Nel dicembre 2019, durante il convegno biennale della SIL dedicato al lavoro delle donne, si tenne un workshop sulla rappresentazione letteraria, e non solo, della migrazione femminile. (Per saperne di più sul convegno, e scaricare l’ebook con gli atti dei workshop clicca qui). Coordinava uno dei workshop Lidia Curti, una donna straordinaria che purtroppo abbiamo perso lo scorso anno.
Fra i numerosi interventi, una riflessione di Chiara Ingrao sulle sfide da lei affrontate nella scrittura del suo romanzo “Migrante per sempre”, ispirato ad una storia vera di emigrazione italiana ma anche di immigrazione in Italia. Quando abbiamo deciso di pubblicare questo testo su Letterate Magazine, Chiara ci ha proposto di allargare lo sguardo anche ad altre storie di donne migranti. La scelta che abbiamo fatto non pretende di essere esaustiva, solo di sollecitare curiosità e spunti di riflessione. Vi proporremo sia vicende di migrazione dall’Italia verso altri paesi, in diversi luoghi e diverse epoche, sia storie di immigrazione in Italia da vari angoli del mondo: dalla Somalia alla Romania, dalla Bosnia alla Palestina, dall’India agli Stati Uniti, all’Argentina, al Belgio.
Piano piano la sofferenza sparisce
«All’inizio mi mancavano tutti quelli che conoscevo, le commesse del negozio favorito, i professori delle mie figlie. Tutti. Mi mancavano perfino gli alberi della mia strada. Qui non mi conosceva nessuno e avevo la sensazione di essere invisibile». La voce è di Liliana Nechita, rumena, che vive in Italia da più di 15 anni.
Dialogo per iscritto tra Loredana Magazzeni e Liliana Nechita
Liliana Nechita ha esordito nel 2017 con Ciliegie amare (Laterza). Tra i suoi libri, “Bambole di fango” (2019), “Piccola mamma” (2020), il suo primo volume scritto direttamente in lingua italiana e, nel 2021, “L’imperatrice”, un romanzo corale sulla cultura contadina, forte, ironico, sincero.
Partendo dall’idea che “chi è stata migrante resta migrante per sempre”, cioè non può più sentire un’appartenenza totale né alla propria terra e cultura d’origine né al luogo/cultura in cui si è scelto o ci si trova a vivere, quale mix fra disagio/sofferenza esistenziale e quanta maggiore profondità e ampiezza dello sguardo, su se stesse e sul mondo si ha?
L’emigrazione aiuta a conoscerci e a conoscere il mondo. Ho scoperto di essere più forte di quanto pensavo, ho dovuto sopravvivere, l’inizio è sempre difficilissimo. Ti ritrovi a migliaia di chilometri dal tuo universo di prima, universo formato di familiari cari, vicini di casa. All’inizio mi mancavano tutti quelli che conoscevo, le commesse del negozio favorito, i professori delle mie figlie. Tutti. Mi mancavano perfino gli alberi che vedevo sulla mia strada. Qui non mi conosceva nessuno e avevo la sensazione di essere invisibile. E debole. Però, un giorno, un vicino di casa della famiglia dove lavoravo mi ha salutato con ”Buongiorno, signora!”. E’ stata la mia prima vittoria, qualcuno mi conosceva, mi salutava. La seconda vittoria, enorme, è stata quando mi sono iscritta alla biblioteca pubblica di Perugia, mi sembrava di volare per la felicità, avevo preso Pirandello, lo leggevo anche a casa mia, in rumeno, ma avevo capito che potevo leggerlo in originale ed ero emozionatissima. Piano, piano, la sofferenza sparisce oppure diminuisce e riesci a vedere le cose buone. Per esempio, quando ho capito che a Firenze posso vedere per davvero le statue di Michelangelo, sono andata lì la prima domenica libera.
Non sapevo ancora parlare bene, ma volevo vedere con i miei occhi le statue che vedevo sulle fotografie che accompagnavano un mio libro d’infanzia. La bellezza d’Italia mi ha salvato e curato le mie ferite. Mi sento a casa qui, adesso, ma sono passati 15 anni e, intanto, ho ricostruito un altro universo personale. Così ho imparato che alla fine il mondo è solo uno, che le frontiere non separano per davvero, che i mondi diversi si toccano e, alla fine, la gente comune è sempre dimenticata da tutti. In tutti i paesi. Anche i miei libri hanno tematica sociale comune, quello che accade in Romania succede anche qui: la gente emigra, i contadini sono dimenticati etc.
