solitaria? O, in qualche modo, il processo di scrittura ha incluso altre persone? Per la prima volta ho sperimentato la solitudine nella scrittura. Persino le persone più prossime a me non sapevano che stavo lavorando a questo libro, anche se era una solitudine abitata da spettri. Spettri di me medesima, tornando nel luogo dell’infanzia cercando di recuperare la voce di me bambina. Rispondendoti in maniera più precisa, ho avuto molti contatti con l’editor, una figura per me molto vicina a quella che a teatro è il dramaturg. Anche se è una figura silente, che continuamente si toglie. Secondo me, invece, dovrebbe esserci in copertina il suo nome a fianco al mio. Come “l’occhio esterno” a teatro, quella persona che viene a vedere le prove e a darti indicazioni. Per chi viene dalla mia pratica c’è una necessità di riconoscere questo lavoro collettivo. Nella scrittura tutto è molto legato alla figura dell’autrice o dell’autore. Nel prossimo libro vorrei ci fossero come dei crediti “scritto da…”, “con le suggestioni di…”, “prima lettura di…” perché la scrittura è comunque un lavoro molto più collettivo di quello che si pensa.
Dal palco è possibile sentire il pubblico e in qualche modo si crea un dialogo con chi è in sala. Nello scrivere sentivi in qualche modo un tuo pubblico possibile?
Sono partita un po’ naif, in senso bello. Pensavo che una delle grandi differenze tra scrivere un romanzo e il teatro fosse che dopo averlo scritto questo avrebbe viaggiato da solo, al contrario degli spettacoli dove è sempre richiesta la mia presenza, dove c’è la convocazione dei corpi. Pensavo che un libro non avesse bisogno di questa cosa. E invece, che fosse presentato da me, era un po’ un’esigenza. Un’altra cosa che non mi aspettavo è che c’era un’aspettativa che scrivessi di genere o di teatro e invece il libro tratta d’infanzia. Ma va bene così, perché l’infanzia è molto vicina alla condizione della scena. Le attrici stanno in scena con un segreto come le bambine e i bambini stanno in relazione al mondo con un segreto, uno sguardo che scrive e rifà il mondo. Rivedono le cose e le disegnano come se prima non fossero mai esistite.
Hai prestato il tuo corpo a altre storie e altre immagini. In questo caso tu porti chi legge all’interno del tuo corpo, o almeno di quello della Silvia bambina del romanzo. C’è in questo senso un filo che lega la scena e la scrittura attraverso il corpo?
Approcciarmi alla scrittura di un romanzo, non avendo esperienza, a differenza della scena dove ne ho molta, ha significato non sapere cosa avrebbe innescato quello che scrivevo. Questo corpo che disegna lo spazio, è presente, diventa unità di misura del mondo, ed è incarnato da chi legge. Varie persone che hanno letto il libro mi hanno detto di essere tornate lì, in quel periodo in cui avevano un altro posizionamento rispetto al mondo. Stare in relazione al mondo con il gioco, con un segreto, con la possibilità di poterlo riscrivere, è molto prezioso. Io sono stata fortunata perché ho dovuto tenere viva la bambina, per il lavoro sulla scena, persino alle volte come fossi in un laboratorio medico. Questo libro però ha permesso ad altre persone di ritrovare questo potenziale. Quindi, sì, ho lavorato in modo diverso rispetto al teatro ma quello che si produce è in qualche modo simile.
Nel tuo lavoro con Motus, e non solo, è sempre presente un elemento politico molto forte. C’è stata una spinta in questo senso nella scrittura di questo romanzo?
Sì, c’è un posizionamento, una certa libertà. Un voler raccontare l’infanzia fuori da alcune interpretazioni di giusto e sbagliato, mantenendo delle zone in cui coesistono il bello e il brutto. Ad esempio, alcune cose del rapporto tra Lui e Lei o in relazione alla bambina potrebbero essere viste come bruttissime ma anche piene d’amore. In questo c’è un posizionamento.
Per me è stato politico anche scriverlo durante il covid, lo abbiamo fatto in tante e tanti tra gli attori e le attrici. Forse capiremo tra decine di anni cosa è successo in quel periodo, ci siamo come preparate a una guerra e abbiamo esplorato nuove possibilità.
Silvia Calderoni, Denti di latte, Fandango libri, 2023
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