Come interpreti il tema della identità fra culture diverse, come lo hai sviluppato nei tuoi romanzi?
Non ci si riesce per davvero a trovare un equilibrio perfetto. Per esempio, leggo le notizie rumene e italiane, lo so quanto costa il pane lì e qui, si vive sempre fra due mondi, scegli di vivere in uno, ma pensi sempre anche all’altro. Ma la distanza, guardare dall’alto, fa bene, riesci e vedere cose che da vicino non si notano. Solo quando ti allontani arrivi a vedere che cosa hai perso e quando ti avvicini vedi che cosa hai guadagnato. All’inizio tutto pare diverso, ma i contadini della Romania zappano la terra proprio come qui, i contadini d’Italia riescono a sopravvivere nei borghi abbandonati come quelli della Romania. Quando mi sento furiosa o sconvolta per una ragione sociale… scrivo. E quando scopro che le stessa cosa succede dappertutto scrivo ancora. È la mia forma di protesta.
Quanto è importante la scelta di molte autrici di inventare un mix linguistico originale per riuscire a rendere il contenuto emotivo della propria storia? Come vivi la differenza linguistica e la scelta di scrivere in italiano?
Mi affascinano le parole, ho dei periodi in cui ne uso qualcuna solo perché mi piace il suono. La conquista della lingua è sempre una forma di gioia immensa. Vi do un esempio banale: ascoltavo Laura Pausini a casa mia, mi piaceva. Poi ero arrivata in Italia senza sapere una parola. Dopo un po’di tempo, ero in un negozio, l’ho sentita, all’improvviso capivo il testo, che meraviglia! Dopo tanti anni, adesso mi è tante volte più facile parlare in italiano o scrivere in italiano. Il problema dei migranti è che dopo tanti anni si arriva a dimenticare parole dalla lingua materna, visto che non le usi più. Quando parli al telefono con le persone care chiedi come stanno, cose così, ma se non usi l’intero vocabolario può succedere che lì per lì ti dimentichi qualcosa. Scrivere in italiano? Sbaglio ancora, ma dentro la mia testa è normale scrivere anche in italiano.
Nei tuoi romanzi è presente la relazione madre-figli/figlie, soprattutto nel romanzo ”L’imperatrice”. Qual è la tua esperienza?
Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu… dice una canzone. Chi vive fra due mondi non può essere capito da chi ha radici in una sola terra. Quando partii, lasciai a casa una madre e due figlie. Mamma mi diceva, al telefono oppure nelle lettere: «Stai lì, non pensare di tornare, il tuo paese è là dove sei felice». Le mie figlie volevano il mio ritorno, ma il mio aiuto economico era fondamentale. Come si fa a dividere un corpo in due paesi? Non è mica possibile. “L’Imperatrice” era mia suocera, una donna semplice e forte, una contadina saggia. Quando il suo nipote favorito aveva annunciato che voleva partire per l’Italia, sbuffò: «Mannaggia a tutti voi! Adesso vogliono tutti case di proprietà, macchine e mobili nuovi. Io ho cresciuto cinque figli e stavamo tutti insieme, in due camere, anzi, con me stava pure la madre del mio primo defunto marito. Mia suocera stava con noi quando lui morì, che dovevo fare, cacciarla via di casa? Ho preso cura di lei fino alla morte, con il mio secondo marito. Era difficile, ma ognuno aveva un compito da svolgere e non eravamo mai soli. Adesso vogliono tutti essere soli e ricchi. Dicono che la felicità non sta nell’accumulare beni, ma nello stare insieme. Ma questo si deve ancora riscoprire».
Attualmente stai scrivendo? Su cosa scriverai?
Si, ho appena finito un libro sul comunismo, racconto com’era per davvero la vita della gente comune, si sa poco, tutti sanno che Ceausescu aveva un grande palazzo e che c’è stata la Rivoluzione. Ma come si viveva non si sa. Ho considerato che si dovrebbe sapere, visto che nel mondo alzano la testa tanti partiti estremisti. Eh, si, ho un altro libro in testa. Scrivere è un modo di vivere per me e un modo di protestare contro le ingiustizie sociali.
Liliana Nechita, “L’imperatrice”, FVE edizioni, 2021
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Loredana Magazzeni
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